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Guerrieri
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E-book384 pagine5 ore

Guerrieri

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Info su questo ebook

Italia meridionale, undicesimo secolo. Il potere esercitato sulla Puglia da parte dell'impero bizantino sta iniziando a scricchiolare. Rivolte e tumulti imperversano lungo la costa adriatica. Il longobardo Arduino, un mercenario al servizio del generale Michele Doceano, decide di sequestrare la fortezza di Melfi. L'unico modo per fronteggiare l'esercito nemico è però quello di ottenere l'aiuto di Guglielmo D'Altavilla e dei suoi sei fratelli...Riportando alla luce un periodo storico spesso trascurato dalla narrativa europea, David Donachie riesce a coniugare con maestria accurati dettagli storici e finzione, accompagnando il lettore in un'avventura mozzafiato tra intrighi storici, battaglie all'ultimo sangue e personaggi intrepidi e valorosi. -
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9788728015285

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    Anteprima del libro

    Guerrieri - Jack Ludlow

    Guerrieri

    Translated by Daniela Pomposo

    Original title: Warriors

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2009, 2021 Jack Ludlow and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728015285

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga Egmont - a part of Egmont, www.egmont.com

    Prologo

    La Puglia era in fermento e l’impero bizantino ne era pienamente responsabile: lungo la costa adriatica, quasi tutti i possedimenti bizantini nell’Italia meridionale erano in rivolta. I tumulti si estendevano dai grandi porti commerciali alle ricche coltivazioni che si spingevano a ovest fino alla barriera degli Appennini. Cercando di sfruttare a proprio vantaggio la divisione tra gli emiri saraceni nell’isola di Sicilia, Costantinopoli aveva deciso di invadere e di riconquistare il prezioso possedimento. I rigorosi criteri di selezione impiegati nei feudi vicini per reclutare il numero di soldati necessario al compimento dell’impresa, tuttavia, gli si erano ritorti contro.

    Come l’impero romano nell’antichità, l’impero bizantino aveva spesso problemi nei suoi possedimenti più distanti. Non poteva essere altrimenti, in un territorio che si stendeva per migliaia di leghe, dalla punta estrema della penisola italiana, attraverso i montuosi Balcani, fino alla stretta lingua di terra del Bosforo, per giungere infine nella selvaggia Anatolia, dove cominciavano ad affermarsi gli ottomani. Tra le province, la Puglia era la più tormentata, ospitando una considerevole quantità di reggenti greci, perennemente ai ferri corti con la popolazione locale.

    Ma c’era anche un terzo gruppo, numeroso e maggiormente eversivo, con cui competere: i longobardi, discendenti di una tribù nordica che aveva invaso la penisola cinque secoli prima allo scopo di conquistarla. Assetati di potere, ribelli per natura e restii all’integrazione, non erano mai stati visti di buon occhio ed erano stati costretti a soccombere al potere combinato dell’imperatore Carlo Magno e della travolgente forza bizantina, mantenendo il controllo, come subordinati, solo dei principati e dei ducati di Campania e Benevento.

    Non si erano però dimenticati che, come etnia, avevano un tempo dominato la fertile Puglia ed erano perciò sempre pronti ad alimentare le fiamme di un’insurrezione. Inoltre, ai confini settentrionali e occidentali, potevano contare sull’appoggio di potenti magnati longobardi, dal momento che condividevano tutti il sogno di creare un regno indipendente che comprendesse l’intero territorio della penisola a sud dello Stato Pontificio.

    L’impero bizantino poteva opporsi alla realizzazione di quel sogno in diversi modi: un regno richiede un sovrano e nessun longobardo era disposto a fidarsi ciecamente di qualcun altro, o ad accettare di sottomettersi. I longobardi avevano avuto lotte intestine in passato e si erano rivelati molto più inclini a ostacolarsi a vicenda che a unire le forze contro un nemico comune. Costantinopoli invece metteva in pratica con successo già da tempo la tattica del divide et impera, ricorrendo all’oro come alla forza bruta, sia all’interno che all’esterno dei confini.

    Bisanzio aveva inoltre costantemente a disposizione un cospicuo numero di valorosi generali – uomini che sapevano come placare una rivolta – e il giovane Michele Doceano, nuovo catepano della Puglia, non faceva eccezione. L’unico porto ancora escluso dalle sommosse – essendo il più grande, nonché sotto il saldo controllo dei Greci – era quello di Bari. Da lì, con alcuni uomini ben addestrati e ben poche risorse, Doceano partì per andare a portare pace nella regione conosciuta dai comandanti dell’impero come il Catepanato.

    Rapidità negli spostamenti e infedeltà dietro compenso, uniti alla mancanza di coesione tra coloro che intendeva sopraffare, erano le sue principali risorse, che lo rendevano capace di arrivare alle soglie di una città in rivolta prima ancora che i suoi abitanti sapessero che era in marcia. Incapaci di fronteggiare i suoi attacchi repentini, per via di difese molto spesso inadeguate, abbandonate miseramente a se stesse e prive di supporto esterno, le città insorte vacillavano e poi finivano inesorabilmente per capitolare, una dopo l’altra.

    Riprendersi i possedimenti imperiali, tuttavia, non equivaleva a riuscire a mantenerli con un numero limitato di forze armate. Ogni città, piccola o grande, del Catepanato, era parzialmente o interamente fortificata; un paio lo erano alla perfezione. Città come Bari e Brindisi avevano mura solide e porti così ben difesi da resistere, in passato, ad assedi durati oltre un anno. In molte città dell’entroterra le mura erano in condizioni più o meno malridotte e il malcontento dilagava. A nord e a ovest si richiedeva protezione al principato di Benevento, sul versante orientale degli Appennini, invece, ai potenti feudi longobardi della Campania: Salerno, Capua e Napoli.

    Due immense fortezze sorgevano in cima alle montagne: Troia e Melfi, capaci di respingere perfino le potenti armate degli eredi di Carlo Magno. Il rischio che Doceano correva era semplice: l’aiuto esterno era una possibilità concreta, che avrebbe potuto incoraggiare i ribelli della sua giurisdizione a insorgere di nuovo. Non aveva le truppe necessarie a tenere sotto controllo la costa adriatica, ripristinare la pace nell’entroterra e allo stesso tempo presidiare i passi montani attraverso cui poteva sopraggiungere il pericolo.

    La fortezza di Troia era sotto il controllo dei mercenari normanni, uomini che erano al servizio di Costantinopoli da quasi vent’anni e che fronteggiavano un feudo pontificio, il principato di Benevento. Più a sud sorgeva il bastione di Melfi, ora lasciato senza presidio, che controllava il tragitto verso la Campania. Qui era necessario trovarsi un alleato, o corrompere qualcuno tra la popolazione indigena, inclusi i longobardi, che non erano tutti ostili all’egemonia bizantina. Tra di loro vi erano infatti uomini che avevano fedelmente servito l’impero, sotto lauto compenso.

    Arduino era uno di questi, e il suo operato al riguardo era stato esemplare. Aveva appena fatto ritorno dalla poco riuscita impresa di riconquista della Sicilia, dove aveva condotto un contingente di picchieri della Puglia al servizio di Bisanzio, fino a quando non ebbe un alterco con l’irascibile generale in comando, un gigante superbo che rispondeva al nome di Giorgio Maniace. Invitato dai compagni longobardi, al suo ritorno, a unirsi alla rivolta, si era rifiutato di prendervi parte ed era rimasto al fianco del catepano. Da inviato, era riuscito in qualche modo a mediare una riconciliazione con diverse fortezze insorte, a favore di Doceano, evitando così spargimenti di sangue.

    Oltre a essere così utile a Bisanzio, possedeva un’altra qualità, di uguale importanza: la certezza di poter ingaggiare uomini affidabili a presidio dei confini, come per esempio i normanni della Campania, al fianco dei quali aveva combattuto durante la campagna di Sicilia. L’esercito dei normanni era il più impetuoso e disciplinato di tutto il mondo cristiano, e combatteva strenuamente contro i nemici di chiunque pagasse. Sparsi per i feudi dell’Italia meridionale, questi uomini provenienti dalla costa atlantica negli ultimi vent’anni erano diventati così numerosi da costituire, in diversi luoghi, uno strumento essenziale per chiunque volesse prendersi il potere, o mantenerlo.

    Anche le argomentazioni che Arduino adduceva per ingaggiarli erano efficaci: al ritorno dalla Sicilia – anche loro erano entrati in conflitto con lo stesso arrogante generale bizantino – erano senza lavoro. Se non li pagava Doceano, lo avrebbe fatto qualcun altro; e la cosa avrebbe potuto causargli ancora più problemi della rivolta che aveva appena soppresso.

    «I normanni sono nati per combattere, catepano, vivono di guerra. Non se ne staranno con le mani in mano a lucidare le armi. Meglio averli al vostro servizio che lasciarli ingaggiare da qualcun altro, o liberi di saccheggiare e depredare.»

    «Gli uomini che avete incontrato in Sicilia sono fedeli a Guaimario di Salerno.»

    «Sono fedeli al suo denaro, catepano, e adesso che sono tornati, credo che il principe di Salerno, che in passato ha avuto problemi per causa loro, sarebbe contento di vederli impegnati altrove.»

    Il longobardo trattenne il respiro: che poteva saperne questo catepano giovane e inesperto dei normanni di Campania e di quel calderone che era la politica longobarda? Poteva sapere che il capo dei normanni era Rainulfo Drengot, ormai in età avanzata, ma pur sempre un uomo che, al tempo in cui era un giovane cavaliere, aveva preso parte a una precedente rivolta longobarda in Puglia, stroncata infine da un altro valoroso soldato bizantino, chiamato Basilio Boioannes.

    Sconfitti a est degli Appennini, Rainulfo e i suoi uomini avevano invece prosperato a ovest, grazie a una combinazione di forza bruta, banditismo spietato e totale inaffidabilità. Drengot si era reso militarmente indispensabile per un magnate longobardo in guerra in Campania, l’ultimo duca di Salerno, per poi tradirlo passando al servizio del suo rivale, il principe di Capua. Ma non è tutto: grazie a un altro voltafaccia, disertando Capua, venne insignito del titolo di conte di Aversa. Il gonfalone gli venne concesso da un feudatario del calibro dell’augusto imperatore Corrado, erede del potente Carlo Magno.

    «Dunque, presterebbero servizio a noi?»

    «Lo faranno, se verranno pagati.»

    «Io pagherò voi, Arduino. Non voglio avere a che fare con loro.»

    Se non altro, il catepano era consapevole di quanto fosse complicato gestire gli affari con i normanni: erano esigenti, rapidi nel coglierti in fallo, bravi a girare le situazioni a proprio vantaggio e attenti a quel che percepivano come loro privilegio.

    «Finché avrò i mezzi necessari, sono sicuro che mi serviranno, ma dovete dirmi di cosa avete bisogno.»

    «Per proteggere il confine con la Campania, la fortezza di Melfi è di cruciale importanza. Finché resta nelle mie mani, nessun gruppo di invasori può sperare di ottenere qualcosa in Puglia.» Arduino sapeva che era vero, ma tratteneva il respiro per quel che sperava di sentire dopo. «Sono pronto a offrirvi la carica di topoterete di Melfi, se mi garantite i servigi di un numero sufficiente di normanni per riuscire a mantenerla. Non ho le armate sufficienti a presidiarla opportunamente e mantenere il controllo sul resto del Catepanato.»

    «L’imperatore non vi invierà altri uomini?»

    «L’imperatore Michele non ha più uomini a disposizione. Ha seri problemi con i turchi Selgiuchidi in Anatolia, le sue truppe sono impegnate su quel fronte. Accettate la mia offerta di Melfi?»

    «Si tratta di una grande responsabilità, catepano» replicò Arduino. «Mi fate un grande onore.»

    «Sono sicuro che ne siete all’altezza.»

    Michele Doceano si ritrovò a osservare un volto sorridente, dall’espressione entusiasta. Se fosse stato in grado di vedere oltre quel sorriso, oltre quegli occhi castano scuro e quel viso tondo e pallido, sarebbe rimasto turbato. Arduino era un buon soldato e aveva mostrato il suo valore a Bisanzio sia in Sicilia che nella recente rivolta. Dare a un uomo con la sua esperienza il comando di una fortezza così importante era apparentemente una scelta sensata, ma Doceano avrebbe dovuto tenere a mente che aveva a che fare con un longobardo, gente incline alla doppiezza.

    Arduino non aveva preso parte alla rivolta appena stroncata per un motivo molto valido: grazie alla sua esperienza in campo militare, aveva intuito che era destinata a fallire, ma questo non aveva scalfito le sue aspettative nei confronti delle aspirazioni dei longobardi. Era stato al servizio di Bisanzio, questo è vero; era un soldato ed era andato laddove c’erano una guerra da combattere e un bottino da guadagnare, e una volta lì aveva fatto del suo meglio e ottenuto i plausi dei suoi pari e dei suoi superiori, trasformando delle reclute recalcitranti in veri e propri soldati. Nel suo cuore, però, la fiamma dell’indipendenza non si era mai affievolita.

    Suo padre aveva combattuto vent’anni prima nella grande insurrezione, condotta dal compianto eroe longobardo Melo di Bari. Era la stessa rivolta a cui avevano preso parte Rainulfo Drengot e i suoi: il padre di Arduino era morto combattendo contro Basilio Boioannes. Si era infiammato per gli ideali paterni fin da ragazzo e non li aveva mai abbandonati. Gli avevano inculcato la convinzione che Bisanzio prima o poi si sarebbe indebolita, che sarebbe arrivato il momento in cui non avrebbe più avuto le forze necessarie a mantenere il controllo della Puglia: quello sarebbe stato il momento in cui i longobardi, guidati da un valoroso capo, sarebbero insorti per riprendersi il potere che avevano avuto un tempo. Poco importava se Melo di Bari aveva fallito: non era ancora il momento, non era lui l’uomo giusto.

    Rispondendo al catepano, Arduino aveva il cuore a mille e sapeva di dover tenere sotto controllo la sua eccitazione e il tono della voce. «Prima di accettare, catepano, devo essere sicuro di poter fare ciò che mi chiedete. Devo recarmi ad Aversa e negoziare con i normanni.»

    «Andate ad Aversa, dunque, e vedete cosa c’è da fare. Assicuratevi che gli abitanti del posto siano fedeli e, se non lo sono, fate in modo di portarli dalla vostra parte. Fate appendere o corrompete chi comanda, decidete voi, poi potrete andare dai vostri normanni.»

    «Per corrompere e reclutare avrò bisogno di denaro. Ogni normanno degno di chiamarsi tale vorrà vedere le monete prima di accettare qualunque richiesta.»

    «Nessun timore, Arduino» rispose Michele Doceano con un ampio sorriso. «A Bisanzio potranno scarseggiare i soldati, ma giammai i mezzi per procurarseli.»

    Capitolo 1

    Ogni volta che i figli di Tancredi d’Altavilla si incontravano, riaffioravano i ricordi. E anche questa volta, riunitisi nella sagrestia di una cattedrale italiana, cinque dei fratelli tornarono con la memoria all’infanzia nel Cotentin, selvaggia regione della Normandia, fatta di scorribande, litigi e scontri tra di loro, ma soprattutto con i vicini e con i predatori provenienti dalle isole al largo della costa normanna. E parlarono del padre, ora con soggezione, ora ridendo fragorosamente, ma pur sempre con affetto incondizionato.

    Tancredi d’Altavilla era stato un valoroso guerriero e aveva generato una prole numerosa e robusta – aveva avuto due mogli, altri sette fratelli erano ancora a casa – che aveva trasformato in coraggiosi combattenti, a sua immagine e somiglianza. Non poteva essere altrimenti per la progenie di un modesto barone normanno. Fin dai primi passi, Tancredi aveva avviato i suoi figli all’uso delle armi, con spade e scudi di legno, sostituiti da quelli in metallo non appena diventavano in grado di sostenerne il peso. La pratica costante li faceva crescere forti, erano diventati abili in acqua come sulla terraferma, nuotando nel fiume che scorreva tra i possedimenti di famiglia e tra le onde imponenti del grande oceano poco distante.

    Arrivò il momento in cui furono in grado di montare un puledro, poi un cavallo. Avevano imparato a cavalcare e a usare la lancia, per poter un giorno, se la fortuna li avesse assistiti come aveva fatto con loro padre, servire in battaglia nell’esercito di cavalieri del duca di Normandia, temuto in tutta Europa. Ben nutriti grazie ai frutti dei fertili possedimenti di Tancredi, i suoi figli arrivarono a eguagliare e successivamente addirittura superare la rinomata statura del padre.

    Tancredi non permise mai ai cinque figli più grandi di dimenticare le proprie origini vichinghe, né il lignaggio ducale da parte di madre. Discendevano da una razza e da una stirpe nate per combattere: non spettava a loro tagliare la legna, coltivare i campi, seminare e raccogliere, lavorare nelle saline e sfruttare i diritti alla pesca grazie ai quali potevano permettersi le armi. Quei lavori erano per gli altri.

    Ciascuno dei figli possedeva le armi e l’equipaggiamento necessari a svolgere i compiti che li attendevano: cavalli da trasporto per portarli in guerra, un destriero da cavalcare in battaglia, una lancia ben appuntita, una pesante spada a doppio taglio e uno scudo incorniciato in metallo, ricoperto di pelle e legno massiccio e dipinto dei colori degli Altavilla, bianco e blu. A completare l’equipaggiamento c’era il pezzo più costoso, ma di vitale importanza: un’armatura, composta da guanti, elmo e cotta di maglia.

    L’obbligo del vassallaggio prevedeva che Tancredi dovesse fornire al duca dieci lance, compito reso più semplice dai suoi figli maggiori che, nati a un anno di distanza l’uno dall’altro, arrivarono uno alla volta a eguagliare e superare la sua abilità nel combattimento. L’aiuto dei figli si rivelò fondamentale anche nelle dispute locali con i vicini, che generalmente riguardavano i possedimenti terrieri, l’acqua, o i diritti sulla produzione lungo la costa atlantica; grazie al loro talento nel combattimento, il nome degli Altavilla diventò presto degno di rispetto nel Cotentin.

    Quell’ingente numero di figli, tuttavia, comportava un grosso problema: il modesto barone di Hauteville-la-Guichard poteva far crescere i suoi eredi sani e forti, fornirgli armi e cavalli e trasformarli in guerrieri, ma i suoi possedimenti erano decisamente inadeguati a soddisfare le loro necessità da adulti. Avevano infatti bisogno di feudi dove poter mettere su famiglia e grazie ai quali garantirsi le entrate necessarie a mantenere il rango di cavalieri combattenti.

    Tancredi, che per anni aveva fedelmente servito il padre del suo attuale signore, il duca Roberto di Normandia, aveva cercato di sistemare i figli come suoi cavalieri personali. Il feudatario aveva ripetutamente ignorato le richieste scritte di Tancredi e infine rifiutato seccamente il suo appello in un incontro faccia a faccia. Essendo uomini addestrati unicamente a combattere, senza speranza di far carriera nella loro terra natia, i fratelli Altavilla, dapprima Guglielmo e Drogone, raggiunti poi da Umfredo, Goffredo e dal fratellastro Malgerio, non ebbero altra scelta che recarsi in Italia, dove il valore militare dei normanni era rinomato e ben retribuito, e diventare mercenari.

    «Ora basta» disse Guglielmo, mentre Drogone si vantava delle avventure amorose in cui si era dilettato a casa, quasi dimenticandosi le conseguenze che gli avevano causato: una sfilza di bastardi che non stava nelle dita di entrambe le mani. «Casa è lontana ormai, nel tempo e nello spazio. Concentriamoci su quel che c’è da fare qui.»

    Drogone si accigliò più per abitudine che per la seccatura. Guglielmo era sì il più anziano dei fratelli e il legittimo erede di Tancredi, ma troppo spesso negli anni aveva approfittato della sua posizione, assumendo un’autorità quasi paterna.

    Tuttavia Drogone lo vedeva come un punto di riferimento, non solo come fratello maggiore, ma anche come capo. Rainulfo Drengot comandava i normanni di Campania, ma Guglielmo era il suo maggiore e aveva condotto il contingente dei mercenari durante la recente invasione della Sicilia. Il soprannome che si era guadagnato in battaglia era testimone della sua grandezza: ormai lo chiamavano tutti Bras deFer, titolo conferitogli dai commilitoni dopo un incontro a singolar tenzone fuori le mura di Siracusa. Guglielmo Braccio di Ferro aveva combattuto e sconfitto l’emiro saraceno reggente, un gigante che millantava l’uccisione di un centinaio di nemici.

    Umfredo, con le folte sopracciglia aggrottate, si alzò all’improvviso e si diresse verso la porta che conduceva dalla sagrestia al coro della cattedrale, aprendola per controllare che nessuno stesse origliando.

    «Sospettoso come sempre» disse Malgerio.

    «Le uniche persone di cui mi fido sono in questa stanza» affermò Umfredo, prima di squadrare gli astanti con quegli occhi troppo vicini che, uniti alla mascella pronunciata, non conferivano al viso un aspetto gradevole «e neanche ciecamente.»

    «Dormi col portamonete tra le gambe?» lo derise Drogone. La parsimonia e la diffidenza di Umfredo venivano prese in giro da tutta la famiglia.

    «Quando sei nei paraggi, fratello, non farebbe male» replicò Goffredo.

    Drogone rise. «Tra le sue gambe non c’è altro che possa tentarmi.»

    «Non capisco di cosa ti preoccupi, Umfredo» disse Guglielmo con tono stanco, guardando la porta ormai richiusa. «A chi potrebbero interessare queste sciocchezze?»

    «Potresti essere meno rigido, di tanto in tanto» insistette Drogone. «Fare un po’ di sciocchezze gioverebbe alla tua anima.»

    Per «sciocchezze» Drogone intendeva vivacità e gran parte delle differenze tra i due fratelli maggiori si basavano su questo. Drogone era mutevole di natura, capace di passare in un momento da una risata a una rissa, se si sentiva provocato. Era anche un donnaiolo, aveva sempre una concubina a scaldargli il letto quando si trovava in quella che considerava casa, ed era sempre in cerca di dolce compagnia quando era in viaggio o in battaglia. Guglielmo era equilibrato e serio e, sebbene non fosse un eunuco, come insinuava Drogone, sapeva contenere la sua sessualità. Si concedeva un’avventura ogni tanto senza mai costruire legami stabili.

    «Lascerò che siano i preti a occuparsi della mia anima, fratello, voi quattro mi date già fin troppe preoccupazioni.»

    «Sappiamo badare a noi stessi» rispose fiero Malgerio, il più giovane tra i presenti.

    «Davvero?» rispose Guglielmo, con lo sguardo rivolto, alle spalle di Malgerio, verso il crocifisso appeso al muro di fredda pietra, verso il figlio del Dio che tutto sa, come gli avevano insegnato, e che un giorno lo avrebbe giudicato per i peccati commessi in vita. Poi guardò i suoi fratelli, alti e biondi, dalle spalle larghe e dai visi arrossati dal sole italiano. «Lo pensavo anch’io. Credevo di avere un futuro radioso davanti, ma Rainulfo me l’ha strappato via.»

    «Suo figlio potrebbe morire.»

    Guglielmo rivolse a Goffredo uno sguardo fulminante. «E con una compagna ben disposta potrebbe metterne al mondo molti altri.»

    Seguì un lungo silenzio, come se gli ultimi tre arrivati stessero riflettendo su quello che era successo da quando Guglielmo e Drogone erano arrivati in Italia. Avevano entrambi prestato servizio per Rainulfo Drengot ed entrambi, grazie alle loro indiscusse capacità, erano arrivati a condurre interi reggimenti. Guglielmo era addirittura diventato il braccio destro di Rainulfo, che gli chiedeva costantemente consigli in quel periodo in cui la Campania era in fermento e il capo dei mercenari stesso si sentiva costantemente in pericolo.

    Drengot aveva tradito il duca di Salerno, che in buona fede gli aveva concesso non solo la mano di sua figlia, ma anche, come dote, il titolo di signore di Aversa, elevandolo dal mero rango di vassallo retribuito a quello di proprietario terriero a pieno titolo. Rainulfo gli aveva mostrato ben poca gratitudine: quando sua moglie morì voltò le spalle al duca e mise le sue straordinarie doti di guerriero al servizio di un uomo dalla mendacia inaudita, tale Pandolfo, principe di Capua, sposandone la sorella per suggellare il patto. Rainulfo si pentì ben presto della scelta, la sposa si rivelò una vera megera che per giunta lo aveva sposato controvoglia.

    Pandolfo di Capua, conosciuto da tutti come il Lupo degli Abruzzi, aveva mostrato una cupidigia e una mancanza di lealtà eccessive perfino per un longobardo. Dopo aver deposto il duca di Salerno e spodestato i figli rimasti, era diventato ancora più avido: aveva esercitato pressioni sui sudditi, che lo odiavano, in entrambi i feudi, e con l’aiuto di Rainulfo li aveva ridotti alla fame, aumentando sempre più la sua ricchezza. Baroni, commercianti, contadini, vescovi o monaci che fossero, nessuno era al sicuro dalle sue incursioni.

    Pandolfo preferiva i beni terreni a quelli spirituali e come tutti gli uomini avidi, a volte era arrivato a superare il limite, come quando aveva attaccato e saccheggiato la ricca abbazia di Montecassino. Non contento di impossessarsi semplicemente del bottino, aveva gettato l’anziano abate Teobaldo nelle segrete e distribuito i vasti possedimenti del monastero ai normanni, uomini che aveva sottratto a Rainulfo. Pandolfo era sempre più potente, non era più la principale fonte di ricchezza di Rainulfo, ma cominciava piuttosto a costituire una minaccia per il capo dei mercenari, che stava invecchiando, non aveva figli e, per via del suo matrimonio burrascoso, si rifugiava spesso nel bere.

    Le imprese del Lupo, per intercessione di Guaimario, figlio del duca di Salerno, erano giunte all’orecchio dell’imperatore Corrado ii, ma furono le malefatte ai danni dei santi uomini di Montecassino a provocarne la caduta. L’imperatore, infuriato, era arrivato dalla Germania con un nutrito esercito per ristabilire l’ordine a Montecassino e gettare il mascalzone nelle sue segrete. Guglielmo d’Altavilla aveva consigliato a Rainulfo di lasciare l’alleato traditore al suo destino e aveva stabilito una tregua con l’imperatore: questa combinazione di forze costrinse Pandolfo alla fuga.

    Rainulfo fu ricompensato con la conferma imperiale del suo titolo sotto Guaimario, neo eletto principe di Salerno e Capua. Per un normanno che era giunto in Italia senza possedere nient’altro che armi e cavalli, avere un feudo e un titolo che solo l’imperatore poteva sottrargli era un evento straordinario.

    Alla cerimonia di investitura, fuori dalle mura di Capua, Rainulfo aveva portato Guglielmo, lo aveva abbracciato e gli aveva offerto di baciare il gonfalone che indicava il suo titolo: era il modo che un uomo senza figli aveva per indicare al suo primo capitano che sarebbe diventato il suo erede.

    Guglielmo era partito per la Sicilia con solo un centinaio degli uomini di Rainulfo, incoraggiato dalla promessa di un futuro radioso. Al suo ritorno aveva trovato la megera rinchiusa in convento e una nuova, giovane e vivace concubina nel letto del conte imperiale di Aversa, che, finalmente sobrio, cullava tra le braccia un neonato frignante a cui aveva dato il nome di Ermanno e che avrebbe un giorno – lo aveva detto esplicitamente – ereditato i suoi possedimenti e il suo titolo. Guglielmo d’Altavilla non avrebbe avuto niente.

    «Metti la questione al voto» suggerì ancora una volta Drogone. «Lascia che siano gli uomini a decidere se stare con te o con Rainulfo.»

    Guglielmo guardò Drogone a lungo, pensieroso. Ne avevano passate tante insieme, fin da bambini. Avevano superato il viaggio che li aveva portati fin lì e tutto quello che era successo dopo. Drogone era stato il suo luogotenente in Sicilia e non lo aveva mai deluso: era un combattente che ogni uomo sarebbe stato contento di avere al proprio fianco. Il suo unico difetto, esclusa la sua tendenza a cercare di portarsi a letto ogni donna che passava, era la mancanza di senno. Tuttavia, guardando le espressioni sui volti dei fratelli, Guglielmo si rese conto che la pensavano tutti come Drogone.

    Guglielmo era il primogenito di una numerosa famiglia indisciplinata e per questo, forse, era quello che stava più con i piedi per terra. Rainulfo lo aveva scelto come consigliere proprio per questa sua caratteristica. Quando Tancredi e la sua furia dovevano essere tenuti a bada per via di qualche problema familiare, era sempre Guglielmo a intervenire per risolvere una lite tra due fratelli o, nel caso di Drogone, per intercedere presso un padre fuori di sé dalla collera. Spesso il suo giudizio veniva accolto senza problemi, ma molte altre volte era stato costretto ad assicurarsi l’obbedienza con un paio di scapaccioni. Ora che erano cresciuti, tutto ciò non serviva più, ma Guglielmo aveva comunque bisogno di averli al suo fianco.

    «Ora come ora il gruppo si spaccherebbe, Drogone. Non tutti gli uomini mi seguirebbero e Rainulfo non lascerebbe correre un simile affronto. Una scissione del genere porterebbe a un bagno di sangue, che suppongo farebbe comodo a molti, ma in fin dei conti non risolverebbe nulla. Rainulfo comunque non mi rinominerebbe suo erede e io non me la sento di combattere e uccidere i miei compagni normanni per qualcosa che non posso avere.»

    «Torna dal principe Guaimario» suggerì Umfredo. «Lui ha il potere di costringere Rainulfo a mantenere la sua parola.»

    Avendoci provato già una volta ed essendo stato seccamente respinto, Guglielmo non aveva intenzione di tentare di nuovo. «Non mi metterò certo a supplicare, e inoltre ti sbagli. Far chinare il capo a Rainulfo per una questione così importante causerebbe al principe Guaimario molti più problemi di quanto non desideri averne. E non dimenticarti che gode delle nostre controversie.»

    «Quindi accetti di buon grado il tradimento?»

    «È come col duca Roberto» disse Malgerio.

    Quella volta, alcuni giorni prima di una grande battaglia, Guglielmo era tornato in Normandia, nel gran padiglione ducale non lontano dal borgo di Giverny, in cui aveva visto per la prima volta quello che era allora il suo signore. Il duca Roberto non era contento del modo in cui Tancredi d’Altavilla aveva imposto la sua presenza e quella dei suoi figli; lo fu ancor meno quando gli ricordarono che era imparentato con cinque di quei ragazzi, tramite la loro defunta madre, sebbene uno di loro portasse il marchio dell’illegittimità.

    Era stato un colloquio piuttosto spiacevole per un uomo a cui piaceva farsi chiamare Roberto il Magnifico: contrariamente ai suoi servili cortigiani, Tancredi non era tipo troppo cerimonioso. Era come uno zio per la famiglia, conosceva il duca e suo fratello maggiore fin dall’infanzia, li aveva visti crescere. Si vociferava che, per ottenere il titolo, il duca Roberto avesse assassinato il fratello; quelli che credevano ciecamente a quest’accusa lo chiamavano Roberto il Diavolo.

    Tancredi aveva cresciuto i suoi figli con uno scopo ben preciso: farli diventare parte della familia dei cavalieri personali del duca, di quegli uomini strettamente vicini al loro signore, pronti a morire in battaglia pur di proteggerlo, in cambio del possesso di un castello, eventualmente anche di terreni e possibilmente di un titolo nobiliare. Il duca Roberto lo aveva disilluso: non credeva nel legame di sangue bastardo, ancor meno in Tancredi e nei suoi figli.

    Non avrebbe permesso a nessuno degli Altavilla di diventare suo servitore

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