Un'odalisca alla corte normanno-sveva
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Info su questo ebook
Cospirazioni, intrighi, falsità, amori impossibili si sviluppano con tonalità violente tra la dolcezza delle colline marchigiane e lo splendore della Sicilia normanno-sveva. Punto di fuga di questo mosaico, una figura femminile, una concubina accolta a corte e che avrà un ruolo particolare. Sullo sfondo, una Palermo in cui lo splendore dei minareti e dei mosaici bizantini si accompagnano al profumo di zagara e gelsomino, una città fatta di luci, colori, profumi, mescolanza di etnie e culture diverse, convivenza e tolleranza, elementi che ancora oggi caratterizzano la prima capitale del Mediterraneo, ma anche giochi di potere, crimini e sopraffazioni, dove gli interessi dei potenti prevaricano quelli dei più deboli. Un sottile filo rosso che unisce il basso Medioevo ai giorni nostri in una sconcertante analogia di gestione e imposizione del potere.
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Anteprima del libro
Un'odalisca alla corte normanno-sveva - Roberto Maria Francesco Russo
Prefazione
Percorrere oggi la Storia, e scrivere di vicende e di personaggi importanti che hanno segnato profondamente le epoche passate è impresa piuttosto ardua, non tanto dal punto di vista documentale, quanto per lo scarso interesse che suscita in questo mondo che sempre più va verso un pragmatismo schiacciante.
I ritmi della vita di questo secolo ci proiettano continuamente verso un futuro incerto, nel quale le uniche sicurezze sembrano essere le informazioni che possiamo trarre dai mezzi informatici a nostra disposizione.
Interessare oggi le giovani generazioni a tematiche storiche, esoteriche e simboliche non è cosa facile, ma al tempo stesso rappresenta una interessantissima sfida.
Anni or sono ci riusciva Dan Brown, che, con il suo Codice Da Vinci, utilizzando la formula del thriller, riuscì a catturare il mondo intero su tematiche esoteriche e mistiche piuttosto delicate, e fino a quel momento riservate soltanto agli appassionati e ai cultori del genere.
Oggi l’amico e fratello Roberto, in questo suo bel romanzo storico, ci porta a conoscere una pagina storica molto importante che coinvolge la vita, le imprese, gli intrighi di corte di un personaggio, Federico II di Hohenstaufen, che fu determinante nel Medioevo europeo in generale e italiano in particolare.
La lettura di questo romanzo scorre leggera e appassionata attorno a questo uomo leggendario che fu Duca, Re e poi Imperatore del Sacro Romano Impero.
Federico II come Stupor Mundi, codificatore del De Arte Venandi Cum Avibus, alchimista e uomo di grande cultura, fu anche piuttosto vicino all’Ordine del Tempio.
Voglio esprimere, oltre al mio apprezzamento, anche un ringraziamento sincero all’autore per questa sua pregevolissima opera.
Conte Paolo N. Corallini Garampi
G.C.K.T. – G.C.T.J.
Gran Priore d’Italia (OSMTH)
Capitolo 1
Era ormai la vigilia di Natale. Il freddo si cristallizzava sulle coltri dei tabarri, insinuandosi subdolamente come ghiaccio negli interstizi delle rocce, diventando un tutt’uno con esse.
La carovana in viaggio da nord aveva un incedere lento. La nebbia ovattava ed attutiva il calpestio dei cavalli i quali, gravi, avanzavano come spettri in una notte dall’oscurità soverchiante.
Il buio totale, liquido e denso, non dava riferimenti se non per il pallido bagliore di qualche fioca luce in lontananza. Eppure, il punto doveva essere quello.
La risolutezza di Marcovaldo, il Balivo di Enrico VI, non lasciava spazio a dubbi.
Lui, tra quelle colline ci era nato e cresciuto.
Bisognava trovare un punto della città che fosse facilmente raggiungibile e, allo stesso tempo, sufficientemente capiente per accogliere la nutrita carovana che accompagnava la futura Imperatrice.
Nell’arco di poche ore si sarebbe dovuto allestire il campo, radunare le genti, avvisare il cronista, far venire il prete, il cerusico, il notaro.
Ognuno doveva essere dove doveva essere.
Nessun intoppo, inciampo, tentennamento poteva occorrere. Non ci sarebbe stata possibilità di replica, e il fatto era di massima importanza.
Costanza tremava, emaciata, contrita. Cercava tepore stringendosi nello scialle di lana di Suor Provvidenza, del monastero Benedettino di Casalnuovo, che le era stato donato anni or sono e dal quale non si era mai separata.
Ultimo segno tangibile della sua recente vita monastica prima che quest’ultima le fosse sottratta per essere data in moglie allo svevo in virtù di interessi papali.
Nei momenti di sconforto ripensava al noviziato, e a quanto fosse nutriente per l’anima la vita nel monastero.
I giochi con le consorelle, i dolci di marzapane e glassa che maliziosamente e furtivamente chiamavano minne di monaca
, per quella forma sfacciatamente evocativa.
Il tepore delle giornate siciliane, lo sciabordio delle onde sugli scogli neri della costa, il canto sgraziato dei gabbiani, i tramonti e le albe di preghiera.
E i profumi del mare.
E ancora, i primi anni di vita con Jameela, la governante araba, una ex concubina del padre Ruggero.
Jameela era arrivata alla corte di Ruggero che era poco più che una bambina, accompagnata da Hamed, il padre, un uomo sulla quarantina che espiava i suoi eccessi alcolici notturni ogni mattina rivolto verso La Mecca; era troppo impegnato in preghiera per lavorare e provvedere al sostentamento dei sei figli, frutto essi stessi dei fumi e dello stordimento dell’alcool.
L’interessamento a Jameela era un’occasione che assolutamente non andava sprecata.
Youssuf, il segretario particolare di Rujari (come veniva chiamato dall’enclave araba Ruggero), dovendosi occupare, tra le altre cose, di mantenere alto l’umore e lo spirito del re sultano, aveva offerto la bellezza di dieci tarì, corrispondenti a un quarto di Dīnār d’oro arabo (perciò detto quartiglio) per l’accoglimento nell’harem della figlia di Hamed.
Una cifra considerevole e irrinunciabile per una figlia femmina. Si trattava, infatti, di un peso inutile che rappresentava solo un costo, una bocca in più a tavola e che sarebbe diventato insostenibile qualora fosse stata concessa in sposa, dal momento che si sarebbe dovuto provvedere anche alla sua dote.
Ma d’altronde, chi se la sarebbe presa?
Con quella vita stretta e il seno grande, alta e magra, non incontrava certamente i canoni di bellezza arabi, che prediligevano fianchi ampi, glutei abbondanti e cosce adeguate, simbolo di benessere e di grande fertilità, un richiamo al divino femminino preistorico dove la fertilità era rappresentata da una donna obesa.
Il padre, dunque, non ci mise molto a decidere di concederla.
Vivevano alla Kalsa, il quartiere arabo di Palermo, tra minareti e i miasmi di scarichi organici di cloache a cielo aperto che si mescolavano alla brezza marina e al profumo dei gelsomini e della zagara, manifesto dello stridore dei contrasti palermitani.
Uomini e animali condividevano la stessa indolenza, sotto il sole cocente che fungeva da cassa di risonanza olfattiva.
Jameela conosceva poco del mondo all’esterno della Ausa e, nel suo viaggio verso la corte, a Palazzo reale, guardava rapita la bellezza di Balarm – quella città, dalla bellezza arrogante e appariscente, tanto magnificamente raccontata dagli scrittori che vi facevano visita e che avrebbe rappresentato per loro la terra del riscatto, dove avrebbero vissuto in pace e prosperità.
Un’infinità di cupole rosse si stagliavano dai minareti verso il cielo; una moltitudine di persone di diverse fattezze, colori, accenti brulicava per l’Al Qazar, lastricato di balati resi lucidi dal calpestio.
Sembrava di poter riconoscere le etnie direttamente dalle loro fogge: i magrebini con le loro tuniche bianche, gli africani con i loro colori sgargianti, gli ebrei curvi e grigi, i turchi con i loro pantaloni ampi e così via.
Alcuni oziosi, indolenti e senza meta, altri con l’unico obbiettivo di procurarsi sostentamento; per contraltare, i mercati rionali erano un rincorrersi di suoni e abbanniatori
che, ironici e sguaiati, urlavano le virtù e le unicità della loro merce e di persone che trasportavano derrate di ogni tipo e provenienza.
A San Giovanni degli Eremiti, alcuni muratori stavano manutenendo la cupola di una delle torri; era curioso vedere con quale maestria ottenessero quel pigmento di colore carminio schiacciando delle cocciniglie e impastandone la polvere ottenuta con liquidi organici.
Entrarono a Palazzo reale da dietro.
Jameela fu abbacinata dallo stupore e per un attimo ebbe la sensazione che il cuore le si fermasse dinanzi a tanta bellezza.
Nella piccolezza miserabile della sua esistenza, nemmeno con uno sforzo superiore della sua fervida fantasia sarebbe riuscita a immaginare tanta magnificenza, e si sentì sollevata, se non addirittura grata, ignara di quale incombenza avrebbe dovuto affrontare per meritare la benevolenza e la permanenza nella Janna [1] .
Palme da datteri altissime si stagliavano tra fontane d’acqua che zampillava a ritmi cadenzati, come se danzassero ad un suono magico, presente ma non udibile tra papiri, banani, palme, melograni, terminando la loro corsa nell’indaco del cielo.
Gatti paciosi godevano indolenti del fresco procurato da un sofisticatissimo sistema idraulico il quale, pescando l’acqua dalla vasca ottagonale al centro del chiostro, inumidiva strisce di tessuto concedendole lascive allo Zefiro che spirava da nord ovest verso sud est, donando sollievo alla calura nelle cocenti estati palermitane.
Incatenati alle colonne del chiostro interno, i due splendidi gattopardi, simbolo di fierezza e potere, guardavano con interesse i due pavoni che paupulavano accennando un paio di balzelli e anticipando l’ostentazione della ruota.
L’atmosfera era ulteriormente impreziosita dal profumo degli incensi e le note dei suonatori di ud sharqui che accompagnavano i suoni emessi da una varietà incredibile di uccelli esotici, variopinti e chiassosi.
" I rami
dei giardini che sembrano protendersi a
guardare i pesci delle acque e sorridere."
Abd ar-Rahman, uno dei poeti che più frequentemente vivevano a corte, aveva descritto così quest’ultima.
Sull’angolo di meridione c’era una voliera di colombi bianchi, simbolo di purezza, ai quali periodicamente Ruggero lasciava spiccare il volo; gongolava, nel vederli ritornare, e sosteneva che preferissero la sua compagnia all’istinto naturale di libertà.
Allegorie e simboli si ripetevano in altri ambienti del palazzo; rappresentavano messaggi più o meno celati volutamente lasciati da Ruggero all’interpretazione degli avventori.
Il retaggio dell’illuminatissima cultura araba era tangibile e manifesto in ogni dettaglio anche di tipo religioso, verso cui i Normanni avevano sempre mostrato tolleranza e accettazione.
Guglielmo II, che amava vestire secondo la foggia orientale, soleva dire:
" Che ognuno si rivolga al suo dio. In pace è il cuore di chi crede al proprio Dio".
Mai si sarebbe potuto immaginare che quella fosse la residenza di un Re venuto dal nord.
Saggiamente, Ruggero aveva percepito e valorizzato lo sviluppo culturale degli arabi, non solo dal punto di vista artistico e architettonico, ma anche politico, nella gestione e nell’organizzazione della cosa pubblica e, anziché soggiogarlo o ancor peggio sostituirlo con i rudimentali usi normanni, lo aveva favorito e incentivato dando vita ad uno stile unico al mondo: l’ arabo normanno.
Stilisticamente, si trattava di una fusione di rigore gotico romanico ingentilito da al Tariq
, arabeschi intarsiati nella pietra dai maestri scalpellini arabi e da archi a sesto acuto. Gli arabi, nomadi per estrazione e provenienza, avevano sintetizzato i vari stili dei paesi islamizzati creando a Palermo uno stile unico, fatto di elementi ellenistici e tarsie di lamine d’oro che andavano a impreziosire le colonne tortili di stile bizantino, in un tripudio estetico da lasciare senza fiato.
La corte era popolata di musici, architetti, astrologi, poeti, matematici e giocolieri.
Tra i fini pensatori, il più illuminato era certamente il musulmano andaluso Averroè, che non si era limitato a tradurre le opere dei filosofi greci, ma aveva contribuito a criticare e a rinnovare le teorie filosofiche di Platone e Aristotele, separando la teologia, fondata sulle sacre scritture, dalla filosofia, basata invece sull’esperienza e sulla ragione. Per questo motivo fu avversato dai cristiani e pure dai musulmani, fortemente ancorati alle Sacre Scritture, mentre lui aveva osato mettere sullo stesso piano e a confronto la parola rivelata con la ragione filosofica.
Quella mattina, mentre sedeva silenzioso su una panca di pietra impreziosita da mosaici raffiguranti scene di caccia, seguiva la scena dell’arrivo della una nuova bestiolina
per il sultano con un sopracciglio alzato, in evidente disaccordo con quella pratica che riteneva preistorica e non degna di una cultura evoluta.
Osservava con il piglio di chi non vuole perdersi un istante, pensando che l’episodio potesse essere fonte d’ispirazione di prossime scritture sull’argomento.
Hamed dovette accomiatarsi, come lasciarono intendere senza troppe cerimonie le guardie reali.
Jameela non lo salutò, e senza un’ombra di commozione si lasciarono per non incontrarsi mai più.
Ad accogliere la novizia c’era Zahira, una concubina di circa trent’anni che, avvicinandosi, si presentò porgendole la mano.
Mi chiamo Zahira
disse "nella mia lingua significa colei che aiuta."
Jameela, abbassando gli occhi, rispose: Conosco la tua lingua
.
Vieni, andiamo a prepararci. Il sovrano rientrerà stasera. Sarai bellissima.
Insieme, andarono oltre la porta che separava l’area pubblica del palazzo dall’Harem.
Harem in arabo significa luogo inviolabile, e difatti l’accesso era consentito alle sole concubine e a un centinaio di eunuchi che si occupavano della gestione e della cura del luogo.
Jameela non aveva contezza della propria condizione igienica, non essendosi mai dovuta confrontare con realtà sociali differenti da quelle che l’avevano vista crescere, e non aveva idea di ciò che la aspettava. Rimase sconvolta, perciò, quando quel giovane moro con naturalezza e evidente distacco le si avvicinò per toglierle la veste strappata e sudicia, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Jameela tentò di opporsi, ma l’amorevole sguardo di Zahira la rassicurò, così si lasciò preparare, tra gli sguardi maliziosi delle odalische presenti.
La immersero in una vasca nella quale fu versato del latte di capra, molto grasso per ammorbidirle e idratarle la pelle, la lasciarono per circa un’ora arrivarono due eunuchi che, con guanti di crine, le sfregarono il sudiciume sedimentato nel tempo, aiutandosi con un composto di sabbia finissima dell’Arenella e burro di capra.
Con pietre di pomice proveniente dall’isola di Vulcano le abrasero i talloni e i gomiti in profondità; quindi le dissero come procedere per la detersione delle intimità.
Jameela li guardò stupita: fino a quel momento aveva accuratamente evitato qualsiasi contatto con la zona genitale, ritenendo la cosa poco consona per una ragazza di buoni costumi e chiedendosi che senso avrebbe avuto detergere in profondità un punto che entro poco tempo sarebbe tornata allo stato precedente, ma obbedì.
Si rese conto dello stato pietoso delle sue condizioni igieniche dal colore dell’acqua residua.
Il forte odore di incenso e gli effluvi di unguenti profumati la stordivano. Venne lavata diverse volte fino a quando la sua pelle non perse del tutto l’odore acre e pungente che aveva.
Fu allora che la umettarono di sostanze profumate e creme ammorbidenti; la truccarono e la acconciarono; ella stessa stentava a riconoscere la propria immagine riflessa tra le ninfe nell’acqua della peschiera.
Era al centro dell’attenzione dei presenti. Questi ultimi avevano contorni sfumati, e Jameela ebbe la fastidiosa sensazione di trovarsi protagonista di uno spettacolo come quello a cui aveva assistito di nascosto anni prima, dove all’interno di una gabbia vi era una donna in attesa che entrasse una fiera pronta a divorarla, assecondando così il morboso desiderio degli spettatori. Solo che lei non aveva ancora capito quale fosse il suo ruolo, se quello della vittima sacrificale o del carnefice.
Una moltitudine femminile la circondava. Era un catalogo vivente di tutte le genie: dai fianchi abbondanti, alte, basse, dai capelli e dalla pelle di ogni colore e fattura, tutte caratterizzate da tratti comuni – seni prosperosi e risate maliziose, come se fossero state addestrate, una sorta di gladiatrici dell’atto sessuale.
Si era fatta sera, e il sole era sfumato lasciando il proscenio ad un cielo incastonato di stelle così brillanti che quasi si potevano toccare. I Muezzin, con le loro litanie, facevano da sottofondo sonoro, ondeggianti come la tunica di cotone purissimo e candido che, trasparente, mal celava le troppo giovani sinuose forme di Jameela.
Zhaira si avvicinò con un piccolo recipiente di coccio contenente un liquido dall’odore intenso e sconosciuto.
Prendi,
le disse ti sarà di aiuto.
Con le mani incerte e tremanti, Jameela lo portò alla bocca e bevve.
Pochi minuti, e una vertigine, un calore improvviso la pervasero in tutto il corpo, stordendola e lasciandole un innaturale senso di benessere.
La vergine era pronta per il Sultano
.
Capitolo 2
Una lacrima inumidiva indisciplinata il viso di Costanza, ogni volta che la mente la struggeva commuovendola e riportandola all’Isola.
" Lo scoglio nel blu", come la chiamava lei.
Come avrebbe potuto accettare che le venisse imposto di lasciare il convento che era stato tutto il suo mondo per ventiquattro anni, dove aveva imparato a vivere momenti di gioia e spensieratezza, dove aveva trovato la pace e la serenità dell’accettazione. Finanche la rassegnazione.
E la rassegnazione nuovamente avrebbe accompagnato il suo matrimonio con quel ragazzotto tedesco, rozzo e ignorante.
Lei, di undici anni più grande, avrebbe dovuto giacere con uno sconosciuto, dopo aver dopo aver trascorso tutta la sua vita all’insegna della devozione?
Quell’arrogante, gretto nei modi e duro nei lineamenti, chiamato Enrico il Crudele, odiato dal popolo e dai suoi pari, mal sopportato dal papa e da chiunque vi entrasse in contatto, un uomo aberrante e che aveva una percezione della giustizia del tutto personale, utilitaristica e manieristica.
Ma il dovere di stato ebbe la meglio, e lo sposò. Il matrimonio si tenne a Milano, in una gelida giornata di febbraio del 1186. Era il giorno perfetto per rappresentare il clima dei rapporti tra Costanza ed Enrico … Nove anni di matrimonio bianco per garantire una certa tranquillità al papa e ora la stessa ragion di stato imponeva un erede.
Papa Innocenzo III, dall’arrogante ostinazione, non voleva sentire ragioni, nonostante fosse ben evidente come per Costanza, ormai quarantenne, mettere al mondo un figlio sarebbe stato, se non impossibile, estremamente arduo e anche pericoloso.
L’ombra minacciosa della scomunica avrebbe convinto chiunque.
La scomunica non aveva solo un effetto religioso, ma scioglieva il voto dell’ubbidienza dei vassalli verso il Signore scomunicato, che di fatto perdeva qualsiasi potere economico e politico, da quel momento in avanti relegato a una vita priva di privilegi