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La storia dei videogiochi in 64 oggetti
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La storia dei videogiochi in 64 oggetti
E-book558 pagine5 ore

La storia dei videogiochi in 64 oggetti

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Info su questo ebook

Da Pong a Pokémon Go, dai mainframe agli smartphone: un viaggio unico ed entusiasmante nella storia dei videogiochi per scoprire l’impatto rivoluzionario che hanno avuto sulla nostra società.

Scritto dagli esperti e dai curatori della World Video Game Hall of Fame (la collezione permanente istituita a New York dal The Strong National Museum of Play), questo volume racconta l’evoluzione dei videogame negli ultimi cinquant’anni, a partire dai primissimi tentativi e progetti fino ai raffinati prototipi dei capolavori visivi di oggi, passando per le controversie e le follie a cui hanno dato vita. Ogni voce è accompagnata da immagini dettagliate – e in alcuni casi da materiale inedito – e offre una nuova prospettiva sui videogiochi che non solo hanno contribuito allo sviluppo dell’industria dell’intrattenimento videoludico, ma hanno anche trasformato radicalmente il nostro modo di giocare aprendo la strada al gaming come lo conosciamo oggi.

Dentro troverete tantissime curiosità, tra cui:

•La prima edizione di Dungeons & Dragons e l’inizio dei giochi di ruolo
•The Oregon Trail e la nascita dei giochi educativi
•La passione dilagante per Pac-Man
•L’arrivo delle console con l’Atari 2006
•World of Warcraft e le comunità di giocatori online
•La costruzione di mondi fantastici con Minecraft
•La storia di chi ha sviluppato molti di questi giochi come Roberta Williams, Will Wright e Ed Logg
•E molto altro ancora!

Cinquant’anni raccontati attraverso gli oggetti più rappresentativi della storia dei videogiochi, per tutti i gamer e i fan della cultura pop. Che il divertimento abbia inizio!
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2021
ISBN9788830530652
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    Anteprima del libro

    La storia dei videogiochi in 64 oggetti - World Fame

    DUE PAROLE DALLA

    WORLD VIDEO GAME

    HALL OF FAME

    Le prossime pagine sono il risultato di un lavoro durato oltre dieci anni. Nel 2006, The Strong National Museum of Play ha portato a termine un’operazione di ampliamento di grande importanza. Vantavamo già una collezione di prim’ordine composta da bambole, giocattoli e gingilli ludici di ogni tipo, ma era evidente che il presente e il futuro fossero i videogiochi. Lo staff del museo iniziò a ricostruire la loro storia, a raccoglierne le testimonianze e a interpretarle. Partendo da appena una dozzina di pezzi, il nostro assortimento di oggetti legati a questa forma di intrattenimento è arrivata a contare oltre sessantamila giochi e centinaia di migliaia di materiali d’archivio che documentano l’evoluzione dei giochi elettronici negli ultimi cinquant’anni.

    Due principi hanno guidato il nostro lavoro. Primo: pensavamo che i videogiochi sarebbero stati il medium più importante del XXI secolo, esattamente come il romanzo lo era stato nel XIX o il cinema e la televisione nel XX. Secondo: prevedevamo che gli storici e altri ricercatori avrebbero iniziato a studiare l’ascesa dei videogiochi e il loro impatto socioculturale sull’individuo e sulla collettività. Abbiamo fatto il possibile per arricchire la collezione, e i nostri sforzi sono già stati premiati dalle visite di accademici di tutto il mondo interessati a studiare la storia dei videogiochi.

    Nel 2009 la collezione del museo era cresciuta abbastanza da permetterci di istituire l’International Center for the History of the Electronic Games (ICHEG). Nel 2015 è stata creata la World Video Game Hall of Fame, che ogni anno accoglie i videogiochi che rispettano quattro criteri: status iconico, influenza, longevità (in termini di fama) e diffusione. Nei suoi primi sette anni di vita, trentadue giochi sono entrati nella Hall of Fame: Animal Crossing, Bejeweled, Centipede, Colossal Cave Adventure, Donkey Kong, Doom, Final Fantasy VII, Grand Theft Auto III, Halo: Combat Evolved, John Madden Football, King’s Quest, The Legend of Zelda, Microsoft Flight Simulator, Microsoft Solitaire, Minecraft, Mortal Kombat, The Oregon Trail, Pac-Man, Pokémon Rosso e Verde (Blu in Europa), Pong, The Sims, Sonic the Hedgehog, Space Invaders, Spacewar!, StarCraft, Street Fighter II, Super Mario Bros., Super Mario Kart, Tetris, Tomb Raider, Where in the World is Carmen Sandiego?, World of Warcraft.

    Questo libro celebra e approfondisce alcuni degli oggetti più importanti e rappresentativi della storia dei videogame conservati allo Strong. Dobbiamo ringraziare la generosità di molti benefattori – dai professionisti veterani del settore ai collezionisti, passando per aziende, giornalisti, ricercatori e appassionati – che hanno regalato al museo il materiale raccolto nell’arco di anni. Siamo sinceramente grati a ognuna di queste persone e società per il contributo dato al nostro lavoro di preservazione della storia dei videogame.

    In molti casi gli oggetti che abbiamo fotografato per questo libro rappresentano un aspetto specifico di una storia più grande. Per dirne una: nessuna copia di Tennis for Two del 1958 è sopravvissuta fino ai giorni nostri, ma gli scienziati del Brookhaven National Laboratory hanno ricreato il gioco usando le grafiche dell’originale e la stessa strumentazione vintage. La versione così ricostruita, ora esposta allo Strong, ci è sembrata una rappresentazione efficace del ruolo che Tennis for Two ha avuto nella storia dei videogiochi.

    Nell’affrontare questa materia abbiamo tenuto conto di come i videogiochi esistano sempre in relazione a una cultura più ampia. Abbiamo quindi cercato di contestualizzare la storia di ogni oggetto per non limitarci a resoconti di quale azienda ha creato tale titolo. I giochi si sono diffusi in relazione a fenomeni sociali, culturali e tecnologici più vasti, e il loro sviluppo è stato spesso legato a tendenze della società, dell’economia e della politica, come ad esempio gli investimenti economici dell’esercito nella tecnologia dei computer durante la Guerra Fredda, oppure le rivoluzioni sociali e culturali che hanno squassato la società negli anni ’60 e ’70.

    Ma i videogiochi non si limitano a rispecchiare la cultura e la società: contribuiscono anche a modellarle. In quest’epoca dove i computer pervadono ogni aspetto delle nostre vite, vale la pena ricordare che siamo diventati nativi digitali proprio grazie ai videogame. I giochi plasmano i nostri dispositivi digitali, condizionano la nostra disponibilità a indossare la maschera di un avatar e influenzano il nostro modo di comunicare e competere online, anche superando i confini geografici e linguistici. Con il diffondersi degli smartphone è ancora più evidente che tutti noi siamo giocatori, in un modo o nell’altro. E i giochi a cui giochiamo, con le loro meccaniche, cambiano la nostra esperienza del mondo.

    Gli oggetti che troverete nelle prossime pagine sono solo alcuni tra i tantissimi che avremmo potuto scegliere. In effetti, ci sono parecchi pezzi della collezione dello Strong che abbiamo escluso a malincuore. Crediamo però che questi 64 oggetti siano i più significativi per raccontare la storia dei giochi elettronici e del loro impatto culturale. I giochi, dai primi flipper a Pong, fino a Pokémon Go, hanno modellato il nostro modo di divertirci, e continueranno a farlo per molti anni ancora. Speriamo che siate d’accordo con noi.

    Jon-Paul C. Dyson, PhD

    Jeremy K. Saucier, PhD

    La storia dei videogiochi in 64 oggetti

    HUMPTY DUMPTY

    (1947)

    Gottlieb rivoluzionò il gioco del flipper con l’introduzione di Humpty Dumpty, la prima macchina dotata di palette elettromeccaniche. Il fatto che fosse richiesta una certa abilità da parte del giocatore ammorbidì molti riformatori della morale, che avevano stigmatizzato questo passatempo come l’anticamera del gioco d’azzardo. Nonostante ciò, i flipper furono proibiti nella città di New York fino al 1976. La complessità e l’interattività del gameplay dei flipper aprì la strada ai giochi elettronici.

    Pensate all’onnipresente flipper, pilastro delle sale giochi e dei bowling americani. Si infila qualche gettone, si aziona il pistone a molla, e la pallina di metallo sfreccia in un campo minato di pareti rimbalzanti, rampe, bersagli e buche. È difficile immaginare che questo affascinante dispositivo vintage abbia gettato le fondamenta dei videogame, o che un tempo sia stato considerato una minaccia al tessuto morale dell’America. Raccontare la storia del flipper significa raccontare la storia della cultura statunitense del XX secolo.

    Le origini del flipper risalgono a un gioco di società diffuso in Francia nel XVIII secolo, il bagatelle: sul piano di gioco, costituito da una superficie piatta trapuntata di chiodi, si aprivano diverse buche contrassegnate da punteggi; lo scopo dei giocatori era spedire delle palline nelle buche con i punteggi più alti, facendole rimbalzare in mezzo ai chiodi. Il flipper nacque nel 1931 con i giochi Whiffle e Whoopee Game, che erano simili al bagatelle ma erano dotati di cassette di legno e meccanismi a gettoni per garantire un guadagno agli operatori delle sale giochi. Altri flipper degli albori furono, per esempio, Baffle Ball (1931), Ballyhoo (1932) e World’s Fair Jigsaw (1933), un gioco ingegnoso su cui spiccava un’immagine della Chicago World’s Fair del 1933 fatta a puzzle: all’inizio della partita i tasselli scattavano in verticale e, a mano a mano che il punteggio del giocatore aumentava, ruotavano per ricomporre l’immagine. Nel 1936, Bumper di Bally rivoluzionò il flipper introducendo i bumper con bobine elettriche (dei funghi che assegnavano punteggi se colpiti), un meccanismo che rimuoveva automaticamente la pallina dal piano di gioco e un segna punti: lo scopo non era più evitare dei chiodi, ma fare rimbalzare la pallina il più possibile per accumulare punti.

    Un’altra differenza cruciale separava queste prime versioni dal flipper moderno, una caratteristica che sarebbe diventata il cuore pulsante del gioco: l’interattività. I flipper degli anni ’30 erano basati sulla fortuna, senza palette controllate da un giocatore per condizionare la traiettoria della palla. I primi flipper non richiedevano molta abilità, e per questo non andavano d’accordo con le crociate anti-gioco d’azzardo dei regolatori del Proibizionismo. I cosiddetti giochi di fortuna erano stati dichiarati fuorilegge in quasi tutti gli Stati Uniti, ma l’industria dei divertimenti a gettoni aveva trovato scappatoie con i jukebox, le slot machine, le gumball machine e infine i flipper. Questi macchinari non erano diversi dalle roulette e da altre forme proibite di azzardo. Nel 1942, il sindaco di New York Fiorello La Guardia mise fuori legge i flipper e ne denigrò i fornitori definendoli «viscide combriccole di spacconi ben vestiti, che vivono nel lusso grazie al furto di penny». Il flipper veniva visto come l’anticamera del gioco d’azzardo, uno strumento che corrompeva i bambini e li instradava verso la prostituzione e l’alcolismo. La Guardia fece dei raid anti-flipper una priorità, e fu addirittura fotografato mentre rovesciava alcuni flipper confiscati. Come la storia ha dimostrato, la crociata di La Guardia rientrava in uno schema ricorrente di panico morale come reazione a nuovi media e forme di intrattenimento.

    Entro la fine della Seconda guerra mondiale, i flipper diventarono un oggetto spesso relegato a locali squallidi, come i negozi di pornografia e gli scantinati di bar malfamati. Ma la situazione iniziò a cambiare nel 1947, quando la società D. Gottlieb & Co. mise in commercio Humpty Dumpty, progettato da Harry Mabs: era il primo flipper dotato di palette elettromeccaniche che permettevano ai giocatori di colpire la palla e controllarne la traiettoria. Paragonato ai suoi discendenti moderni, Humpty Dumpty era molto essenziale: le sei palette erano rivolte all’esterno e disposte ai lati del campo da gioco, molto al di sopra della buca di uscita, il che rendeva il gameplay noioso e ostico per gli standard odierni. Nonostante ciò, ora che i giocatori erano finalmente in grado di mirare, scagliare e controllare la pallina in campo, i fabbricanti di flipper iniziarono a dire che i loro prodotti erano giochi di abilità, e non d’azzardo. Lentamente, ma con costanza, il flipper diventò un oggetto molto popolare.

    CHE COS’È

    IL PANICO MORALE?

    La crociata anti-flipper, capitanata dal sindaco di New York Fiorello La Guardia e da altri politici negli Stati Uniti, è un caso esemplare di panico morale. Può capitare che un nuovo fenomeno culturale generi un’ondata di paure esagerate rispetto alla reale minaccia che quel fenomeno costituisce per la società; tali ondate di panico possono riguardare qualunque argomento, ma spesso gli avversari preferiti dei grandi moralisti sono oggetti o attività specifici, insieme ai demoni popolari che li hanno originati. Il flipper non ha provocato la caduta della civiltà, ma i giochi e le nuove forme mediatiche sono ancora tra i bersagli più facili dei riformatori della morale.

    Nel 1948 la società Genco segnò un’altra tappa evolutiva con Triple Action, progettato da Steve Kordek, che spostò le ormai note palette nella parte inferiore del tabellone (anche se ancora rivolte verso l’esterno). Altri produttori seguirono l’esempio e presto la classica configurazione del flipper divenne lo standard. Versioni successive avrebbero proposto gradi di complessità diversi – come le palline multiple in Balls-A-Poppin (1956) di Bally – ma le abilità richieste erano sempre le stesse: coordinazione occhio-mano e mira.

    I produttori cercarono di prendere le distanze dalle proprie origini nel gioco d’azzardo. La maggior parte delle macchine esibiva in bella evidenza il disclaimer SOLO PER DIVERTIMENTO. I municipi concedevano sempre più licenze alle sale giochi, e nel 1974 la Corte Suprema della California abolì il divieto statale dei flipper. Due anni dopo, il consiglio comunale di New York annullò il noto divieto di La Guardia. Eppure molti guardiani della morale erano ancora sospettosi: forse il flipper non avrebbe trasformato i bambini in scommettitori degenerati, pensavano, però li avrebbe comunque resi analfabeti senza cervello e fannulloni.

    Humpty Dumpty e Triple Action portarono a un nuovo livello l’interattività e la complessità di un gioco. Allo stesso tempo, contribuirono all’affermazione di certe convenzioni del flipper e delle sale giochi, come le tre vite a inizio partita, l’accumulo di vite extra e la caccia ai punteggi record (spesso scritti a mano su quaderni o lavagne). Tutto questo avrebbe gettato le basi dei videogame. Da semplici osservatori, i giocatori divennero parte attiva delle partite. E anche se le palette rosse e i disegni pacchiani di Humpty Dumpty sembrano aver poco a che fare con Mortal Kombat o Grand Theft Auto, la storia dei flipper dimostra che i giochi iniziarono a indignare molto prima dell’avvento dei joystick.

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    TENNIS FOR TWO

    (1958)

    Al Brookhaven National Laboratory, nel 1958, la dimostrazione pubblica del primo videogioco della storia fece restare a bocca aperta gli ospiti del Visitor’s Day. Cinquant’anni dopo, gli ingegneri del Brookhaven ricrearono quello stesso gioco usando un computer analogico originale Donner con tanto di transistor vintage, fusibili e oscilloscopio. Il Brookhaven ha prestato la ricostruzione al museo Strong nel 2017.

    Gli abitanti di Brookhaven, nello stato di New York, generalmente non facevano domande sul gigantesco laboratorio governativo che si ergeva ai confini della città. Erano gli anni ’50, piena Guerra Fredda, e in molti pensavano che gli scienziati stessero lavorando a qualche arma top-secret. Gestito dal Dipartimento dell’Energia, il Brookhaven National Lab (BNL) era specializzato in fisica nucleare e delle particelle; data la segretezza dei suoi progetti era sempre chiuso al pubblico tranne che nell’annuale Visitor’s Day, durante il quale la comunità di Brookhaven poteva incontrare gli scienziati e visitare lo stabilimento. Di solito il Visitor’s Day consisteva in una manciata di fotografie messe insieme frettolosamente e in qualche cartello che illustrava i progetti delle varie divisioni del BNL, ma nel 1958 offrì al pubblico qualcosa di nuovo: un oscilloscopio a tubo catodico DuMont da cinque pollici e mezzo collegato a un computer a valvole termoioniche Donner Scientific Company Modello 30. Lo schermo dell’oscilloscopio mostrava la simulazione virtuale di un campo, una rete e una palla da tennis. Gli scienziati avevano allestito la postazione di gioco in modo che i visitatori potessero interagire tramite due controller esterni e manipolare la traiettoria della palla, servendo e scambiando con l’avversario. A quanto pare, quella piovigginosa giornata d’ottobre, nella palestra del BNL, avvenne la prima dimostrazione pubblica di un videogioco.

    Tennis for Two era una creatura del fisico nucleare William Higinbotham, membro chiave del Progetto Manhattan che, insieme a J. Robert Oppenheimer, aveva contribuito a sviluppare i circuiti di temporizzazione della bomba atomica e aveva persino assistito al test nucleare Trinity, nel deserto di Jornada del Muerto. Higinbotham sarebbe poi diventato un attivista di punta nella crociata per lo sfruttamento dell’energia atomica a scopi pacifici, nonché primo avvocato della Federation of American Scientists, impegnata nel propugnare la non proliferazione delle armi nucleari. Higinbotham sperava di ingentilire l‘immagine del BNL creando un gioco interattivo per «trasmettere il messaggio che i nostri sforzi scientifici hanno un’importanza per la società».

    Tennis for Two – il nome, mai usato ufficialmente da Higinbotham, deriva dalla sua descrizione del gioco: «Una partita a tennis per due giocatori» – era alimentato da un piccolo computer analogico composto da resistori, condensatori e relè. Le immagini venivano visualizzate tramite un oscilloscopio (uno strumento da laboratorio che rende visibile la forma d’onda dei segnali elettrici, simile a un apparecchio per elettrocardiogramma) e un tubo catodico come quelli dei televisori in bianco e nero. Ufficialmente quegli strumenti servivano a calcolare le traiettorie di proiettili e missili balistici intercontinentali (ICBM), ma quando Higinbotham vide quei proiettili luminosi muoversi sullo schermo gli ricordarono il tennis. Così creò una versione in cui la palla rimbalzava tra due racchette lasciando una scia. Il fisico Peter Takacs, che lavorava al reparto strumentazione del BNL e che cinquant’anni dopo avrebbe ricreato una versione giocabile di Tennis for Two, spiegò:

    La storia dei videogiochi in 64 oggetti

    La vera innovazione di questo gioco è l’uso di quei modernissimi transistor in germanio che iniziavano ad apparire in commercio alla fine degli anni ’50. Higinbotham utilizzò i transistor per costruire un circuito che raccoglieva tre output dal computer e li visualizzava alternativamente sullo schermo dell’oscilloscopio alla sfolgorante velocità di 36 Hertz. A quella frequenza, l’occhio vede la palla, la rete e il campo come un’immagine unica, invece che tre separate.

    Quando la palla colpiva il terreno, un relè invertiva la polarità e permetteva alla palla di rimbalzare, ripetendo (specchiata) la traiettoria precedente. Un secondo relè percepiva quando la palla colpiva la rete, che appariva sullo schermo come una T rovesciata, e altri relè regolavano le racchette. Tennis for Two era sorprendentemente sofisticato per la sua epoca: per evitare di mandare la palla a rete, i giocatori erano costretti a calibrare con attenzione l’attimo esatto e l’angolazione a cui colpire con la racchetta. Il gioco ebbe un successo tale da riapparire al Visitor’s Day dell’anno successivo, stavolta con un oscilloscopio più grande per offrire una visuale migliore della partita. Tra i visitatori che giocarono c’era il liceale David Ahl, futuro divulgatore di tutto ciò che riguarda i computer e autore della fortunatissima antologia 101 BASIC Computer Games (pag. 55).

    Il personale del BNL non ripresentò più il gioco dopo il 1959. L’oscilloscopio e il computer analogico Donner furono riconvertiti per altri progetti più attinenti alla missione dell’istituto di ricerca. E Tennis for Two, apparentemente, si perse nei meandri della storia. Higinbotham, che non brevettò il gioco, in seguito avrebbe dichiarato: «Mi sembrava improbabile che qualcuno potesse voler passare molto tempo a schiacciare un pulsante su un reostato per giocare a una versione bidimensionale del tennis». Dato che il gioco quasi non fu sponsorizzato dal BNL, gli unici oggetti rimanenti a testimonianza dell’installazione originale erano poche foto, fogli di progetto e un registro compilato a mano.

    Poi, nel 1997, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituto, Takacs e i suoi colleghi riesumarono gli schemi originali per ricreare il gioco e presentarlo ancora una volta durante un Visitor’s Day. Recuperarono dei componenti rétro, assemblarono la strumentazione seguendo le istruzioni di Higinbotham, ed ecco che i visitatori poterono di nuovo giocare a Tennis for Two su un computer a valvole termoioniche Donner e un oscilloscopio. Oggi, la ricostruzione di Takacs è esposta al museo Strong.

    Tennis for Two potrebbe sembrare un semplice puntino su un oscilloscopio, ma la sua stessa esistenza certifica che persino nei laboratori top-secret della Difesa, su macchine progettate per fare la guerra, in mezzo a menti pagate per tramare distruzione… ecco, persino qui c’è il gioco. Anche se per qualche ora soltanto, in una tranquilla palestra di Long Island.

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    SIMULATORE DI BASEBALL

    DI JOHN BURGESON

    (1961)

    Nel XX secolo esistevano molti simulatori di baseball basati su carta e penna, ma il programma di John Burgeson fu la prima ricostruzione di quello sport a usare un computer. Nel 2012 Burgeson ha donato allo Strong i suoi documenti relativi al gioco.

    Prima del fantasy baseball , della sabermetrica e dei riallineamenti difensivi, ci furono un mainframe IBM 1620 e John Burgeson, creatore del primo simulatore di baseball della storia.

    Il baseball è essenzialmente una questione di numeri. Più nello specifico, di statistica. La media battuta permette di prevedere i successi di un battitore sul piattello, la media di punti guadagnati sul lanciatore dà un’idea dell’efficacia di quel lanciatore nell’intera partita, la frequenza di errore di un esterno è correlata alla probabilità che realizzi un out. Tutti gli sport si basano su dati statistici, però il baseball ne è pieno zeppo. In una stagione, ogni squadra gioca 162 partite con una media di 700 apparizioni per i battitori, 180 inning per i lanciatori e 3,8 lanci per battuta. Sistemi sabermetrici con nomi contorti come WAR, FIP, BABIP, xFIP e wRC+ scompongono le partite in uno spettro di statistiche visualizzabili solo tramite potenti computer che analizzano ogni dato, dall’angolazione della battuta alla velocità della palla.

    Prima dell’avvento dei maghi della statistica armati di supercomputer, quasi tutti negli Stati Uniti si godevano il baseball sulla carta stampata dei giornali. Le tabelle riportavano semplici statistiche come le battute a segno, gli strikeout, i fuoricampo, e così gli appassionati tenevano traccia dei progressi dei loro beniamini. Le carte collezionabili presentavano le posizioni dei giocatori e le rispettive statistiche di carriera. Mentre crescevano in Ohio, negli anni ’40, John e suo fratello Paul simulavano partite di baseball usando tabelloni da gioco, pedine e dadi, utili a determinare se un giocatore segnava un triplo, camminava o faceva strikeout. Da bambino Burgeson tenne registri dettagliati sui suoi giocatori preferiti, segnando diligentemente le loro statistiche.

    Dopo il college, John iniziò a lavorare come programmatore per IBM. Più o meno nel Natale del 1960 un’influenza lo costrinse a casa dal lavoro, e fu allora che gli venne l’idea di combinare il suo amore per il baseball con la sua recente passione per i computer. Con l’aiuto del fratello, Burgeson iniziò a scrivere il codice per un simulatore di baseball che sfruttava la programmazione simbolica, che all’epoca serviva a fare funzionare il mainframe IBM 1620. Non era un videogame come lo intenderemmo oggi: invece di premere pulsanti per realizzare un fuoricampo o lanciare una palla a effetto, i giocatori vestivano i panni di un general manager che compone la formazione, stabilisce la rotazione dei lanciatori e tiene sotto controllo l’andamento della squadra nel corso della stagione. Il programma permetteva di simulare partite coinvolgendo giocatori di epoche diverse, dalle icone di inizio ’900 come Honus Wagner alle star contemporanee Joe DiMaggio e Stan Musial.

    Le prime simulazioni eseguite da Burgeson e suo fratello diedero risultati assurdamente sbilanciati persino per gli standard degli Yankees del ’27, con team che stracciavano gli avversari con un distacco di dozzine di run. Inoltre, il programma non teneva conto delle peculiarità del baseball – non capiva, per esempio, che la parte bassa di un inning era superflua se la squadra di casa era in vantaggio. Ma i due fratelli continuarono a perfezionare il codice e il programma arrivò a includere tutte le regole complesse del baseball, prevedendo con precisione la resa di un team in base alle statistiche dei suoi giocatori.

    Per avviare la simulazione bisognava inserire una scheda perforata nel mainframe IBM, che a quel punto iniziava a sputacchiare istruzioni stampate per formare una rosa di nove giocatori scegliendo tra i cinquanta (pre-programmati) messi a disposizione. I giocatori rimanenti venivano selezionati a caso per comporre la squadra avversaria, e così il computer iniziava a simulare la partita vera e propria stampando lentamente il risultato di ogni singolo lancio, come il nastro di una telescrivente, replicando con successo non solo le meccaniche del baseball ma anche il suo ritmo glaciale.

    In una simulazione del 23 luglio 1961 si fronteggiarono da una parte Earl Averill (dai Cleveland Indians, stagione 1936) e Roger Hornsby (St. Louis Cardinals, 1924), dall’altra Honus Wagner (Pittsburgh Pirates, 1900), Stan Musial (St. Louis Cardinals, 1940) e Joe DiMaggio (New York Yankees, 1941). La squadra di Averill e Hornsby vinse per 12 a 8, ma il risultato non fu così sorprendente: Burgeson aveva rimpolpato la squadra di casa di giocatori virtuali – inclusi due con i nomi suo e di suo fratello – che avevano una media battuta di 0,559. (Forse voleva accertarsi che il suo team vincesse perché ci giocavano due giocatori dei Cleveland Indians, il suo club preferito).

    Quando a Roger Cordic, DJ radiofonico di Pittsburgh, giunse voce del programma di Burgeson, ebbe l’idea di fare la radiocronaca di una partita simulata. Grazie al programma di John, Cordic riprodusse un confronto tra star morte da tanto tempo. E nell’autunno del 1961 i fan del suo show ascoltarono, per tre sere, un resoconto di prim’ordine di una partita che vedeva contemporaneamente sul diamante Willie Mays, Stan Musial, Honus Wagner, Lefty Grove, Joe DiMaggio, George Sisler e Dizzy Dean.

    Cordic sperava di rendere queste radiocronache un appuntamento fisso, ma i capi di IBM non erano così convinti che un simulatore di baseball fosse un uso appropriato del mainframe 1620. Era il momento più caldo della Guerra Fredda, e IBM voleva mettere in mostra le portentose applicazioni dei suoi computer per la Difesa: un gioco di baseball forse non era l’ambasciatore migliore per veicolare questo messaggio. I dirigenti ordinarono così a Burgeson di eliminare il programma dai banchi di memoria del 1620. Sperando di convincerli a cambiare idea, John spedì loro una lettera in cui diceva:

    Mi rincresce che abbiate ritenuto necessario rimuovere programmi innovativi dalla library. Nella lotta economica per la sopravvivenza che la nostra azienda sta affrontando, alcuni di questi programmi si sono dimostrati eccezionalmente utili a dimostrare concetti, invece che applicazioni specifiche, in un contesto comprensibile a un profano. Il programma di baseball è stato spesso usato in questo modo per illustrare il concetto di simulazione al computer: pertanto, lo considero di grande rilievo per la comunità dei programmatori.

    I capi di IBM presagirono l’atteggiamento negativo che molte realtà educative avrebbero avuto, negli anni a venire, nei confronti dell’utilizzo ludico dei computer. Eppure, John aveva capito che spesso il modo migliore di scoprire nuove applicazioni per un computer era giocarci. Oggi ci sono centinaia di videogame sul baseball, dalle spettacolari partite di MLB The Show 18 ai simulatori macina-numeri come Baseball Mogul. Sono sofisticatissimi, certo, ma in fondo fanno la stessa cosa in cui era riuscito Burgeson nel 1961: portare i giocatori sul diamante, in una partita memorabile che si può disputare sempre e ovunque, sotto il sole o la pioggia.

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    COMPUTER DIGI-COMP

    (1963)

    I ragazzi e le ragazze del baby boom potevano simulare il conto alla rovescia di un razzo o fare giochi con il primo computer digitale in plastica.

    Per i bambini cresciuti negli anni ’60, i computer erano macchine esotiche, ultraterrene, che guidavano i razzi nello spazio. Costavano milioni di dollari, occupavano stanze intere ed erano manovrati da astrofisici che brandivano schede perforate. La possibilità che un ragazzo possedesse un computer a casa propria sembrava distante come la luna stessa. Ma cos’è un computer, esattamente? Deve essere per forza elettronico? Deve essere capace di eseguire calcoli avanzati? Deve avere uno schermo, o almeno una tastiera?

    «Se hai mai contato sulle dita, TU potresti essere definito un COMPUTER DIGITALE» recitava l’inizio del manuale di istruzioni del Digi-Comp I di E.S.R. Inc. «La parola digit, cifra, significa dito, e un computer, un calcolatore, è qualcuno o qualcosa che lavora coi numeri.» A prima vista, il Digi-Comp era tutt’altra cosa rispetto ai computer mainframe IBM 7090 che avevano guidato nello spazio i voli con equipaggio dei programmi Mercury e Gemini. Gli IBM avevano bisogno di una stanza tutta loro con l’aria condizionata; il Digi-Comp stava comodamente su un tavolino da caffè. Invece di usare cinquantamila transistor al germanio, il Digi-Comp si basava su tre flip-flop di plastica che facevano da memoria, accettando un input, memorizzandolo e, a comando, mandandolo in output. Invece di costare 2,9 milioni, il Digi-Comp costava 4 dollari e 99.

    Tuttavia, come dichiaravano orgogliosamente le istruzioni, il Digi-Comp era pur sempre un computer. «[Il Digi-Comp] è l’equivalente meccanico di un computer digitale elettronico. Con DIGI-COMP I puoi GIOCARE, RISOLVERE ENIGMI e FARE ARITMETICA proprio come potresti fare su un grande computer digitale.» Lungo circa trenta centimetri e alto dieci, eseguiva operazioni matematiche sorprendentemente sofisticate nonostante la sua struttura di sola plastica. Nella confezione erano incluse schede di programmazione e un manuale che spiegava il linguaggio binario del Digi-Comp, utilizzabile per programmare tramite sbarrette logiche agganciate ai flip-flop meccanici. Ogni flip-flop era regolabile in una di due posizioni disponibili. Tecnicamente, siccome conteneva tre flip-flop, il Digi-Comp era un computer a tre bit.

    La storia dei videogiochi in 64 oggetti

    Gli utenti potevano programmare il Digi-Comp riposizionando lungo i flip-flop i sottili fili di ferro verticali delle sbarrette logiche. Tramite dei pioli cilindrici, l’utente poteva controllare se le sbarrette logiche si spostavano in risposta a un input o se restavano bloccate. A quel punto l’utente muoveva un controllo a parte, chiamato clock, che faceva girare il programma in cicli proprio come fanno i nostri PC portatili (solamente, a una minuscola frazione della loro velocità). Il manuale includeva molti giochi e compiti semplici che il Digi-Comp poteva eseguire. Un programma simulava il lancio di un razzo da Cape Canaveral con un conto alla rovescia e un controllo pre-lancio dei sistemi per l’ossigeno, dei

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