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Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale
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E-book342 pagine5 ore

Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale

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Info su questo ebook

La tecnologia fa bene o fa male ai nostri figli?

Il rivoluzionario, indispensabile manuale per genitori del XXI secolo

Una delle grandi questioni del nostro tempo è l’uso massiccio della tecnologia, soprattutto per quanto riguarda i bambini in piena età evolutiva. Siamo sicuri di avere gli strumenti per poter valutare le eventuali conseguenze negative, ma soprattutto quelle positive dell’utilizzo dei nuovi strumenti digitali da parte delle giovanissime generazioni? Attingendo alle ultime ricerche nei diversi campi della psicologia, filosofia, economia e istruzione, Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale dimostra come grazie al digitale, ai videogiochi, a internet e ai social, i bambini saranno infatti in grado di creare nuovi modelli di cittadinanza globale, di connessione e comunità. I genitori, gli insegnanti e gli educatori di adesso devono imparare a inquadrare questi cambiamenti epocali, modificando le proprie abitudini, i loro schemi mentali e, soprattutto, le aspettative. Shapiro offre consigli concreti e pratici ai genitori di oggi su come educare i bambini in modo efficace e fornisce strumenti e tecniche per utilizzare la tecnologia per coinvolgere i bambini e aiutarli a imparare e crescere.

È corretto che un bambino si intrattenga per ore con tablet e smartphone?
I videogiochi vanno vietati?

«Solide ricerche scientifiche dimostrano che lasciar giocare i figli ai videogiochi con altri bambini in tutto il mondo migliora il senso di sé mentre li aiuta a costruire interazioni sociali nell’ambiente sicuro della casa.»
Kirkus

«Per tutti quelli che pensano che la generazione app manifesterà disturbi e problemi dell’apprendimento, Jordan Shapiro offre uno scenario diverso e rassicurante.»
Howard Gardner

«Gli argomenti di Shapiro sono davvero convincenti!»
USA Today

«Se facciamo lo sforzo di collocare l’educazione dei bambini di oggi all’interno della lunga storia dell’adattamento culturale dell’uomo, questo manuale rende le sfide dei genitori contemporanei più chiare e accessibili.»
Publishers Weekly
Jordan Shapiro
docente di filosofia ed esperto di formazione, apprendimento e nuove tecnologie, è uno dei massimi esperti mondiali di competenze digitali e tecnologia nell’istruzione, temi di cui ha tenuto per diversi anni su «Forbes» una rubrica dedicata a educazione, videogiochi e cultura digitale. Shapiro è membro del Global Advisory Council per il programma Teach For All e un consulente esperto del World Economic Forum.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2018
ISBN9788822728722
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    Anteprima del libro

    Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale - Jordan Shapiro

    431

    Titolo originale: The New Childhood

    Copyright © 2018 by Jordan Shapiro

    This edition published by arrangement with Little, Brown and Company

    New York, New York, USA. All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Elena Rubechini

    Prima edizione ebook: febbraio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2872-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Jordan Shapiro

    Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale

    Indice

    Introduzione

    Prima parte. Il sé

    Capitolo 1. Le nuove storie

    Capitolo 2. I nuovi giochi

    Capitolo 3. La nuova vasca di sabbia

    Seconda parte. La casa

    Capitolo 4. La nuova famiglia

    Capitolo 5. Il nuovo focolare

    Capitolo 6. La nuova pubertà

    Terza parte. La scuola

    Capitolo 7. La nuova campanella

    Capitolo 8. Le nuove espressioni di creatività

    Capitolo 9. I nuovi obiettivi formativi

    Quarta parte. La società

    Capitolo 10. La nuova empatia

    Capitolo 11. La nuova alfabetizzazione digitale

    Capitolo 12. La nuova infanzia

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    Introduzione

    Platone sarebbe stato un gamer

    Non gioco mai ai videogame da solo ma mi metto sul divano con i miei figli di dieci e dodici anni e ci diamo dentro col gamepad tutti insieme. Giocare è un modo per legare, per trascorrere del tempo in famiglia.

    Penserete che a uno come me, che dedica così tante energie a studiare i giochi digitali, piacerebbe giocare un po’ di nascosto a videogame per adulti come Bioshock, Fallout o The Last of Us dopo che i bambini sono andati a letto. Ma non è così. Non mi interessano i giochi di per sé. Mi occupo solo del modo in cui avvicinano le persone: famiglie, amici e comunità. Mi interessa l’aspetto culturale, cosa vuol dire essere un gamer e come i giochi digitali influenzano il modo in cui vediamo il mondo.

    Le storie dei videogame sono affascinanti. In un certo senso sono la versione interattiva delle storie che ci piace guardare in televisione o al cinema. È come andare a teatro, leggere un romanzo o ascoltare un racconto intorno al fuoco. Se si considera che negli Stati Uniti quasi tutti i bambini ci giocano, si potrebbe tranquillamente dire che i videogame sono addirittura il principale genere narrativo del nostro secolo. In altre parole, sono le nuove favole della buonanotte, le nuove fiabe, la nuova mitologia e forse addirittura il nuovo Vangelo. Sono la forma più recente di comunicazione scritta o documentata, che molti studiosi ritengono abbia avuto inizio intorno al

    XXVII

    secolo a.C., cioè quando, nell’antica Mesopotamia, apparvero i primi esempi di scrittura. Ma ben prima di questo, molto più anticamente di quanto possiamo persino immaginare, le storie si tramandavano di generazione in generazione per via orale.

    Soffermatevi un momento a considerare quanto deve essere stato scioccante il passaggio dalla narrazione orale e quella scritta. Rappresentò un cambiamento radicale nel modo in cui gli antichi organizzavano la comunità, la società e la civiltà. A noi che abbiamo vissuto la transizione ai computer e ai cellulari è sembrata una rivoluzione vedere il mondo come lo conoscevamo venire completamente stravolto quando il networking e le email sono diventati la normalità. Ma non è stato niente in confronto a quello che deve aver significato la comparsa della scrittura. Si è trattato forse dell’innovazione tecnologica più importante di tutti i tempi. Ha permesso di ricordare e di annotare le informazioni. Ha reso possibile scrivere una lettera a un caro in un posto lontano. Ha messo la gente in condizione di poter condividere esperienze senza nemmeno doversi incontrare. Ha consentito all’umanità di tramandare il sapere nel tempo.

    Grazie alla parola scritta, mi commuovo quando porto i miei figli a visitare il quartiere di Plaka ai piedi dell’antica acropoli di Atene. Percorriamo le stesse stradine del mercato in cui Socrate e Platone passeggiavano un tempo. Sono morti più di duemilacinquecento anni fa, eppure formano ancora, quasi ogni giorno, i miei giovani studenti universitari. Questo è possibile perché le loro idee sono state conservate in forma scritta. L’ingegno degli antichi che per primi inventarono un sistema di simboli per comunicare è sbalorditivo. Molto prima del telefono, di internet e dei videogame questa era la tecnologia del momento che rendeva possibile la collaborazione e la cooperazione tra persone in modi che trascendevano il tempo e lo spazio.

    Certo, la lingua scritta – proprio come i cellulari e i tablet –

    venne criticata all’inizio. Il più famoso dei critici fu probabilmente il grande filosofo Socrate. Non credeva che «qualcosa di chiaro e saldo» potesse «derivare dalla scrittura». La comparava alla pittura: quello che l’artista rappresentava sembrava vero, ma in realtà era solo un’illusione creata da una singola prospettiva. Secondo Socrate la pittura non riusciva a rappresentare l’esperienza perché era statica e fissa. Non c’era spazio per le domande o per l’empatia. Non era interattiva. «La medesima cosa vale anche per i discorsi», diceva Socrate riferendosi agli elementi della lingua scritta come a degli esseri autonomi, «tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono […] questo qualcosa suona sempre e solo identico».

    Per fortuna Platone, studente di Socrate, era più a suo agio con le innovazioni tecnologiche; probabilmente oggi sarebbe stato un gamer. Capì l’importanza di annotare i pensieri del maestro, e proprio perché trascrisse i dialoghi di Socrate ho la fortuna di poter trasmettere quelle idee agli studenti universitari quasi duemilacinquecento anni dopo che sono state espresse. Forse Platone aveva capito che la lingua scritta rappresentava un cambiamento radicale nello stile di vita e sapeva che avrebbe influenzato il modo di lavorare, giocare e portare a termine i compiti di tutti i giorni.

    Ma aveva ragione a ignorare il desiderio del maestro e mettere le sue parole per iscritto? Forse no. Si potrebbe sostenere che alla fine la storia ha confermato le preoccupazioni di Socrate. Come ha detto una volta il filosofo novecentesco Alfred North Whitehead: «La più opportuna caratterizzazione generale della tradizione filosofica europea è l’indicazione che essa consiste in una serie di note a Platone». In altre parole, per quasi duemilacinquecento anni abbiamo passato al setaccio i testi di Platone cercando di capire esattamente cosa volesse dire Socrate. Nessuno ha la certezza. Vengono pubblicate interpretazioni su interpretazioni e viene finanziato un dottorato di ricerca dopo l’altro, ma il pensiero di Socrate rimane ancora ambiguo. Perché? Non possiamo chiedergli di persona quello che voleva dire. Non si può dialogare con lo scritto. Purtroppo, tutto quello che abbiamo è un «qualcosa che suona sempre e solo identico».

    Touché, Socrate.

    Il grande filosofo-tafano avrà anche avuto ragione sui limiti della scrittura, ma ne ignorò i vantaggi. La sua resistenza, inoltre, fu essenzialmente inutile perché il passaggio dalla narrazione orale a quella scritta era inevitabile. Proprio come è successo con la stampa a caratteri mobili, l’orologio meccanico, il treno, il telegrafo, la radio, la macchina fotografica e molte altre tecnologie trasformative, prima che i critici potessero formulare delle obiezioni era già troppo tardi. La società era cambiata, perciò c’era bisogno di nuovi strumenti. Di solito è così che funziona. Prima cambia il pensiero umano e poi si costruiscono strumenti che ci aiutano a interagire col mondo in modi che si accordano al nuovo pensiero.

    Gli strumenti non ci usano, siamo noi che li usiamo. Ne abbiamo il controllo.

    Sembra però che abbiamo una paura primordiale delle nostre stesse creazioni. Robot in rivolta. Guerre contro i cloni. Viaggi nel tempo finiti male. Niente come un buon catastrofico film fantascientifico esprime la paura che l’ingegno umano porterà infine alla creazione di strumenti che minacceranno la nostra supremazia. È una storia vecchia quanto l’innovazione stessa. Frankenstein era il Terminator dell’Ottocento. Nella Praga del Cinquecento i mistici ebrei raccontavano Il Golem, la storia di un uomo di argilla dotato di vita che portava distruzione nella comunità. Gli antichi greci avevano Dedalo e Icaro.

    Queste storie testimoniano la stessa tecnofobia che interessa oggi i videogame. Il giornalista Mark Kurlansky ha descritto il fenomeno come uno dei «malintesi sulla tecnologia: l’idea che la tecnologia cambi la società». A chi vive i grandi mutamenti tecnologici sembra che le macchine prendano il sopravvento sulla vita, che impongano nuovi comportamenti e cambino il modo di comunicare. Secondo Kurlansky, «è esattamente il contrario. La società sviluppa la tecnologia per affrontare i cambiamenti che stanno avvenendo all’interno di se stessa […]. La tecnologia è solamente un fattore facilitante».

    Che cosa facilitano le tecnologie del

    XXI

    secolo? Per esempio, cambiano il modo in cui raccontiamo le storie.

    I media digitali interattivi consentono nuovi metodi narrativi. Considerato che la maggior parte dei contenuti è semplicemente materiale riciclato – tropi narrativi che ritornano come la tecnofobia alla Frankenstein, per dirne uno – diventa chiaro che il metodo che usiamo per trasmettere questo materiale è ancora più importante del contenuto stesso. Marshall McLuhan lo ha suggerito negli anni Sessanta nel libro Capire i media. Gli strumenti del comunicare, in cui ha scritto la famosa frase «il medium è il messaggio». McLuhan era uno studioso di teoria della comunicazione che si interessava delle «conseguenze personali e sociali» di una vita vissuta con e attraverso i mezzi elettronici. Ha osservato che i cambiamenti nelle tecnologie comunicative – la lingua scritta, la stampa, il telegrafo, la radio – corrispondono sempre a enormi mutamenti culturali, non solo nel modo in cui consideriamo le nostre esperienze nel mondo, ma anche in quello in cui organizziamo le strutture economiche, sociali e politiche.

    È da un’ampia prospettiva culturale e storica come quella di McLuhan che ho cominciato a interessarmi al problema dei giochi digitali e del futuro dell’infanzia. Ero sul divano e giocare a New Super Mario Bros. con i miei figli quando mi è venuto in mente che i videogame renderanno la loro crescita profondamente diversa dalla mia. I miei figli stanno vivendo gli anni della formazione davanti allo schermo: consolle portatili, tablet o cellulari. Passano un’enorme quantità di tempo davanti a questi dispositivi, perciò arriveranno all’età adulta con una serie unica di esperienze educative. A un certo punto prenderanno in mano le redini del mondo e faranno ragionamenti che non riesco nemmeno a comprendere. Costruiranno un mondo che io posso a malapena immaginare.

    Come preparo i miei figli a un futuro che non riesco a concepire? Come li preparo a una vita vissuta tramite nuove tecnologie? Che cosa significa per ogni individuo, famiglia, scuola – di fatto, l’umanità intera – che intere generazioni di bambini vengano cresciute con i videogame, un nuovo tipo di favola della buonanotte?

    Sono domande importanti con risposte difficili. Ma non sono una novità. Anche quando ero bambino io e giocavo a Q*Bert sul mio Atari 2600, quasi tutti gli adulti avevano un’opinione su come i videogame influenzassero il modo di ragionare dei bambini. Per lo più erano preoccupati che troppa esposizione avrebbe inciso in maniera negativa su una giovane psiche fragile. Pensavano che i computer e i videogame deteriorassero il cervello e corrompessero la fibra morale.

    Sono abbastanza sicuro che avessero torto. Il tempo passato davanti allo schermo non ha deteriorato o corrotto niente. Comunque la loro paura era comprensibile. È semplice tecnofobia. Cambiare strumenti scombussola i nostri comportamenti abituali. I nuovi apparecchi ci guidano verso un futuro sconosciuto e quindi spaventoso. Ci sarà sempre gente che vedrà il nuovo come una minaccia allo status quo. È sempre così che l’ingegno viene accolto.

    Pensate alla stampa a caratteri mobili di Gutenberg che rese possibile distribuire la Bibbia di Martin Lutero tradotta dall’antico greco ed ebraico in tedesco. Oggi individuiamo in quella invenzione le origini dei media moderni. Siamo grati a Gutenberg per aver reso uniforme e democratica la distribuzione del sapere e delle informazioni e gli attribuiamo un ruolo cardine nella storia per aver decentralizzato il potere e portato a maggiori libertà e uguaglianza, nonché alla creazione della democrazia moderna. Ma non prendiamo minimamente in considerazione le conseguenze negative. Dimentichiamo che la parola stampata portò la gente a un rapporto più privato e isolato con le idee. Il critico culturale Mark C. Taylor ha spiegato che «la cultura orale era per necessità di maggiore utilità pubblica della cultura stampata; con la stampa e l’avvento della lettura silenziosa la gente si rintanava nel proprio bozzolo». I popoli che vissero nel Cinquecento opposero resistenza al cambiamento. «Nel commentare la solitudine e l’isolamento della lettura, i primi critici della stampa dicevano le stesse cose dei genitori di oggi preoccupati che i loro figli stiano da soli davanti al computer o al cellulare a giocare ai videogame e a scambiarsi messaggi con amici che vedono raramente, o mai». È ironico quanto hanno in comune i detrattori di Gutenberg e i genitori del

    XXI

    secolo.

    Oggi gli adulti si preoccupano e si agitano per Snapchat, Twitter, Facebook, Discord, YouTube o chissà quale altra popolare piattaforma digitale che cattura l’immaginazione di giovani e giovanissimi. Quasi ogni mattina, quando apro l’app delle notizie sul telefono, trovo un nuovo studio, un articolo d’opinione o un’intervista a un esperto che fa ipotesi sull’impatto della tecnologia digitale.

    Mi è capitato di essere quell’esperto. In qualità di ospite a centinaia di talk show radiofonici ho ascoltato genitori, insegnanti e chiunque si occupi di bambini chiamare preoccupati e fare domande. Proprio come gli ansiosi tecnofobici dei secoli scorsi, sono tormentati da come i giochi digitali stanno rovinando l’infanzia, provocando danni neurologici, compromettendo la vista, scatenando un’epidemia di obesità, causando depressione e tenendo i nostri figli al chiuso. I ragazzi stanno perdendo la capacità di riflettere ed essere introspettivi? La velocità e la disinvoltura della comunicazione digitale gli impedisce di imparare a comunicare? Imparano a interrompere semplicemente la connessione invece di risolvere in maniera costruttiva i problemi di ogni giorno? Le emoticon e i tweet da 280 caratteri intaccheranno l’alfabetizzazione? L’accesso facile e sempre disponibile a stimoli interattivi ostacolerà la capacità della prossima generazione di coltivare il pensiero critico?

    La risposta è no. Queste preoccupazioni sono prevedibili e scontate, però capisco perché certi adulti le hanno. L’intera enciclopedia, il centro commerciale, il cinema e il telefono sono stati condensati in un dispositivo delle dimensioni di una mano, che i ragazzi possono portare in tasca e davanti a cui gli adulti si sentono impotenti. I genitori si rendono conto che l’educazione, il gioco, il divertimento e gli appuntamenti sono cambiati e danno la colpa alla tecnologia. La verità è che non c’è bisogno di incolpare nessuno. L’infanzia si sta riconfigurando da sola per adattarsi al nuovo contesto.

    L’unico problema è che gli adulti non lo comprendono e quindi non sanno come guidare i loro figli.

    Si trovano a un incrocio; peggio, a un’intersezione non linea-

    re multidimensionale. Non hanno una cartina, quasi nessuna esperienza e non conoscono gli itinerari prestabiliti. Genitori e insegnanti occupati e oberati finisco per prendere la direzione sbagliata.

    Lo capisco. Da genitore sono sempre in apprensione. Mi rendo conto che i cambiamenti tecnologici rappresentano cambiamenti culturali, economici e politici ancora più grandi. Ma in fondo, so anche che i miei figli se la caveranno. Infatti si stanno già inconsciamente preparando senza il mio aiuto per un mondo molto diverso. Il pomeriggio tornano da scuola e per prima cosa si mettono al computer. Venerano queste macchine con lo stesso orgoglio che provavo io per la mia bici sporca o per le Air Jordan. E chi può biasimarli? I computer sono portali che danno su un mondo magico, illimitato e connesso. I ragazzi si accasciano ai lati opposti del tavolo in cucina, i

    PC

    in mezzo, accedono a videogiochi online multigiocatore come Roblox, Minecraft e Fortnite e danno il via alle loro avventure pomeridiane.

    Poco dopo li sento pianificare le ore successive della loro vita: «Ti va di fare un gioco di ruolo?», «Non possiamo giocare a Hunger Games e basta?», «Chiamiamo Dylan e Orion». Sento la familiare musichetta di Skype che si accende e in meno di un minuto ecco sei o sette vocine stridule preadolescenziali esplodere dalle casse del computer. Non sono fuori a gironzolare con i figli dei vicini. Non giocano a palla nel campetto dietro l’angolo ma si intrattengono con gli amici più stretti in spazi virtuali all’interno dei loro dispositivi.

    L’abbandono di skateboard e monopattini a favore di tastiere e touchscreen provoca ansia ma, per il bene dei miei figli, metto da parte l’istintiva paura del cambiamento. Devo ammettere che la maggior parte di noi genitori, insegnanti, assistenti all’infanzia – persino politici – la vede in maniera sbagliata. Nonostante siamo perfettamente consapevoli che ogni generazione può e deve avere i propri giochi, siamo facilmente sedotti dalla nostalgica fantasia di un’infanzia che rispecchi quella che ricordiamo. Speriamo di vedere nei bambini il riflesso della nostra giovinezza. A sostegno di questo, pensate al successo che hanno ancora oggi Star Wars, Super Mario Bros. e tutte le principesse Disney. L’industria dell’intrattenimento sa che vogliamo che i nostri figli adorino le stesse cose che amavamo noi un tempo e i vecchi marchi di successo come

    LEGO

    e Nintendo prosperano aggiornando i prodotti in modo da renderli abbastanza invitanti per le nuove generazioni, senza tuttavia privarli del senso di familiarità che smuove le emozioni dei genitori paganti. Lucasfilm e Disney traggono enormi profitti dai diritti su giocattoli, vestiti e videogame che fanno leva sul desiderio di ogni adulto di avere una seconda possibilità e offrire ai figli gli oggetti che bramava e le esperienze che si è perso.

    Ma dentro alcuni regali si nasconde una maledizione.

    Come ha detto una volta il grande psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, «il peso più grande che un bambino deve portare è la vita non vissuta dei genitori». Ha ammesso una delle eterne verità sull’educazione: gli adulti di ogni generazione mettono inconsciamente pressione ai figli perché vivano una vita che somigli alla loro ma che sia priva di sbagli. Se riflettiamo sull’affermazione di Jung e pensiamo a quante abitudini genitoriali riguardano più l’ego degli adulti che il benessere dei bambini, l’accanimento contro le nuove tecnologie digitali sorprende ben poco. Computer, tablet e videogame seducono i nostri bambini suggestionabili con rimpiazzi mediocri di quello che noi consideriamo le sole perfette opere d’arte di gioia giovanile.

    Com’è possibile che i bambini di oggi scelgano di guardare i video su YouTube di Jerome

    ASF

    che parla di Minecraft invece delle avventure animate di Ren e Stimpy? Come fanno a preferire i videogame come Madden,

    NBA

    Live e

    FIFA

    allo scambio di figurine o al biliardino?

    Siete pronti per una verità difficile da mandar giù? I nuovi giochi sono più coinvolgenti perché prevedono diversi modi di interagire con il mondo, di pensare, di vivere, di imparare e di amare. Preparano i bambini per un mondo interconnesso.

    Credetemi, so che molti di noi non vogliono accettarlo. Preferiremmo resistere alle novità, difendere e proteggere i nostri preziosi ricordi. Accettare l’infanzia di oggi sembra un tradimento, come se stessimo voltando le spalle all’infanzia di ieri. Se mi assomigliate anche un po’, vi sentite probabilmente intrappolati tra la voglia inconscia di salvaguardare il vostro immaginario interiore dodicenne (il ricordo di voi stessi preadolescenti feriti) e il fortissimo desiderio di guidare senza rischi i vostri figli, presenti e in carne e ossa, verso il futuro. Oltretutto volete legare con loro, ma l’abisso generazionale tra i vostri interessi sembra più ampio che mai.

    La tensione e la confusione si manifestano sotto forma di paranoia e paura dei nuovi mezzi e delle nuove tecnologie.

    È una reazione normale e comprensibile, ma se lasciate che l’ansia vi consumi presto vi sentirete dire cose che avevate giurato di non dire mai: «Quando comincerai a crescere e smetterai di stare al computer tutto il giorno?». Scoprirete che siete diventati dei patetici guastafeste, dei vecchi secondini, il lupo cattivo. Proprio come quegli adulti che quando eravate giovani vi sembrava vi proibissero sempre tutto, vedrete che avete assunto il ruolo dell’antagonista nell’eterno dramma dei giovani eroi che combattono contro i re degli orchi.

    Figli contro padri, figlie contro madri, cavalieri Jedi che ammazzano signori dei Sith.

    Proprio come Socrate, le vostre parole finiranno per favorire ciò che cercavate di evitare e diventerete il fattore limitante nella vita eroica dei vostri figli.

    Non lasciate che accada.

    So che essere genitore è difficile, specialmente quando non si capisce bene il contesto. Non ci sono regole che descrivono come dovrebbe essere la nostra epoca perché i giochi digitali – come tutte le altre tecnologie trasformative che sono venute prima – stanno cambiando il modo di educare i figli.

    Genitori, insegnanti e chiunque si occupi di bambini devono pensare criticamente e con cognizione a come possono e devono adattare di conseguenza le abitudini, le aspettative e le usanze.

    Questo libro vi può aiutare.

    PRIMA PARTE

    Il Sé

    Capitolo uno

    Le nuove storie

    Nel corso della storia gli uomini hanno condiviso per la maggior parte le idee più o meno nello stesso modo: raccontando storie.

    Quasi tutto ciò che facciamo ha una componente narrativa. I resoconti del passato sono semplicemente racconti che ci auguriamo inquadrino il presente nella prospettiva storica. Ogni documento scientifico è un racconto che fornisce una descrizione empirica del mondo naturale. Quando compila la vostra denuncia dei redditi, il commercialista firma un racconto delle entrate, dei guadagni e delle uscite. Un’equazione matematica, una stringa di codice informatico, una lista della spesa e una ricetta possono essere intese, in senso ampio, come generi diversi di racconto.

    La tecnologia usata per diffonderli è cambiata molte volte. Siamo passati dalla narrazione orale alla scrittura cuneiforme su tavolette di argilla; dalle pergamene in pelle di animale alla carta ricavata dal legno; dai monaci amanuensi alla stampa a caratteri mobili; dai rotoli ai libri; dalla penna d’oca alla stilografica; dalla matita in grafite alla macchina da scrivere, alla videoscrittura. Di fondo, però, il contenuto dei nostri racconti non è cambiato molto. La narrazione è rimasta prevalentemente lineare. Romanzi. Rapporti di laboratorio. Equazioni complesse. Tutto aveva un inizio, uno svolgimento e una fine.

    Fino a qualche decennio fa.

    Oggi i processori multithreading in silicone e i cavi in fibra ottica ci permettono improvvisamente di registrare e condividere il sapere in maniera diversa. Le informazioni in rete non seguono più l’arco narrativo che Aristotele ha descritto più di duemila anni fa nella Retorica e nella Poetica. Non ci sono capovolgimenti, climax o conclusioni. Al loro posto ci sono queries, e il loro collegarsi senza fine nella rete digitale, per poi rimanere sospese in eterno nel regno delle possibilità virtuali. È una narrazione non lineare. Per quel che ne sappiamo, potrebbe significare un nuovo e colossale mutamento per l’umanità, importante quanto il passaggio alla parola scritta o alla stampa. Ha già aperto nuove possibilità di rapportarsi alle informazioni e al sapere. Continuerà a trasformare il modo in cui pensiamo e ci esprimiamo.

    Come dobbiamo interpretare questo passaggio alla narrazione non lineare? Cosa comporta per i nostri figli? Come cambia il modo in cui dobbiamo li prepariamo per il futuro? Di quali capacità avranno bisogno per essere adulti realizzati? Come si dovranno comportare per essere a loro agio nel contribuire alla società? Per rispondere a queste domande, dobbiamo prima capire come funzionano i media digitali interattivi.

    Niente paura, non mi metterò a spiegare come i circuiti integrati monolitici (noti come microchip) inviano segnali attraverso miliardi di minuscoli transistor. Ma se avete a che fare con i bambini – che siate genitori, insegnanti o assistenti all’infanzia – dovete pensare a come i giochi digitali influiscono su coloro di cui siete responsabili. Questo vuol dire domandarsi ben più di cosa è giusto e sbagliato. Vuol dire superare il semplice concetto di acceso o spento che solitamente è associato ai discorsi sul tempo da passare davanti allo schermo. Implica pensare criticamente a cosa succede, a livello intellettivo ed emotivo, quando usiamo un dispositivo elettronico.

    Retorica e alfabetizzazione

    Cominciamo dai videogame. Come dovrebbero considerarli gli adulti? Come ne sono influenzati i bambini? Una risposta l’ha fornita Ian Bogost, ricercatore al Georgia Institute of Technology. Bogost ha coniato l’espressione retorica procedurale per descrivere come il processo di esecuzione dei movimenti di un videogame può condurre il giocatore a un certo modo di pensare. Riguarda la maniera in cui i giocatori personificano caratteristiche particolari. Diversamente da una storia lineare tradizionale – raccontata da un narratore a un pubblico, da un autore a un lettore – Bogost argomentava che i videogame insegnano alcune abitudini mentali richiedendo di mimare procedure specifiche. Sono le regole del gioco che determinano la narrazione.

    «Di solito pensiamo che le regole limitino in ogni caso il comportamento», ha scritto Bogost, «ma l’imposizione di costrizioni crea anche espressione». Pensate a come i videogame le fanno rispettare automaticamente. Non c’è bisogno di regole d’onore, né di un arbitro. È il programma stesso a permettere solo certe giocate. Infatti, poiché le regole dei videogame sono imposte dal sistema, a volte non le vediamo nemmeno. Le diamo per scontate considerandole parte del gioco. Ci dimentichiamo, per esempio, che in Mortal Kombat sono permesse solo determinate mosse, che si può subire solo un certo numero di colpi prima di essere eliminati, o che l’area di azione è limitata. Notiamo appena che l’acqua in cui Frogger cade è semplicemente una zona off-limits, come se oltrepassasse la linea di fondo. Non diamo peso al fatto che Donkey Kong non può lasciare l’ultimo piano. Anche quando sembrano invisibili, le regole sono sempre là e di solito ci facciamo molta attenzione, perché giocare bene vuol dire imparare a interpretare i vincoli che spesso non si vedono. Dobbiamo regolare le nostre mosse così che si adattino alla struttura del gioco.

    Il concetto di Bogost

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