Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Secondo Foglio
Secondo Foglio
Secondo Foglio
E-book184 pagine3 ore

Secondo Foglio

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Secondo dei quattro volumi che raccolgono i Monologhi scritti per Il Foglio Quotidiano dal 1998 al 2004. All'interno "Savarin Sade" e "Alla luce del sole".
"Considero quei tempi bei tempi per la stampa".
LinguaItaliano
Data di uscita15 ago 2021
ISBN9791280095114
Secondo Foglio

Leggi altro di Pasquale Panella

Correlato a Secondo Foglio

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Secondo Foglio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Secondo Foglio - Pasquale Panella

    Cos'è che pensi la mattina?

    Cos'è che pensi la mattina?, andiamo... Cos'è che ricomincia? Tutto quanto. Scarichi tutta l'acqua della notte, tiepida del tuo sonno tutta l'acqua... e la minzione è l'ultimo dei sogni... che se ne va... è riassuntiva di una notte intera, di travasi in te dentro condotti curvi, a vite, a strozzature, ad assottigliamenti, ma anche a sbocchi rapidi, a scale, a scivolate, di corsa o lenti o in volo come lastre di pioggia lisce, o a planate di mante estasiate, o a nuvole sotto le mani di un parrucchiere, o a onduline come lamiere stampate. Poi c'è lo specchio, ci sei tu che torni (è il sapone, non ci si fa mai caso ma è il sapone che come il cuore del cane d'Ulisse ha un sussulto e fa un balzo e poi muore, così che la sua anima diventerà la schiuma; e è così: d'attesa di te che si consuma, e di riconoscimento)... e passi un dito, un dito sotto l'occhio e, dopo, in diagonale sulla guancia. Tendi le labbra, quindi le restringi spingendole in avanti, sposti il viso verso il suo lato favorevole, già reciti una mimica che possa risultare più piacevole alla vista che in questo istante è tua, soltanto tua. Tu sai benissimo che non sei l'immagine, adesso lo sai bene: no, tu non sei né aspetto né rappresentazione; sei come una sommossa soffocata, e nello stesso tempo sei quel che resta di una repressione, sei quel lavoro sottostante, sei quel per ora stiamo calmi. E adesso tutti i generi (se lo sapessi, se tu lo sapessi) s'agitano ma lentamente in te come quegli oli morbidi a colori e dentro un vetro e non solubili con la sostanza di cui la trasparenza è fatta, anch'essa liquida, un liquido portante nel quale paiono subacquei bulicanti gli oli molli, bolle. (Soprattutto ciò che è inutile a tutto ma attira lo sguardo somiglia molto all'intimo, che desidererebbe essere visto in qualche forma, in qualche movimento, l'intimo). Tutti i generi: il tragico, il drammatico, il farsesco, anche la commedia, e la poesia che è un odi et amo, tutti i generi in te calano come i soliti annegati gonfi d'enfasi, e ruotano con capriole indolenti... certi capelli lunghi curvano, scie di un corpo già capovolto, in secondi momenti... Poi tra le persone sentirai frasi così: La vita? È una scusa... oppure tu mi rispondi come non vorresti. Ma adesso senti il tragico senza le parole, senza l'attenuante costruttiva, cementizia, per una storia di sfascio e precipizio; senti il drammatico senza una ragione psicosociobiopolitica, senti la farsa senza che il carattere risulti un costumista che fa l'abito, senti il comico senza il maligno rodere del ridere, senti che non è un obbligo arrivare alla fine. Vorresti allora vivere di questo, di questa inopportunità del vivere, vivendo. Vorresti dire: il mondo?, m'è sfuggito, era qui, lì, non lo so, l'ultima volta che l'ho visto c'era... ma ci sono i fantasmi in questa casa?... potrei giurarlo, era... insomma c'era... è che a furia di rimuovere, e di trasferire, e di differire... sì, mi capitava sempre tra i piedi... ora un gomito contro, ora un ginocchio, ero sempre un po' in urto, un po' in urto col mondo... togli di lì, mettilo là, sposta a destra, sposta a sinistra... insomma m'è sfuggito (che liberazione)... Ma è così? È veramente così? Ritroverai quel mondo in una teglia, dentro un lavabo, una teglia piena d'acqua marrone e monete galleggianti di dobloni d'olio, in un tegame in cui le incrostazioni delle patate e d'altri bordi bruciati si stanno disciogliendo dalla sera prima... perché le relazioni con il mondo non hanno molto tatto, ti cadono sulla tovaglia, nel piatto come moscerini che fanno sci acquatico nella minestra e sci di montagna sopra il cacio sui maccheroni... si presentano senza bussare quando sei in confidenza, quando sei impresentabile (lo sei oppure dipende? Dipende: è la risposta), quando stai mangiando, anzi soprattutto. Sei ancora lì, ti guardi e non ci pensi mai a quanto freddamente tu ti guardi, con lo stesso gelo dello specchio. Sì, ci si guarda con la freddezza, col distacco, con l'impassibilità che nessuno al mondo ci riserverebbe. Ognuno guarda il proprio riflesso con la considerazione che dedicherebbe a una figura che non è del proprio tempo. (Poi io vorrei essere al tuo posto, così come tu al mio, per rivederti). Il sentimento è questo strappo esterno, è questo via da sé, non certo (e qui andrebbero citati tutti gli equivoci) quell'attenzione maniaca ad un proprio capello fuori posto (perché forse, su di me, tu esisti come vento), non certo l'acconciatura e la pettinatura di un integro contegno, ligio e fine. Al meglio noi non siamo che scomposti, al meglio. Allora? Esce o non esce questo caffè? Questo brontolio del tempo oscuro che viene a farsi presente caldamente, come una stretta al polso durante una promessa mentre tu lo versi, tanto caldamente come se qualcuno ci stringesse con calore promettente il polso, che è un manico ulteriore della caffettiera, e noi lo versiamo nel giorno di una tazza e ce lo beviamo, sì ce lo beviamo, con poche sorsate brevi, il tempo.

    Ho assunto l'Oxotil e ho di botto sei anni

    Ho assunto l'Oxotil e ho di botto sei anni: sono in mezzo ai broccoli col mio pesante, grande gatto in braccio. Non so come si chiama. Se Dio esistesse mi farebbe ricordare il suo nome, il nome che io gli avevo dato. Ho bisogno di conoscere quel nome. Perché? Perché non voglio dire altro. Ora no, ora la fine si fa amare da me. E maledico la mia delicatezza, di cui conosco il senso, quel senso di rovina. Quando l'evidenza delle cose sprofonda nel mio oscuro. L'amore che era amore, se l'ho detto. Poi quella mia stronza gentilezza. Dio, se esisti, dammi quel nome. Voglio chiamare le cose come si chiama un gatto, quella costellazione felina che mi sormonta e, vasta e largheggiante, sta aggrappata a me; è quello che voglio, sento in questo tutta la dolcezza di chiamare le cose come stanno, come un gatto che tu gli dici micio, o micio (il suo nome), vieni qua, tu pesi, io ho sei anni ma t'alzo sopra i broccoli, ho la maglietta a righe... perché non mi sono fermato lì? Altre gocce, altre gocce ancora, come la pioggia rada (una, due gocce sole, poi il cielo rinuncia, io no: tre, quattro...) sulle labbra: gocce di Teramina. Sono la cavalla di mio nonno. Sta lì (sto), rampante su una strada provinciale, e il morso stride, e i finimenti entrano in tensioni oblique. Tu, cavallina, cavallina baia, fiera, nervosa, insofferente di una foglia che, morta sulla strada, ti impennava. Vorrei respirare con quelle caverne vive e rosa, avere quel muso smosso, ed ecco i denti: strabianchi e lucenti, quei cuori d'avorio. Quanti monumenti veri, all'improvviso, s'alzano sulle strade, in mezzo ai campi, tra casa e casa (questa cavallina, per esempio, su quella strada lì, sta estrosa, equestre): una ragione grande come una frana per bloccare tutti i traffici. Divento una mia lettera, marmorea immensa, che si distende e s'amplia nella mano che la ricevette, ma senza farle male, senza schiacciamento di falangi, di niente. Rileggila, io non parlo più, conosco i nomi, i fatti, ma ora non parlo. Divento quel grappolo d'uva... Cosa comprai da me, di mio, la prima cosa al mondo che io per me comprai? Un grappolo d'uva. La fruttarola lo calò nella busta di carta marrone, e mi parve tanto, una busta per me. E mangiai gli acini andando in bicicletta. Ancora Teramina: gocce, goccioloni, primavera... Ho rubato parecchi libri in vita mia, poi non più. Ricomincio adesso: è estate, il fresco di una libreria seminterrata (comincio a fornire indizi, è estate, arrestatemi, ma io corro), una libreria guardinga, i controllori dietro le colonne, che Dio (dammi il nome del gatto mio!) vi benedica, benedica i vostri occhiali, che dal filo della colonna spuntavano: dlin! luce! quasi uno scheggiato squillo del vetro... bada!... vediamo come va la gatta al lardo (infatti era una gatta, e non so il nome), vediamo se ci lascia lo zampino... Occhio! (il mio: occhio!, mi dico). Altro che intimismi, che intrinsechezze, che solipsismi, che romitaggi... è quando si ruba che si parla con sé stessi... certe soffiate, certi bisbigli caldi, fusi, sottili, la voce, sì, del sangue, il tuo (altro che freddo: lava... quindi: bada!... che nessuno mi tocchi adesso, nessuno...) certi mormorii, quasi preghiera, preghiera vera: dammi l'occhio, dammi il tempo, dammi che nessuno entri quando esco, dammi la prontezza, l'attimo esatto, dammi il primo passo con i libri in mano, il primo passo lento quasi di chi rimiri un quadro spostandosi all'indietro, un po' di lato, quel passo da svogliato di letterature. Dammi i titoli! Mettili vicini... sposta questo che non mi interessa... allinea quello, e quest'altro, un altro ancora, oggi voglio sortire a braccia aperte, con in mezzo una stesa di libri, da tenere pressata, una fisarmonica al massimo dei suoi polmoni... mi viene in mente l'arco ma questo non è un arco, è una fila, il principio è quasi lo stesso, tenere pressati, premere questi libri campati in aria... è lo stesso il principio? Non c'è tempo... sei gradini all'uscita, da fare in salita... esco, come un suonatore d'organetto che venga fuori da una oscura bettola a botte per far respirare lo strumento. Entro con questa erezione di carta, con questa colonna di pagine, con questa specie di cero maestoso, entro in Santa Croce in Gerusalemme, che era il fresco, la base; entro nella penombra e nel refrigerio. Mi siedo su una panca, un banco, un tavolaccio da orante, i libri accanto a me, guardo l'altare, mi comunico che tutto è stato fatto a mestiere. Poi sfoglio e sfoglio e sfoglio, l'uno, l'altro, a caso o a arte... pare che stia consultando una guida turistica, poi la Bibbia, poi i Vangeli, poi i Vangeli apocrifi, poi le Eresie... una fedele mi guarda, io la guardo, le dico con gli occhi: vai in cielo, beghina... per me puoi andare, fosse per me... vai... mica subito, quando ti pare... andrai in cielo, sei contenta, ti piace? Anch'io sono contento se tu sei contenta. Oggi a me è andata bene, domani a te. Pare vero. Pare, pare, pare, ma quello che pare non è quello che è. O sì?

    Non voglio più scrivere

    Non voglio più scrivere, e anche questa sarà una vanità. Quello che qui si legge è un'illusione, un'illusione ottica. Questa è una foglia. Cominciamo dalle cose semplici: questa è una fogna (ossia è anche un errore di battitura, ma sì, negandomi più nulla). Le parole sono sviste di stampa, roba da guardare o che interrompe lo sguardo (e per questo si vede, perché sta di mezzo): questa è una siepe, ma non è una siepe descritta, una delle cose più orrende della letteratura. Mi voglio divertire: scriverò ora, adesso, illusorio, io scriverò: siepe di bosso. Non significa niente. Credevo che non l'avrei mai fatto, e questo è un progresso: non mi devo credere. Mi dà un brivido al contrario, come se il vento partisse dal dentro, dal folto, dall'umido e buio (sto facendo parecchi errori con le dita: buo per buio, ma leggerete tutto corretto, illusione, tenendola per me la mia incorreggibilità). E, siccome non voglio significare, io scriverò: siepe di mirto, nulla, nulla, niente. Scriverò: fratta, siepaio, siepa, siepaglia, siepe viva, siepe chiusa, siepone, spalliera, siepe morta, di mazze, di frasche, di zeppi, di bronchi, di brocchi, di stecchi, di sterpaglie, siepe gialla, pungente... niente, nulla... Zeriba: la siepe africana, di mimose, di mimose tagliate... mimose? cos'è? Scriverò da siepacolo, ossia da colui che vive in una siepe: sono una coccinella, una cocciniglia, sono un granello di colore rosso, sono un lemma del vocabolario... nomenclature, nomenclature... non voglio parlare che con i tecnici, le tecniche, la truccatrice, ossia la morte, che mi dice: non amo molto i fondi pesanti, credo che tu sia d'accordo... sì sì sì, lo sono... nemmeno io li amo molto, i fondi... in generale, e in particolare, insomma prima o poi bisogna fare qualcosa, darsi una mossa, cominciamo col non amare i fondi, cominciamo dai fondi, cadi a proposito, è di questo che ho bisogno, di qualcosa da non amare, cominciamo dai fondi, come fai a saperlo?... la tua valigetta... e poi queste centinaia di flaconi, in un attimo riempi una mensola... il dorso della tua mano, ma sei una scienziata vera? Provi prima su di te, sul dorso della mano... poi mi spennelli, coi vari numeri, dallo zero al castoro folto... è castoro, è martora, che pelo è? Lascia andare, è come le siepi, parliamo di nulla anche tacendo, devo tenere la bocca chiusa, teniamo la bocca chiusa... cosa fai? mi dipingi? me su me? Apri barattoli, sciorini le polveri, la polvere. Sai benissimo che quello che conta è lo scatto, sentire lo scatto dell'innesto di parte con parte, di naso con naso, d'occhio con occhio, labbro con labbro. E poi al meglio di noi stessi noi non siamo che la nostra rovina. Pronti, oplà. Dicevo di me, la coccinella, sta' a sentire: contiene una bellissima sostanza rossa che somministra il vero carminio. È inutile: ci sono cose, ci sono cose... il poetico è come le cose stanno, ossia il non poetico, il poetico è il non poetico. Sono abbastanza rovinato? Che dici lo sono, ruinato abbastanza? Sono abbastanza aggiardinato? Sono abbastanza un giardino dopo essere stato assiepato? Sono il giardino al di dentro di me? Tu che dici? Lo sono? Non parlo più che con me. Sto parlando con me perché queste poi, alla fine, non sono nemmeno parole viste, e nemmeno sentite, questo è un monologo in scala di uno a uno. Mi lascio aperta una calla, una callaia, una callaiuola, insomma uno squarcio nella siepe, perché io da fuori mi veda di dentro, ficcando il mio viso in mezzo al crespino, alla lentaggine, al rovo, al rubiglione, al ruvistico, in mezzo agli spini, ai fiori... e tra le ciglia, sotto gli occhi mi saltellano i riccioli, gli staccini, i pettirossi, gli scriccioli. È così che si vive, no? Dico a me: è così che si vive? Come la rosa? (questa frase mi stava in gola da vent'anni... e voglio dirla: come la rosa, al di là di ogni canto ma nel mutismo strepitoso dei miei petali). Sì, come la rosa, quando s'erige il fiore. Perché m'incorollo, perché? Perché niente è più malinteso di quanto lo siano i fiori; è la loro, appunto, natura, il loro silenzio, quanto è vero che un linguaggio dei fiori non esiste; è il loro odore, se sono odorosi, o colore, queste attrazioni rivolte agli insetti che fanno il solletico; ma l'umano ci ficca il suo naso, gli occhi, ci ficca i sentimenti come chiacchiera e diceria. È quell'orrore, l'orrore dei fiori, quelle forme voraci e nello stesso tempo troppo, troppo disponibili, che sbocciano, però, già come sfinimento. E io vorrei spampanarmi nel silenzio, perché qualsiasi parola è già menzogna, dire le cose è già falsificarle; dire la verità è già la malafede, è un livido, è un blu, un blu profondo, un blu d'errore blu, grammaticale, per aver coniugato il passato al futuro. Giusto il fiore: che nel passato è un nulla, un nulla in aria, e nel futuro un nulla, un pugno d'aria in aria.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1