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La tua sopravvivenza
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La tua sopravvivenza
E-book126 pagine1 ora

La tua sopravvivenza

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Info su questo ebook

“La tua sopravvivenza” è un’opera pierociampiana, viscerale, ma, al contempo, rigorosa e granitica. Una parte in prosa e una in poesia per raccontare un amore forte, vero. Un amore difficile, sempre in corso, in decorso, anche quando, in apparenza, finito.Un amore magmatico, perché ciò che è dato una volta per tutte puzza di morte. Sentiamo allora come suonano le parole, come risuonano, cadenzate in musica e ritmo, in questa lunga struggente lettera per voce che contempla la scrittura solo in quanto atto totale, assoluto, senza un prima né un dopo. Delicatezza e violenza, seta e carta vetrata, preghiera e anatema, serrano le maglie del sentimento maledetto entro cui si sviluppa davvero la (tua) sopravvivenza, il nostro persistere carnale nella carezza e la guerra dell’esistere.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2016
ISBN9788899315634
La tua sopravvivenza

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    Anteprima del libro

    La tua sopravvivenza - Stefano Zuccalà

    Table of Contents

    Stefano Zuccalà La tua sopravvivenza

    Stefano Zuccalà La tua sopravvivenza

    Introduzione di Luciana Manco

    La tua sopravvivenza

    I.

    II.

    Canzonette a tema consigliate, in ordine sparso:

    Postfazione di Livio Romano

    Profilo biografico

    Stefano Zuccalà

    La tua sopravvivenza

    Musicaos Editore, 2016 - Fablet 05

    In copertina Fingerprint di Italianestro

    Progetto grafico Bookground

    www.musicaos.org info@musicaos.it

    Isbn 978-88-99315-634

    Musicaos Editore - Via Arciprete Roberto Napoli, 82 -Neviano - tel. 0836.618.232

    Stefano Zuccalà

    La tua sopravvivenza

    Introduzione

    di Luciana Manco

    Forse è vero che l’amore è universale, che si propaga, infiammante, sterminato, dallo stesso punto del corpo, lo stesso, identico, dentro ognuno di noi.

    Ma tu. Come hai fatto a parlare così esattamente, maniacalmente, perdutamente del mio amore? Come hai fatto a dire, con parole che mai sarei riuscita a trovare, quello che mi dico ogni notte?

    Forse perché indosso il tuo nero, fuori e dentro. Forse perché bevo prosecco chiaro da due soldi dal tuo stesso bicchiere. Forse perché dici che ci somigliamo, come si somigliano i fratelli.

    Sarà di certo per questo, che amo la donna che tu ami, attraverso gli occhi che ti riconosco sul foglio. E che sono gelosa di lei (come se fosse mia), degli agguati che le fa il mondo, degli estranei (come me) che non la conoscono, e che mai la conosceranno quanto te.

    Mi hai rinchiusa, scrivendo, in uno spazio creato solo per voi due, nel quale io – chi legge, chiunque – sono scenario. E per restare, inevitabilmente, sono stata costretta ad entrarti nel corpo, e prendere i tuoi ricordi, prendere i tuoi sensi, e restare fregata, in un amore non richiesto, che risveglia le cellule dormienti del mio.

    Così mi sono ritrovata, sprovveduta, ad immergermi nell’oceano all’inizio dei tuoi fogli, e poi, ogni volta che l’onda si placava, a scorgere un lembo di quel vestito rosso. E ognuna di quelle volte, come un sussurro, mi arrivava una tua poesia. In un addio che ritorna, infinito.

    Ho il dovere di far aprire gli occhi, a chi adesso affonda, qui: bisogna andare lenti. Risparmiare il fiato. Sperare in una riva che sia un palmo di mano. Che salvi.

    Queste parole si prendono tutto.

    La tua sopravvivenza

    I.

    "Tu vattene per la tua strada

    che io andrò per la tua strada"

    Leonard Cohen


    L’insonnia è prerogativa dei reietti dell’universo. L’insonnia è prerogativa e vanto amaro dei reietti che si divincolano e non vogliono esserlo. Non vogliono più esserlo. L’insonnia percorre le vene e contamina il sangue. Che diventa sangue marcio. Che diventa sangue buio, a tratti blu. Nella testa i pensieri più inutili prendono il posto delle strategie di sopravvivenza abbozzate solo qualche ora prima. Il corpo si gira, si rigira ed è il corpo dei pazzi. Dei pazzi un momento prima di impazzire. Ma nell’insonnia non si impazzisce mai veramente, ed è questo a condannare, a condannarmi. Lo spaccarsi della mente non accade mai, ed è l’eternità del delirio fisso, logico, circolare, a indebolirmi senza però mai condurmi fino ai bordi del sonno. Il canto degli spettri talvolta si affaccia e gli spettri prendono le sembianze di me, di te, dei nostri istanti e le nostre parole, dei nostri sorrisi e le nostre miserie, dei nostri litigi e le nostre guerre da barbari. Il canto degli spettri viene da dove, da molto vicino, da dentro, da fuori. Dalle stelle e le viscere. Non posso calcolare le distanze. Non posso più niente, che non sia quest’insonnia. Ora capisci perché non posso fare a meno di parlarti. Da questo silenzio di acciaio e di magma. Da questo lontano che ha il sapore di baci schioccati da labbra maciullate. Non il sapore dei baci dolci, sfiorati. Dei nostri. Non il sapore dei baci morbidi che affondano fino ai liquidi e le lingue. Dei nostri. Non quel sapore. Non quel sapore che agogno dal basso profondo, roco, delle mie preghiere senza Dio. È un lontano che rimbomba come una scarica di baci miserabili. È un addio che non si compie e che prende fuoco insieme alla mia carne e a tutta la mia vita passata. È la fine di tutto. E vaffanculo ai calcoli e alla psicologia. Io sono questo intero inquieto volto alla distruzione. Tu sei questa assenza volta sempre e soltanto ai miei occhi. Dovunque io li sposti. Comunque io li muova. Dovunque io li chiuda.


    Io parlo con te dal lontano di tutti i chilometri che ci separano. Io parlo con te attraverso il silenzio che parla e tuona come mille segreti inconfessati e poi sputtanati all’improvviso. La mia vulnerabilità finalmente scoperta, a pelle sbocciata, aperta, ustionata. Senza più le fratture a cui va incontro l’orgoglio impettito, irrigidito, pronto a spezzarsi – come infatti è accaduto –, una volta scemata la rabbia, quella stupida rabbia sacrosanta che per mesi mi ha tenuto, fintamente impermeabile e coglione, distante da te. Con quel sorriso di merda che avevo stampato sulla faccia. Quel ghigno da miserabile che indossavo la mattina e che portavo in giro fino a notte fonda. Quel ghigno da miserabile che avvertivi quando mi chiamavi, e lo sentivi dalla voce. Quando mi chiamavi, sì, dal profondo sanguinante del tuo male. Che adesso, per contrappasso, non è altro che il mio. Quando invocavi, quando piangevi tutte le lacrime riarse di sale delle innamorate, delle amanti, delle troie di tutto il mondo. Quando ti inginocchiavi nelle parole, nelle lettere, nei messaggi telefonici, nella voce piccola e prostrata che batteva senza infrangerlo il muro di catrame della mia, di voce. Il muro di suoni che avevo eretto in pochi giorni, indeciso se proteggere me, o proteggere il mio amore per te senza di te. Indeciso, Dio mio, e infine decisissimo a ferire con ogni mezzo a disposizione, con ogni scintillare di coltello, con ogni calcio duro possibile. Io parlo con te e tu non mi senti. Non mi senti più. Io parlo con te e tu non mi senti, o fingi di non sentire, o fingi di non capire che due dolori potenti si infrangono l’uno contro l’altro, lasciando uno ed un unico cratere. Dove sei, in questo mondo pronto all’esplosione. Non

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