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In nome di un amico
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In nome di un amico
E-book503 pagine7 ore

In nome di un amico

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Info su questo ebook

Diego

è un ragazzo semplice e con tanta voglia di vivere. Per caso incontra

Marco, e tra i due nasce subito una certa sintonia. Col passare del

tempo Diego si convince di aver trovato un amico, quello vero, quello

che nei momenti di difficoltà non ti lascia solo. E di momenti di

difficoltà, Diego ne ha tanti: la sua nuova ragazza, Paola, dopo un

iniziale idillio sembra avercela con lui, trova tutte le scuse per

litigare. Marco è il porto sicuro verso cui approdare dopo la tempesta.

Tuttavia anche la luce del faro più solido può spegnersi e quando Diego

scopre l'amico in compagnia di chi non avrebbe mai immaginato, il muro

di certezze crolla. La strada si fa impervia e in discesa, tra colpi

bassi e rancori difficili da appianare. Potrà mai Diego perdonare chi

gli ha spezzato il cuore? E se lo fa, non rischia forse di arrivare

quando ormai è troppo tardi?

"In

nome di un amico" è un romanzo toccante di amicizia e amore, dove le

emozioni possono essere tanto gioiose quanto ammantate di risentimento.

Solo accettando di guardare dentro se stessi, è possibile ritrovare il

cammino di una strada così tortuosa. Non tutto è perduto, però, perché

l'amicizia, quella vera, non muore mai.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2021
ISBN9791220352352
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    Anteprima del libro

    In nome di un amico - Enrico Cancelli

    Primo incontro con mio cugino Claudio,

    prima parte (aprile 2013)

    Era un paio d’anni che non vedevo mio cugino Claudio e quel pomeriggio, quando arrivò su una BMW nera nel piazzale dell’officina, gettai lo straccetto che stavo usando sul carrello degli attrezzi e non indugiai un attimo ad andargli incontro. Lo raggiunsi mentre scendeva dalla macchina.

    «Ciao Claudio, che bella sorpresa!».

    Ci stringemmo forte la mano.

    «Oggi, poiché sono in anticipo sull’orario, ho pensato di passare a salutarti».

    «Hai avuto una buona idea!», esclamai.

    Indossava un elegante completo di lino blu con una camicia bianca e una cravatta a fantasia.

    «Come va la vita?», domandò.

    «Bene, e tu? Vedo che te la passi alla grande!», dissi con lo sguardo rivolto alla BMW.

    «Il solito tran-tran. Non farti ingannare dalle apparenze, la macchina non è mia, è di mio suocero».

    «Scommetto che la tua è più bella», supposi.

    «Magari!».

    Restammo un attimo in silenzio. Erano ormai cinque anni che conviveva con Elena a Pontevico, un comune della bassa bresciana distante circa venti chilometri da Cremona, e da allora c’eravamo visti solo un paio di volte. Si era trasferito a Pontevico quando il padre di Elena l’aveva convinto a lavorare per lui come agente di vendita delle Acciaierie Arvedi di Cremona e gli aveva messo a disposizione un appartamento in centro. In precedenza aveva lavorato come ragioniere presso un’azienda meccanica di Rovato, uno dei comuni più importanti della Franciacorta. A Pontevico si era adattato presto al nuovo lavoro che sosteneva fosse più vario e ben retribuito del precedente. Siamo cugini per parte di madre e siamo sempre stati molto amici, fin dai tempi delle superiori. Andavamo a scuola a Brescia, io frequentavo l’I.T.I.S. Castelli mentre lui il Cesare Abba, e sfruttavamo tutte le opportunità per scorrazzare in città in cerca di ragazze. In quel momento, a vedermelo davanti vestito in quel modo e con i capelli che cominciavano a ingrigire, quei bei tempi mi sembrarono lontani.

    «Ti ricordi quando andavamo a scuola a Brescia? Quando salivamo verso il castello di Brescia con Lucia, Clara e quella magrolina con gli occhiali. Come si chiamava?», domandai.

    «Mara! Era cotta di te».

    Guardai le sue scarpe di cuoio nere, un po’ appuntite secondo la moda del momento, e pensai che scarpe del genere non le avrei mai calzate in vita mia.

    «Certo che a quei tempi non andavi in giro conciato così», osservai.

    «Puoi dirlo forte! Vuoi mettere la comodità di un paio di jeans, una maglietta e le scarpe da tennis? Se solo potessi vestirmi anch’io come te. Purtroppo con il mio lavoro non posso permettermelo».

    «Vuoi fare cambio?», proposi ironicamente, anche se, supponendo di poterlo fare, non avrei accettato perché il mio lavoro mi piaceva troppo. Inoltre, essendo mio padre il proprietario dell’officina, godevo di un’autonomia che certamente non avrei potuto avere da altre parti.

    «Non saprei da dove cominciare».

    «Be’, la cosa è reciproca», dissi.

    Erano quasi le sei. Vidi mio padre al telefono in ufficio e pensai che non si fosse accorto dell’arrivo di Claudio. In officina sembrava non ci fosse nessuno, ma io percepivo quel piacevole lavorio che si svolge alla fine della giornata quando, una volta sistemati gli attrezzi, ci si trova negli spogliatoi per lavarsi le mani con l’apposita pasta e poi, dopo qualche battuta spiritosa, si entra in doccia. Immaginai che mio fratello Michele e i nostri due operai, Daniele e Federico, stessero facendo così.

    Aprile era appena iniziato, il cielo era limpido e il sole si stava abbassando per raggiungere l’orizzonte. Claudio osservò il panorama. Il terreno ondulato e ricoperto da lunghi filari di viti si appiattiva in lontananza e verso est, ai piedi del monte Maddalena, s’intravvedeva la città di Brescia che sembrava una macchia grigia di cemento.

    «Che bel panorama!», esclamò.

    «Sì, è molto bello, però a me piace anche dove abiti tu, in mezzo alla campagna della bassa».

    «Come dice mio suocero: tutti i posti vanno bene per viverci, basta andare d’accordo con le persone, e in fondo ha ragione; ma a Pontevico se non ci fosse la nebbia in inverno e l’afa in estate si starebbe meglio», osservò.

    «Non hai tutti i torti».

    «Qua è ancora Bornato o è già Passirano?».

    «È Passirano. Bornato finisce lì», indicai, «confina con quel supermercato, ma noi ci sentiamo di Bornato».

    Pensai un attimo a cosa avremmo potuto fare per passare la serata insieme, dopo tanto tempo che non ci vedevamo.

    «Ti va di venire a mangiare una pizza?», proposi.

    «Verrei molto volentieri, ma ho promesso a Elena che stasera non avrei fatto tardi».

    «Possiamo andare al bar a bere qualcosa».

    «Okay».

    Mio padre uscì dall’ufficio e si diresse verso di noi.

    «Ciao, Claudio, finalmente ti fai vedere da queste parti», disse.

    «Ciao, zio».

    «Ti fermi a cena?»

    «No, zio, ti ringrazio. Magari un’altra volta».

    Mio padre teneva in mano alcuni rapporti di manutenzione.

    «Tutti bene a casa?», domandò.

    «Sì, zio, grazie. Anche voi state bene?».

    «Non possiamo lamentarci», assentì mio padre, poi domandò sorridendo: «Figli in arrivo?».

    «Per il momento no, credo passerà ancora del tempo», rispose Claudio con un pizzico d’imbarazzo.

    «Sei sempre in viaggio?».

    «Tante volte. Sono partito mercoledì mattina e ho fatto un lungo giro, sono stato in Veneto e in Friuli».

    «Però, ne fai tanta di strada!», esclamò mio padre, poi aggiunse: «Stai attento con la macchina, mi raccomando».

    Dentro di me pensai: Mi mancava questa.

    «Comunque, se ci ripensi, noi ceniamo verso le sette e mezza».

    «No, davvero, zio, grazie».

    «Come vuoi». Poi si rivolse a me: «Diego, su questo rapporto di manutenzione della Skoda, quella che ha riparato Federico, non sono stati indicati i cambi dell’olio e dei filtri, ne sai qualcosa?».

    «Dovresti sentire lui, adesso sarà sotto la doccia», risposi un po’ perplesso.

    «Non è in doccia, oggi è uscito alle quattro».

    Solo allora mi ricordai che mi aveva avvisato il giorno prima; non mi ero accorto che fosse uscito.

    «Hai ragione, papà, me ne ero dimenticato».

    «Non fa niente, lo sentirò domani mattina, il cliente dovrebbe passare a mezzogiorno a ritirare la macchina». Poi disse a Claudio: «Ciao, Claudio, salutami Elena e anche i tuoi. Non andar via senza salutare la zia, è su in casa».

    «Sarà fatto. Ciao, zio».

    Mio padre tornò in ufficio da dove si sentiva squillare il telefono.

    «Tu va’ a salutare mia mamma, io intanto sistemo due cose e poi, se ti fa piacere, prima di andare al bar ti porto a vedere il mio trilocale, non è molto distante da qui», proposi.

    «Sei andato a convivere anche tu?».

    «Sì, ma abito qua nell’appartamento di fronte ai miei, il trilocale l’ho preso qualche anno fa quando avevo deciso di andare a vivere da solo», dissi con un po’ di orgoglio.

    «Stai con quella di Castegnato? Com’è che si chiama?»

    «Sei rimasto indietro, dopo quella di Castegnato c’è stata quella di Ospitaletto, poi quella di Rovato, e poi…».

    «Ora con chi stai?».

    «Con una di Bornato, non credo che tu la conosca».

    Il rumore della serranda metallica dell’officina, azionata da mio padre, m’interruppe.

    «Adesso è al lavoro, farà tardi stasera. La prossima volta che passi te la presento».

    «E tua figlia ora dove vive?»

    Mi fece molto piacere che me l’avesse chiesto.

    «Chiara vive ancora con i miei».

    «Credo sia stata la soluzione migliore», commentò.

    Avrei voluto continuare il discorso ma avevo fretta.

    «Ora va’ su da mia mamma, non darle troppa retta altrimenti viene buio. Ci ritroviamo qui tra dieci minuti al massimo».

    «Non fai la doccia adesso?».

    «Di solito la faccio qua, ma a volte preferisco a casa mia, mi rilassa di più. Non ci impiegherò molto».

    Entrai in officina e Claudio si avviò verso la scala esterna che porta al piano di sopra.

    Circa dieci minuti dopo tornai sul piazzale pronto a partire. Sperai che Claudio mi stesse già aspettando, ma non era così. Aspettai qualche minuto e poi andai al cancellino e suonai il citofono. Mia madre si affacciò alla finestra.

    «Mamma, fa’ scendere Claudio, dobbiamo andare via, ho fretta!».

    «Arriva subito, mi ha detto che vuoi fargli vedere il tuo appartamento».

    «Appunto, siamo già in ritardo!».

    Nel riquadro della finestra vidi Claudio avvicinarsi a mia madre, poi li vidi scambiarsi dei baci. Poco dopo mi raggiunse.

    «Andiamo con la mia macchina».

    «Sei matto?», esclamai. «Tu sei l’ospite, tocca a me scarrozzarti».

    Mi avvicinai alla mia moto, Claudio la guardò un po’ schifato.

    «Non dirmi che hai paura di sporcarti il completo, con tutti i soldi che prendi non avresti nessun problema a comprarne un altro».

    «Sì, hai ragione, perché ne prendo proprio tanti di soldi», commentò con un po’ d’ironia.

    «Non mentire».

    Montai in sella alla mia Suzuki GSR 750 di colore azzurro, lucida come un cristallo perché l’avevo pulita qualche giorno prima, e aspettai che salisse dietro. L’idea di sfrecciare in mezzo al paese portando Claudio vestito a festa mi divertì parecchio. Lasciai la manopola della frizione un po’ allegramente e la moto schizzò in avanti. Una macchina che sopraggiungeva da Passirano suonò il clacson, mia madre affacciata alla finestra si mise le mani nei capelli e Claudio mi strinse i fianchi con le mani.

    In un baleno arrivammo davanti al cancello del complesso residenziale nel quale abitavo, un grande cascinale ristrutturato di due piani con un ampio cortile comune. Il mio appartamento era situato al primo piano. Parcheggiai la moto davanti all’autorimessa e salimmo in casa. La zona giorno era composta di un ampio soggiorno con un divano beige, un tavolino in vetro e una libreria in rovere, e da una cucina in formica bianca con tavolo da sei. In un angolo c’era il camino a legna rivestito di mattoni che dava all’ambiente un tocco d’intimità, e sulle pareti, in certi punti, l’intonaco era stato scrostato per scoprire le pietre antiche. Nella zona notte c’erano due camere, una matrimoniale con mobili di legno chiaro e una più piccola vuota, e un bagno con doccia rivestito di ceramica azzurra. C’era anche un balcone rivolto a nord. La cosa che attirò subito l’attenzione di Claudio fu la grande finestra del soggiorno, affacciata sulla pianura che inizia ai piedi delle colline sulle quali sorge il paese. Nelle limpide giornate di sole da lì si vedevano gli Appennini.

    «Caspita, che visuale!», esclamò Claudio sorpreso. «E che bell’appartamento, chissà quanto ti è costato!».

    «Niente, me l’ha preso il vecchio, non voleva che lo comprassi ma quando l’ha visto mi ha detto che forse valeva la pena che imparassi ad arrangiarmi e ha tirato fuori i soldi».

    «E tua mamma?».

    «La prima volta che è stata qui si è innamorata del panorama. Mi ha detto che quando sarà alla ricerca di un’ispirazione particolare verrà ad affacciarsi a questa finestra. Sai che lei ha l’anima dell’artista», dissi con orgoglio.

    «So che ha scritto un libro di poesie, se non sbaglio».

    «Più di uno, e anche diverse sceneggiature per spettacoli teatrali».

    «Anche tuo papà è appassionato d’arte?».

    «Direi proprio di no, pensa che quando mia mamma gli legge qualcosa per sentire il suo parere lui non la accontenta mai, aggira sempre il discorso».

    «Si vede che l’arte non fa per lui», osservò.

    «Certamente, è un uomo pragmatico, gli interessano solo le cose che si possono toccare, smontare e aggiustare».

    «È proprio fatto per lavorare in officina».

    «Penso proprio di sì», confermai. «Adesso faccio la doccia, non ci impiegherò molto, tu intanto accomodati come fossi a casa tua. Se vuoi bere o mangiare qualcosa lì c’è il frigo», gli indicai, «ma forse ti conviene aspettare perché dopo andiamo al bar. Se vuoi leggere qualcosa, i libri e le riviste sono là, vedi un po’ tu».

    Un attimo dopo ero sotto la doccia e l’acqua calda come sempre mi rilassò.

    Andammo alla Pizzeria Dei Mille e occupammo un tavolino all’aperto sotto la pergola. Amerigo, il barista, ci raggiunse subito. Claudio ordinò una Coca Cola e io una birra alla spina. Dopo che Amerigo ci ebbe serviti, rimanemmo un po’ in silenzio. Sembrava che la voglia di parlare se ne fosse andata di colpo, come se all’improvviso avessimo esaurito tutti gli argomenti. Quella specie d’imbarazzo iniziale, però, si rivelò preludio di un lungo monologo che non avrei mai immaginato di tenere a mio cugino, in più riprese, e che mi coinvolse in maniera particolare: la storia degli ultimi tre anni della mia vita.

    Claudio si appoggiò contro lo schienale della sedia, allungò la mano sul bicchiere e lo fece ruotare un po’ di volte strisciandolo sul tavolino. Mi fissò negli occhi, come se non sapesse da dove cominciare, poi disse: «Ho saputo di Marco, so che eravate molto amici, ma cos’è successo di preciso?».

    Io rimasi in silenzio, l’accenno a quell’argomento mi colse di sorpresa e al momento non seppi rispondere.

    «È da un po’ che volevo chiedertelo, ma non ne ho mai avuta l’occasione», aggiunse con un certo imbarazzo.

    «A essere sincero è una storia un po’ lunga da raccontare», precisai.

    «Scusa, magari ti ho messo a disagio. Se non vuoi parlarne, non fa niente», disse.

    Non mi sentii per niente a disagio; anzi, percepii il desiderio di assecondarlo, forse per la voglia di rivivere nella mente tante emozioni che mi avevano lasciato dei segni indelebili sul cuore.

    «Tranquillo, non mi hai messo a disagio e a essere sincero mi farebbe piacere raccontarti cos’è successo. Forse mi farebbe anche bene, sempre che tu sia disposto ad ascoltarmi».

    «Dispostissimo», affermò Claudio sorridente.

    Bevvi un altro sorso di birra e cercai di riordinare i ricordi. Tutto era iniziato tre anni prima.

    I

    Inizio del racconto

    Marzo 2010

    Tre anni fa, agli inizi di marzo, cambiai la moto. Rottamai la vecchia Honda e acquistai una Kawasaki Ninja ZX-6R di colore verde. Ero innamorato di "Leiˮ. La domenica decisi di fare un giro in montagna per provarla su un lungo percorso. Per una fortunata coincidenza, Flora, una ragazza di Castegnato che frequentavo a quel tempo, la sera prima mi era sembrata un po’ indisposta, e quella mattina mi telefonò dicendo che non stava bene e non se la sentiva di venire in moto. Mi finsi dispiaciuto ma quando chiusi la comunicazione poco ci mancò che mi mettessi a saltare dalla gioia. Era una bella giornata di sole e l’idea di collaudare la mia moto da solo, con la possibilità di impennare, di frenare di colpo e di accelerare al massimo, tutte cose che non avrei potuto fare con la presenza di Flora sul sedile posteriore, mi elettrizzò molto.

    Verso le dieci imboccai l’autostrada con l’intenzione di raggiungere l’Alto Adige, ma al casello di Mezzocorona uscii e mi diressi verso la Val di Non. Attraversai la Val di Sole e, quando raggiunsi il Passo del Tonale, mi fermai presso un ristorante tipico per pranzare. Mi sedetti a un tavolino dal quale potevo controllare la mia Kawasaki nuova di fiamma che sembrava brillasse in mezzo a tutte le altre moto. Dopo aver mangiato ripartii in direzione Ponte di Legno, per fare rientro a casa scendendo dalla Val Camonica. Fu poco prima di raggiungere il Lago d’Iseo che per un caso fortuito incontrai Marco e diventammo amici. Lo conoscevo solo di vista, sapevo che abitava a Ospitaletto e aveva aperto da qualche anno un negozio di parrucchiere in centro a Bornato, a fianco dell’ufficio postale. Non ero mai entrato nel suo negozio ma, da quello che avevo sentito dire in giro, era molto bravo nel suo mestiere.

    Prima di Pisogne, in località San Gerolamo, mentre sfrecciavo sul rettilineo notai uno che teneva in mano il casco a pochi passi dalla moto parcheggiata sul ciglio della strada. Mi sembrò un po’ sconsolato. Tornai indietro per vedere se avesse bisogno di qualcosa e lo riconobbi: era Marco. La moto era una Honda CBR di colore rosso un po’ sbiadito.

    «Qualche problema?»

    «Sono rimasto senza benzina, che stupido».

    «Può capitare».

    «Avrei dovuto fermarmi all’ultimo distributore che ho visto, pensavo di farcela a raggiungere quello successivo».

    Capii che non sapeva chi fossi.

    «Potrei dartene un po’ della mia, ma servirebbero un tubicino di plastica e un contenitore», dissi.

    Lui rovistò nel suo bauletto, ne trasse una bottiglietta di plastica vuota e mi guardò sconsolato.

    «Non ho il tubicino», disse.

    «Salta su che andiamo a prenderlo da qualche parte».

    Non se lo fece ripetere due volte.

    Ci dirigemmo verso Pisogne e ci fermammo al primo distributore che incontrammo, ma fu inutile perché non c’era nessuno, era aperto solo il self-service. Allora entrammo in un ristorante per chiedere se potevano prestarci una tanica o un tubicino di plastica, ma ci guardarono insospettiti, come se temessero che volessimo fare un attentato. Riprendemmo la nostra ricerca, e quando vidi una signora che stava entrando in casa decisi di chiedere a lei. Ci diede il tubicino di plastica e ci disse di tenercelo. Ricordo bene quei momenti perché tra me e Marco s’instaurò da subito quella particolare confidenza che può scaturire solo tra persone che hanno affinità di carattere e sono destinate a diventare amiche. Marco era molto simpatico, aveva il dono di mettere a proprio agio le persone che incontrava. Ringraziammo la signora e a quel punto Marco le prese con gentilezza la mano e gliela baciò con spontaneità, come se si fosse trattato di un gesto comune. Lei rimase un po’ perplessa ma era evidente che aveva apprezzato.

    Tornammo alla moto rimasta a secco e travasammo la benzina.

    «Sei stato gentile a fermarti», disse.

    «Chiunque l’avrebbe fatto!».

    «Non ne sono convinto, comunque il problema è stato risolto, ora possiamo andare. Hai tempo di venire a bere qualcosa? Offro io».

    «Okay».

    «Tu dove sei diretto?», riprese.

    «A Bornato».

    Mi guardò sorpreso.

    «A Bornato? Lo conosco bene, ci lavoro».

    «Lo so, sei il parrucchiere che ha il negozio vicino alla posta. Io abito a Bornato, ci sono nato».

    «Davvero? Che coincidenza, io sono Marco».

    «Diego, piacere», e ci stringemmo la mano.

    «Allora dobbiamo proprio festeggiare». Rimase un attimo pensieroso poi aggiunse: «Poiché percorriamo la stessa strada, se sei d’accordo possiamo fermarci a Provaglio d’Iseo, al Bar della Stazione».

    Sapevo dov’era quel bar. Accettai di buon grado e partimmo, lui per primo. Strada facendo notai che non aveva una guida molto sicura, tendeva a portarsi al centro sulle curve e a stare troppo vicino al bordo dell’asfalto sui rettilinei, inoltre aveva una frenata un po’ brusca. Mi mantenni a debita distanza e pensai che appena mi fosse capitata l’occasione gliel’avrei detto.

    Arrivammo al bar che stava diventando buio. Appena entrato, Marco andò dietro il bancone dov’erano due bariste e prese letteralmente in braccio quella più adulta, un tipo originale sulla quarantina, con i capelli grigi a caschetto, il piercing al naso e il viso un po’ sciupato con un’espressione indefinita che metteva quasi a disagio. Era evidente che Marco la conosceva bene.

    «Ciao, Katia, amore mio!», disse allegramente.

    Poi la portò in mezzo al locale, la adagiò su una sedia e le diede un bacio sulla guancia mentre lei fingeva di opporsi, benché fosse evidente che le faceva piacere. I clienti osservarono la scena divertiti. In quel trambusto un ragazzo grasso, appoggiato al bancone con un boccale di birra in mano, se la prese con Marco perché sosteneva che l’avesse urtato.

    «Sta’ attento a dove vai, mi fai rovesciare la birra!», brontolò.

    Immaginai che avesse alzato un po’ troppo il gomito e cercasse la rissa.

    «Non è colpa mia se sei extra large», disse Marco, e gli si avvicinò.

    Tutti zittirono. Immaginai che a quel punto la faccenda finisse a cazzottate, ma non fu così.

    Marco gli prese il braccio libero e lo alzò mentre il ragazzo, posato il boccale sul bancone, lo guardava incredulo pronto a colpirlo.

    «Vedete questo braccio, vedete questi muscoli? Se uno così ti dà un cazzotto ti stende, uno così conviene averlo come amico e non come nemico».

    La tensione si allentò e qualcuno cominciò a ridere. Marco non aveva ancora finito lo show.

    «Vorrei avere anch’io un fisico così, guardate che muscoli, che pancia».

    Tutti scoppiarono a ridere mentre il ragazzo cercava di agguantare Marco che se la svignava.

    Marco riprese Katia in braccio e disse: «Vi comunico che ho deciso di sposare Katia e vorrei offrire da bere a tutti, ma a una condizione».

    Qualcuno chiese quale fosse.

    «Se paga Katia, poiché è la barista, la sposo», e le stampò un altro bacio sulla guancia.

    Katia si alzò per tornare dietro il bancone e lui finse di trattenerla.

    «No, ti prego, non lasciarmi, ti ho già preso anche l’anello, però non dovevi metterlo al naso», aggiunse.

    Non mi trattenevo più dal ridere. Marco invitò il ciccione a sedersi con noi e gli offrì da bere. Ordinammo anche degli stuzzichini e lo spasso continuò per un po’. Quando il ciccione si alzò e si allontanò dissi a Marco che aveva corso un bel rischio.

    «Era tutto calcolato», osservò.

    «Se lo dici tu».

    Prima di uscire si fece dare da Katia quattro bottiglie di birra Heineken.

    «Non avrai intenzione di berle da solo?», domandai.

    «Certo che no, le berremo insieme».

    Così, piacevolmente sorpreso per il proseguimento della serata, ripartimmo rombando con le moto in direzione Bornato, dove poco dopo ci fermammo in prossimità della piazzetta di fronte alla chiesa. Si tratta di una superficie di forma semicircolare pavimentata con lastre di marmo, delimitata da alcuni cipressi e affacciata sulla pianura. Parcheggiammo le moto e raggiungemmo il limite della piazzetta. Erano già le nove. Il cielo, dopo la bella giornata di sole appena trascorsa, pareva un’impenetrabile cappa scura. Non brillava nemmeno una stella ma in compenso la pianura brulicava di migliaia di luci, come se tutte le stelle fossero precipitate in terra e lampeggiassero deboli prima di spegnersi. Il leggero mormorio di vita pulsante che proveniva dalla vasta distesa pianeggiante mi palpitò nel cuore e mi diede un dolce senso di malinconia.

    «Certo che si sta bene qui», osservai.

    Marco stappò due bottiglie di birra e me ne passò una. Dopo aver bevuto il primo sorso, gli offrii una sigaretta.

    «Così tu abiti qui a Bornato?».

    «Sì, hai presente la strada per andare a Passirano? Prima di uscire dal paese a destra c’è un supermercato e poco più avanti, sulla sinistra, c’è un’officina meccanica».

    «Ho capito qual è».

    «L’officina è di mio papà, noi abitiamo sopra».

    «Caspita, allora siete gente che ha i soldi».

    «Io no di sicuro, mio papà forse».

    Ebbi l’impressione che Marco stesse pensando ad altro. All’improvviso si mise a cantare, rivolto alla pianura, alcuni versi di una canzone di Vasco Rossi.

    «E va bene così… senza parole, senza parole!… Ho guardato dentro un’emozione e ci ho visto dentro tanto amore… senza parole».

    Iniziai a cantare anch’io.

    «Ho guardato dentro casa tua e ho capito che era una follia, aver pensato che fossi soltanto… mia, e ho cercato di dimenticare, di non guardare… e va bene così… senza parole, senza paroleee…».

    Prolungammo la e finale alzando ancor più la voce.

    Si aprì l’imposta di una finestra al secondo piano della scuola materna e si affacciò una suora. Noi ci mettemmo a ridere, lei borbottò qualcosa e poi richiuse.

    «Certo che potremmo tenere un concerto qui, immagina di vedere tutta la pianura piena di gente che ci applaude», disse Marco.

    «Con migliaia di ragazze che cercano di avvicinarsi per chiederci l’autografo e per saltarci addosso», aggiunsi, «sarebbe la cosa più interessante».

    «Faremmo fatica a tenerle», osservò Marco divertito, poi domandò: «Tu hai la ragazza?».

    «Diciamo che ho un’amica ma non è una cosa seria, e tu?».

    «Vale anche per me, in questo momento sto con una di Edolo, una certa Marika».

    «Di Edolo? Così lontano?».

    «Almeno ho la scusa per usare un po’ la moto».

    Pensai che un vero motociclista non vada in cerca di pretesti per andare in moto, ci va e basta!

    «Credo che la cosa non continuerà per molto, mi sto già stufando di lei», disse.

    «Perché?».

    «È da poco che ci vediamo e l’ultima volta ha tirato fuori l’argomento matrimonio».

    «Vuol dire che ha intenzioni serie», osservai.

    «Appunto, sono io che non le ho e quindi mi conviene darci un taglio al più presto».

    Restammo un po’ zitti mentre, tra un sorso di birra e l’altro, fumavamo le Marlboro.

    «Io non voglio più averne di questi problemi», osservai.

    «Quali problemi?», domandò perplesso.

    «Matrimoni e cose del genere, la mia ex moglie ormai non la vedo quasi più».

    «Ti sei sposato e già separato? Quanti anni hai?».

    «Trentatré», dissi.

    «Cinque più di me, ti pensavo più giovane. Certo che non hai perso tempo, a che età ti sei sposato?».

    «A sedici anni».

    «Cosa?», esclamò inorridito.

    «Quando la mia ragazza rimase incinta avevamo quindici anni. Ci volevamo bene a quel tempo ma poi, purtroppo, le cose sono cambiate. Ora non ci penso più».

    «E il bambino?».

    «Bambina, ha diciassette anni. Vive con i miei».

    «Diciassette anni, è bella?».

    Gli diedi uno spintone cercando di sembrare disinvolto, ma mi sentii geloso di mia figlia.

    «Non farti idee strane, prima deve finire le superiori, poi andare all’università e poi si vedrà, e inoltre sei troppo vecchio per lei».

    «Sbaglio o sei un po’ possessivo?».

    «Credo lo saresti anche tu nei miei panni!».

    Marco prese le ultime due bottiglie di birra, le stappò e me ne diede ancora una. Ogni tanto sulla strada passava qualche macchina. Un gruppo chiassoso di ragazzetti si avvicinò e poco dopo se ne andò. Continuammo a chiacchierare tranquilli, come se il tempo si fosse fermato, con lo sguardo rivolto alla pianura punteggiata di luci.

    «Sei libero domenica prossima?», domandò.

    «Penso di sì».

    «Possiamo andare in montagna, tu porti la tua ragazza, passiamo da Edolo a prendere Marika e poi andiamo a Vezza d’Oglio, i miei possiedono una casa per le vacanze poco distante dal centro».

    «È una buona idea, solo che io non so se riesco a trovare un’altra ragazza per domenica».

    «Non hai detto prima che l’hai già?».

    «Sì, ho un’amica, si chiama Flora e ho appena deciso di lasciarla».

    Ci stavo pensando da qualche giorno e lo decisi proprio in quel momento, come se le parole di Marco mi avessero dato lo sprone che mi serviva.

    «Non c’è nessun problema», disse, «anzi, così mi faciliti le cose, perché Marika ha un’amica che le sta appiccicata, tu puoi farle compagnia. Non è male!».

    «Quand’è così, non posso rifiutare».

    Ci mettemmo nuovamente a cantare a squarciagola un’altra canzone di Vasco Rossi, ora non ricordo quale, e la suora non si affacciò più alla finestra.

    Poi andammo a sederci su una panchina, parlammo di moto e dei bar che frequentavamo: lui un bar di Ospitaletto che non conoscevo e io il Bar Imperial che sta nel centro di Bornato, poco distante da dove Marco aveva il negozio. Parlammo anche di Vasco Rossi, delle sue canzoni, che ci piacevano moltissimo, e del nostro lavoro. Quando iniziammo a parlare di ragazze, un argomento che ci interessava in modo particolare, il tempo passò più in fretta. Dopo mezzanotte tornammo alle moto.

    «Allora ci sentiamo verso fine settimana per decidere cosa fare domenica?», domandò.

    «D’accordo».

    Cavalcammo le nostre moto, indossammo il casco e percorremmo affiancati il breve tratto di strada in discesa che dalla chiesa porta alla famosa pianta di romiglia con l’effigie di Cristo scolpita sul tronco. Raggiuntala, ci salutammo con un gesto della mano, poi lui girò a destra verso Ospitaletto e io a sinistra verso Passirano. Prima di arrivare a casa feci impennare la moto e pensai che Marco fosse un tipo proprio simpatico.

    II

    Le ragazze di Edolo

    Marzo 2010

    Chiamai Flora al cellulare il giorno dopo. Cercai di usare un po’ di tatto, ma quando capii che era arrabbiata con me faticai a mantenere il mio buon proposito.

    «Certo che ieri sera potevi telefonarmi», disse, «sapevi che non stavo bene, ma proprio non te ne importa nulla di me!».

    «Eravamo d’accordo che ci saremmo sentiti in settimana o sbaglio?».

    «Cosa c’entra? Il fatto è che tu non mi vuoi bene», obiettò con un tono provocatorio, come se cercasse il pretesto per litigare.

    «Non ti voglio bene? Se lo dici tu».

    «Ecco, vedi, come sospettavo!».

    «Che cosa?» Cominciai a spazientirmi, volevo dirle che avevo deciso di lasciarla ma non riuscivo a inserire nel discorso le parole che avevo preparato.

    «Sospettavo che…».

    Trovai di colpo le parole e la interruppi.

    «Senti, Flora, a questo punto forse è meglio che ognuno vada per la sua strada».

    «Perché?», domandò preoccupata.

    «Lasciamoci e basta, mi sono stancato. Tutto qua».

    «Perché, cos’è successo?».

    Ci frequentavamo da pochi mesi ma ero stanco di discutere con lei per delle sciocchezze.

    «Mi spiace, ma non me la sento più di continuare».

    «Perché non te la senti più, c’è forse di mezzo un’altra? Non puoi farlo così di punto in bianco!», strillò con veemenza.

    Era proprio ciò che mi serviva per chiudere il discorso.

    «Come non posso farlo? Lo faccio e basta! Ti saluto, non chiamarmi più».

    «Diego, aspetta!».

    «Ciao», e chiusi la comunicazione.

    Ero stato scortese ma non ne potevo proprio più di tutte quelle storie che s’inventava per dimostrarmi che mi voleva bene mentre io, secondo lei, non ricambiavo abbastanza il suo affetto. All’improvviso mi sentii come se mi fossi liberato di un peso che aumentava di giorno in giorno e non ci pensai più. Flora mi cercò un po’ di volte al cellulare ma io non le risposi mai e alla fine smise di tormentarmi.

    Il giovedì telefonai a Marco. Ci mettemmo d’accordo per partire la domenica pomeriggio verso le due, e quando arrivò l’ora lo stavo già aspettando in sella alla mia moto sul piazzale dell’officina. Lo vidi arrivare sulla sua Honda e immaginai che si fermasse un attimo, invece si limitò a rallentare e con la mano mi fece segno di seguirlo. Mi accodai subito con la netta sensazione che ci saremmo divertiti. Lungo il tragitto continuammo a superarci a vicenda per gioco. Marco non andava molto veloce e, per assecondarlo, quando mi accorgevo che voleva superarmi rallentavo un po’. Quando invece toccava a me superarlo cercavo sempre di farlo nei tratti di strada in cui potevo accelerare al massimo. Era una forte emozione sfrecciargli vicino.

    In poco più di un’ora raggiungemmo Edolo, uscimmo dalla provinciale e arrivammo alla stazione ferroviaria. Parcheggiammo le moto davanti a un bar, dove entrammo per bere una birra. Pensai che fossimo in anticipo ma scoprii che non era così. Marco mi disse che si divertiva a far aspettare le ragazze. La temperatura era sopra la media stagionale e, benché fosse il mese di marzo, quella domenica faceva un caldo quasi d’inizio estate. La birra era squisita.

    Ripartimmo poco dopo. Percorremmo la strada dietro la stazione e poi entrammo in una stradina sterrata che porta al bacino idrico dell’Enel situato nella periferia sud di Edolo. Erano quasi le quattro del pomeriggio. Le ragazze, mi disse Marco, avrebbero dovuto aspettarci su una delle panchine disposte lungo il perimetro del bacino idrico, ma non c’erano.

    «Si saranno stancate di aspettarci e se ne saranno andate», supposi.

    «Tanto meglio!», affermò.

    Poi mi guardò con un’espressione così simpatica che scoppiai a ridere.

    «Ho capito, non te ne frega niente», dissi.

    «Sì e no. Andiamo a cercarle, perché secondo me sono ancora qui e magari ci stanno osservando e ridono alle nostre spalle».

    Mi sembrò un’eventualità divertente. Proprio in quel momento sentimmo delle grida provenire dall’altra sponda del bacino: erano loro che cercavano di attirare la nostra attenzione. Le raggiungemmo subito. Capii qual era Marika perché cercò di salire in moto con Marco, ma lui non glielo permise. La sua amica, quella che sarebbe toccata a me, non era male. Marco non si preoccupò nemmeno di presentarmele, impegnato com’era a mettere in atto uno dei suoi scherzi. Ci trovavamo su uno stretto sentiero. Marco finse di volerle investire con la moto e loro scapparono. Marika continuava a ridere e a spingere la sua amica mentre lui le tallonava tenendo il motore su di giri e avanzando a scatti con la moto. Io da dietro osservavo la scena divertito. L’altra ragazza all’inizio sembrò stare al gioco, poi cominciò a innervosirsi.

    «Smettila di spingermi, cosa stai facendo?».

    «Corri, altrimenti ci schiaccia!», disse Marika ridendo.

    A un certo punto la ragazza che stava davanti inciampò e cadde sul ciglio del sentiero. Non riuscii a trattenermi dal ridere. Marco spense la moto.

    «Sei proprio una scema, cosa continuavi a spingere?».

    «È lui che è scemo, cosa c’entro io?», rispose Marika mentre la aiutava a rialzarsi.

    Marco scese dalla moto, abbracciò Marika e la baciò sulla bocca. Lei lo assecondò contenta. Poi si avvicinò alla sua amica per fare altrettanto ma lei non glielo permise. Era arrabbiata perché le si erano strappati i jeans su un fianco. Non era grassa ma li riempiva bene. Scesi dalla moto per presentarmi poiché Marco non si decideva a farlo. Diedi per prima la mano alla ragazza che era caduta.

    «Piacere, Diego».

    «Piacere, Marilena», disse.

    «Ora so come ti chiami».

    «Non te l’aveva detto Marco?», domandò Marika.

    «No!», risposi pensando all’inutilità della domanda.

    «Io sono Marika, piacere».

    La sua mano rimase floscia, non accennò minimamente a stringere la mia. Sentii che non saremmo mai diventati buoni amici.

    Marco si fece prestare da Marika gli auricolari e il lettore mp3 e si mise ad ascoltare la musica seguendone il ritmo con i movimenti della testa. Sembrava che si fosse dimenticato di noi. Lo guardammo un attimo in silenzio, poi Marilena mi disse: «Tu di dove sei?».

    Quando parlava, sembrava che le abbondasse la saliva in bocca. Aveva le labbra sempre umide e questo mi mise un po’ a disagio. Non mi sentii molto attratto dall’idea di baciare quelle labbra.

    «Sono anch’io di Bornato», risposi.

    «Allora sei matto anche tu come Marco», sentenziò Marika.

    Preferii non commentare. Per un po’ osservammo Marco in silenzio. Non mi sentivo molto a mio agio con quelle due ragazze. Marika, quella più carina, non mi attirava d’istinto, avevo l’impressione che fingesse di essere un tipo allegro ma nascondesse invece un carattere puntiglioso e un po’ lunatico. Marilena invece mi sembrò una ragazza dal carattere chiuso. Dal modo con cui mi guardava, ebbi l’impressione di piacerle. Scambiammo qualche battuta e poi dissi a Marco che forse conveniva partire per Vezza d’Oglio. Lui, tranquillo come se non gli avessi parlato, caricò in sella Marika e partì senza nemmeno aspettare che Marilena si fosse sistemata dietro di me. Lei non mi sembrò dispiaciuta per questo, come se aspettasse il momento di rimanere da sola con me. Salì con calma sulla moto, si strinse a me e disse: «Non farci caso a Marika, è fatta così!».

    Di com’era fatta Marika non m’importava nulla.

    Partii subito per raggiungere Marco che era già scomparso alla nostra vista e aveva lasciato dietro di sé una fastidiosa scia di polvere. A volte si comporta proprio come uno stronzo pensai mentre Marilena mi teneva stretto, forse un po’ troppo. Lo raggiunsi e dopo aver superato la stazione ferroviaria voltammo a destra e ci fermammo davanti a un edificio di quattro piani. Le ragazze scesero dalle moto e sparirono dentro un portone. Guardai Marco per capire cosa stesse succedendo.

    «Sono salite a sistemarsi un po’, non ci impiegheranno molto», disse.

    Non conoscevo il programma di Marco per quel pomeriggio e del resto non ero intenzionato a chiederglielo, mi piacevano le sorprese. Sapevo che di solito le ragazze ci impiegano un po’ di tempo a prepararsi e ripensando a Marilena mi dissi che più tempo fosse passato meno ne sarebbe rimasto per dopo.

    «Sono sorelle?», domandai.

    Marco si mise a ridere. «Cos’è che te lo fa pensare? Te l’avrei detto, e poi di solito le sorelle non escono insieme».

    «Ho visto che sono entrate tutte due in quel portone» cercai di giustificarmi.

    «Qui ci abita Marika, Marilena sta dall’altra parte del paese».

    Accesi la moto tanto per fare qualcosa. La accese anche Marco.

    «Te la senti di fare una gara?», dissi.

    Marco mi guardò incuriosito. «Dove?».

    «Dove capita, tanto per ammazzare il tempo, il primo rettilineo un po’ decente che troviamo, magari in periferia dove non c’è traffico».

    Non sembrò molto entusiasta ma accettò. Capii che non voleva dare l’impressione di essere un po’ timoroso di gareggiare, anche se non c’era bisogno che lo dicesse perché l’avevo già intuito.

    Tornammo in prossimità del bacino idroelettrico dell’Enel e cercammo un tratto di strada che facesse al caso nostro. Quando lo trovammo, ci fermammo per sfidarci sul percorso di andata e ritorno da una rotonda che distava circa mezzo chilometro. Fu Marco a dare il via. Scattò in avanti con poca grinta e fino alla rotonda lo lasciai in testa, ma al ritorno, quando

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