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Nativi Americani: Guida alle Tribù e Riserve Indiane degli Stati Uniti
Nativi Americani: Guida alle Tribù e Riserve Indiane degli Stati Uniti
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E-book480 pagine4 ore

Nativi Americani: Guida alle Tribù e Riserve Indiane degli Stati Uniti

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Info su questo ebook

La prima guida che offre una panoramica completa e aggiornata della complessità e vastità di culture e di tribù di Nativi Americani degli Stati Uniti, insieme a Alaska e a Hawaii. Un testo, nell’ottica anche di aiutare con il turismo le economie delle Nazioni Indiane,  da consultare per abbracciare la realtà delle tribù e delle riserve, che sono suddivise stato per stato e organizzate per tipologia. Storia, leggi, focus sulle boarding school, sui musei dedicati agli Indiani d’America, sui pow wow, sulle associazioni native. Il lavoro certosino di Raffaella Milandri, studiosa esperta di Nativi Americani, consegna al lettore un portale di accesso a un universo di informazioni storiche, legislative, turistiche e culturali, una guida fondamentale e unica. Indispensabile per chi vuole informarsi, studiare o organizzare un viaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788831335287
Nativi Americani: Guida alle Tribù e Riserve Indiane degli Stati Uniti

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    Anteprima del libro

    Nativi Americani - Raffaella Milandri

    PREFAZIONE

    Tristezze

    Alcuni di noi soffrono di tristezze radicate, indicibili, indissolubili, inguaribili. Forse esse sono antiche, e vengono da momenti del passato: un bacio della buonanotte non ricevuto, da bambini nel letto; parole crudeli origliate per sbaglio da dietro una porta; un rimprovero subìto per errore; un muto sguardo di accusa dell'amico del cuore. O forse esse vengono dal futuro, dalla cruda consapevolezza che un giorno arriverà una sofferenza inaudita, inaspettata, di cui l'alitare del vento ci porta l'odore, di cui la nebbia disegna la orrida sagoma. E nel passato, come nel futuro, noi siamo inermi di fronte a questo acuto sentimento lancinante: la percezione di lacrime cocenti e salate che scorrono sul nostro animo. La nostra esistenza diventa una ricerca: di lenimenti continui, di oppiacei per la coscienza, di brandelli di felicità.

    Ebbene, queste tristezze gravano come macigni nello spirito di ogni Nativo Americano: esse vengono, invece, da centinaia di anni di soprusi e ingiustizie, tanti e tali da rimanerne inebetiti.

    Senza risposta, senza giustificazione per un assoluto martirio che non sia, semplicemente, legato alla brama insensata di potere e di denaro dell’Uomo Bianco.

    Privilegio di essere bianchi

    Per qualche ragione, che sia destino o volontà divina, sei nato in un luogo preciso, in una data famiglia, in una certa posizione sociale. E non ti poni certo la domanda del perché tu sia nato bianco, nero, giallo o rosso: appartenente a una determinata razza. Solo a un certo punto della tua vita realizzi se ciò sia stata una fortuna o meno, o se sia, piuttosto, ininfluente.

    Essere di colore bianco ha diversi aspetti peculiari. Tutto sommato la cosiddetta razza caucasica è una minoranza: in base ai dati del 2017 costituisce circa l’11,5% della popolazione mondiale. Razza oggi è una parola sostituita da etnia; considerata in disuso, ed è usata spesso nella accezione negativa di razzismo e razzista.

    In realtà sappiamo che le razze non esistono: apparteniamo tutti alla stessa specie umana, con piccole differenze racchiuse in fenotipi e alleli (nota ¹ ).

    Resa dominante nel mondo dal flusso dirompente del colonialismo, la etnia bianca di origine europea ha scorrazzato in lungo e in largo nei continenti, conquistando e, più propriamente, rubando ogni sorta di risorse — e di libertà — alle etnie indigene di America, Oceania, Asia e Africa.

    Perché ti dico questo? Per renderci conto che se tu che mi leggi sei bianco, sei un privilegiato. A priori.

    La tua razza e le tue origini non hanno bisogno di essere identificate o spiegate; qualunque gesto tu compia, non costituirai mai un esempio negativo per il tuo intero popolo; non verrai mai giudicato immorale o ignorante per il colore della tua pelle; la tua gente è sempre ben rappresentata nei notiziari; non hai bisogno di cercare di spiegare gli usi e costumi della tua razza; troverai sempre giornali, riviste, cartoline, biglietti di auguri che mostrano persone bianche. Quindi, rispetto al restante 88,5% della popolazione mondiale, parti già avvantaggiato al nastro di partenza per la corsa della vita. Ma devi fare attenzione: sei anche rappresentante di una etnia che ha causato molti mali nel mondo e, a volte, puoi creare problemi anche alle persone di colore diverso, pur se le vuoi aiutare.

    Essere Uomo Bianco è una responsabilità.

    E se sei nato Uomo Rosso? Tu ne sei orgoglioso, perché fai parte di una comunità fieramente sopravvissuta a un olocausto, e hai antenati di cui porti con te le storie gloriose e lo spirito indomito.

    Ma, a un certo punto, dovrai appurare che nel mondo dell’Uomo Bianco non sei privilegiato. Anzi.

    Incredibilmente, ancora oggi le discriminazioni per te proseguono e si diramano in piccoli rivoli: nel lavoro, negli studi, nel servizio sanitario, nel sistema giudiziario, nella cultura. I Nativi Americani sono oggetto di crudeli statistiche dove tutto ciò che è negativo — disoccupazione, povertà, suicidi, malattie, violenze e tanto altro — ha percentuali più elevate che per il resto degli Americani.

    E il coronavirus? No, il coronavirus non odia l’Uomo Rosso: tratta tutti allo stesso modo, in una beffarda eguaglianza.

    Il coronavirus nelle riserve

    La popolazione degli Indiani d’America, dopo essersi salvata da un vero e proprio genocidio nei secoli scorsi, si è trovata ad affrontare nuovamente l’incubo della sopravvivenza a ogni costo: se, per noi occidentali, questo tempo del coronavirus ci ha avvicinato terribilmente al pensiero della Seconda Guerra Mondiale, o alla epidemia di influenza spagnola del 1918-20, per i Nativi Americani è invece memoria di pestilenze e massacri, perpetrati ai loro danni, che ne hanno minacciato l’estinzione. Non ultimo, la sterilizzazione forzata delle donne native (nota 2 ), eseguita fino alla fine degli anni Settanta.

    Le riserve indiane, microcosmiche nazioni dipendenti dal Governo Statunitense, hanno serrato subito i ranghi per preservare ogni singolo membro tribale, tragicamente consapevoli di quello che significa perdere vite umane, famiglie, anziani depositari della identità delle tribù. Hanno imposto il lockdown e bloccato l’ingresso ai non residenti. I cartelli DO NOT ENTER si sono moltiplicati alle vie di accesso delle riserve Navajo, Lakota, Crow, Cherokee. La gestione del proprio territorio, al massimo della autonomia controllata e relativa delle riserve, si è rivelata una carta vincente per limitare le perdite umane.

    E il grido lancinante di dolore per ogni persona colpita, per ogni morte, ha risuonato da un angolo all’altro degli Stati Uniti. Sui social media, come facebook, a migliaia i Nativi hanno condiviso danze propiziatorie e preghiere, insieme a pow wow virtuali che potessero convogliare influssi positivi sul Popolo Nativo. Al momento in cui scrivo, non si hanno statistiche esatte sui nativi vittime del coronavirus. Ogni giorno mi sono tenuta in contatto con i miei molti amici — Lakota, Crow, Cherokee, Inuit, Ojibwe — per accertarmi della loro salute, pregando a modo mio che il Grande Spirito li protegga. La Navajo Nation, la più popolosa riserva indiana, oggi conta, su stime approssimative, circa 33.000 infetti e 1.400 vittime su una popolazione residente di circa 156.000 abitanti (Census 2020) e, per loro, costituisce una vera ecatombe. Ogni morto ha un nome, un volto, un ruolo nella società dei Navajo, e i post in loro memoria hanno raccolto migliaia di cuori, commenti, lacrime virtuali. Chiudere i confini delle riserve, con le precarie strutture sanitarie presenti all’interno, — oltre a mancanza di servizi, rifornimenti, e in alcuni casi la carenza di acqua corrente ed elettricità —, è stato un atto estremamente coraggioso che però incita a una autonomia da conquistare, per sempre.

    La autonomia dall’Uomo Bianco. E deve essere da esempio per la nostra civiltà, basata su dipendenze totalitarie in termini di sistema consumistico. Su agi e benessere fasulli che ammansiscono qualsiasi ansia di ribellione.

    INTRODUZIONE ALLE RISERVE

    Perché questa guida

    Pur essendo un must da visitare, è difficile trovare guide o indicazioni che affianchino le riserve indiane alle maggiori attrazioni turistiche degli Stati Uniti, anche se comprese nello stesso territorio o in zone limitrofe. Quindi, per turisti, viaggiatori e appassionati, può essere difficoltoso organizzare una escursione presso una tribù, magari durante un pow wow (nota 3 ).

    È da tener presente che non tutte le tribù hanno una riserva, e non tutte le riserve identificano una unica tribù: alcune tribù sono presenti in più riserve e, in una singola riserva, possono essere presenti più tribù. Sento perciò la necessità di scrivere questa guida perché, specialmente per chi ama le tradizioni e lo spirito dei Nativi Americani, è opportuno sapere come sono organizzate, dove e quante sono le riserve indiane, e quali tribù rappresentano; e conoscere come si possa aiutare la economia delle comunità tribali, attraverso un turismo consapevole che tenga conto del rispetto e dei diritti degli Indiani d’America.

    Arricchire solo chi ne sfrutta la cultura e l’artigianato, e non i membri tribali, purtroppo, avviene molto di frequente: commercianti bianchi utilizzano il fascino dei Nativi Americani per fare fortuna vendendo i loro manufatti, come dreamcatcher (nota ⁴ ) e kachina (nota ⁵ ).

    Costoro spesso pagano due dollari agli artigiani nativi per ciò che rivendono a cinquanta ai turisti, guadagnandoci fior di quattrini. Oppure, piazzano i loro alberghi e ristoranti di fronte ad attrazioni delle riserve indiane, come lo store che si trova all’ingresso del campo di battaglia del Little Big Horn nella riserva Crow. Questi businessman bianchi spesso millantano lontane discendenze Cherokee o Navajo, ammantandosi del fascino indiscusso di un popolo cui non appartengono. La maggior parte dei Nativi Americani, è risaputo, non ha un grosso senso degli affari — o per meglio dire non fa dei soldi una priorità esistenziale — e difficilmente studia marketing e merchandising per allestire merce e scaffali che invoglino allo shopping: i loro artisti sono, in primis, l’espressione vera della cultura e della identità originali. Esiste una legge che protegge la loro arte da sfruttamenti illeciti e riproduzioni dei preziosi design: la Indian Art and Craft Act del 1990 (nota 6 ) .

    Il concetto di riserva

    Il termine riserva suggerisce un concetto positivo di protezione: analizziamo la parola insieme. Definisce la Enciclopedia Treccani: L’azione e il fatto di riservare esclusivamente per sé o per determinate persone e finalità un diritto, un bene o una facoltà. E aggiunge: In America, Africa e Australia , la riserva è un’ampia zona, istituita a seguito della colonizzazione europea, riservata a comunità etniche indigene, sia per consentire loro di vivere indisturbate e appartate secondo le proprie forme di vita tradizionali, sia per controllare e tenere a freno tribù bellicose e insofferenti della nuova civiltà.

    Concetti entrambi opinabili e superati. Indisturbate? Bellicose? Pensiamo alle donne indigene delle Isole Andamane, costrette dagli operatori di viaggio a danzare nude per i turisti (nota 7 ).

    Ma riserva, inquietantemente, significa anche:

    L’azione e il fatto di mettere da parte una certa quantità di prodotti e materiali d’uso, per utilizzarli via via o per particolari occasioni e necessità. E questo si potrebbe riferire anche al conservare, per usare e sfruttare con comodo, le risorse naturali di cui ogni territorio indigeno è ricchissimo. Una riserva è altresì una area di territorio dove gli animali selvatici sono protetti, come spiega il Cambridge Dictionary. Quindi la riserva si potrebbe intendere anche come riserva di caccia per chi la istituisce. Il concetto di riserva si applica principalmente, perciò, ai Popoli Indigeni e alle specie animali protette, curiosamente e gravemente abbinati.

    I Popoli Indigeni, chiamati anche aborigeni o nativi, sono popoli storicamente legati a un territorio fin dalla preistoria, o comunque da prima dell’era del colonialismo; i movimenti di colonizzazione, originati dall’Europa, hanno avuto la tendenza a segregare, sfruttare e discriminare questi Popoli.

    Da sempre legati a tradizioni e culture profondamente radicate e identitarie, poco inclini ad accettare di essere ridefinite e modificate, — se non forzatamente —la loro società è stata sempre basata, principalmente ma non esclusivamente, sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta dei prodotti del suolo.

    Nel mondo, i Popoli Indigeni che notoriamente vivono in riserve sono i Nativi Americani negli Stati Uniti e in Canada; anche gli Aborigeni Australiani vivono in aree indigene protette, indigenous protected area. Ci sono poi le terras indigenas in Brasile, la indígena originaria campesina in Bolivia, che include la parte amazzonica, i territorios indìgenas del Costa Rica, e altre ancora come la South Gujarat Tribal Belt in India, dove vivono diverse tribù di Adivasi.

    Se alcune organizzazioni internazionali, come l’ONU, hanno intensificato nell’ultimo decennio la opera di protezione dei Popoli Indigeni, dei loro diritti umani e diritti alla terra, esistono ancora popoli, come i Bakà in Camerun per esempio, chiamati Pigmei, che non hanno alcun diritto e sono stati deportati dalle foreste a vantaggio sia del business di compagnie del legname e di olio di palma, sia di creazione di parchi naturali. Questi ultimi, per assurdo, proteggono e preservano flora e fauna locali, ma non le famiglie e le vite dell’antico Popolo della Foresta.

    Un altro esempio negativo è quello dei San, o Boscimani, del Kalahari, in Botswana, che dopo essersi visti assegnare una vasta area a loro destinata, la Central Game Kalahari Reserve, ne sono stati privati e deportati con la forza dopo la scoperta di giacimenti di diamanti. E’ una storia lunga, oggi piena di difformità di trattamenti e di diritti nelle varie parti del mondo, che ha un pesante passato di stermini e massacri, come quello dei Nativi Americani e degli Indios sudamericani.

    L'opinione molto diffusa sulle riserve in America, per i coabitanti statunitensi, è che, in un mondo che si fa sempre più piccolo, povero di risorse, e oneroso per l’Uomo Bianco, i Popoli Indigeni occupino territori troppo vasti e necessitino di assistenza garantita dallo Stato, ovvero siano un costo troppo elevato. Pur se ci sono persone e associazioni che sostengono i Popoli Indigeni, una grande fetta di popolazione li considera scomodi, se non anche selvaggi. La crudele perdita di valori e di identità della loro cultura, del resto, facilita anche il degrado delle molte comunità indigene dove disoccupazione, depressione, alcolismo e suicidi non aiutano certo a farli salire ai livelli di civiltà della privilegiata società bianca, che peraltro ha sempre cercato di cancellarne le tradizioni e i valori.

    Le risorse naturali delle riserve

    La situazione delle comunità indigene, nei diversi continenti, è molto variegata e certamente difficile. Il rapporto tra le terre ancestrali dei popoli nativi e le risorse naturali in esse contenute — spesso di enorme valore per governi e multinazionali — è determinante ai fini della sopravvivenza di molte etnie e culture. Chiaramente il tipo di governo, alle cui leggi queste terre e risorse sono sottoposte, fa la differenza.

    Negli Stati Uniti, ad esempio, la tribù dei Crow del Montana ha diritto a royalties sui ricavati delle risorse del sottosuolo, che comprendono un enorme giacimento di carbone. Nonostante, molto argutamente, nei trattati (nota ⁸ ) con i Nativi Americani le riserve fossero concesse dal governo statunitense spesso senza contemplare specificatamente il sottosuolo.

    Molti trattati, negli ultimi decenni, sono stati impugnati e contestati; se ne è discusso nei tribunali statunitensi, e per fortuna in alcuni casi giustizia è stata fatta. Ha fatto storia la causa United States v. Sioux Nation of Indians ( nota 9 ), dove è stata dichiarata la colpevolezza degli Stati Uniti nel rompere i trattati e nell’appropriarsi indebitamente delle Black Hills; però, a fronte della richiesta della restituzione delle loro terre sacre, i Lakota-Sioux si sono visti offrire solo denaro, che rimane tuttora congelato in attesa di nuove azioni legali.

    L’azione dei Nativi è sempre volta a proteggere i territori, gli ecosistemi e la propria identità, mentre Governi e multinazionali hanno sempre cercato di sfruttare ed estrarre principalmente le risorse del suolo e sottosuolo, senza precauzioni per l’ambiente o rispetto per i Nativi. E’ molto interessante cosa si legge sul testo dell’Inter-American Commission of Human Rights, nell’articolo 8: Indigenous and Tribal Peoples’ rights over their ancestral Lands and Natural Resources, ovvero Diritti dei Popoli Indigeni e Tribali sulle loro terre ancestrali e risorse naturali.

    «Per la Inter-American Court, il diritto dei membri delle genti indigene a usare e godere le terre tradizionalmente di loro proprietà implica necessariamente un simile diritto per le risorse naturali necessarie alla loro sopravvivenza. In generale, in virtù del loro diritto di proprietà, le genti indigene e tribali e i loro membri hanno il diritto di usare e godere le naturali risorse che sono sopra e all’interno dei territori posseduti tradizionalmente» (nota ¹⁰ ). Ma viene anche detto che:

    « Questo corrisponde alla nozione di territorialità indigena e laborata dalla Convenzione ILO 169 e dalla Dichiarazione ONU dei Diritti dei Popoli Indigeni, per la quale i diritti indigeni alla proprietà si estendono alle risorse naturali che i Popoli Indigeni usano come parte della loro economia tradizionale o per i loro usi culturali, spirituali o cerimoniali » (nota ¹¹ ).

    Ne consegue che le risorse del sottosuolo come uranio, diamanti e petrolio, ad esempio, non rientrano certo nell’uso tradizionale o spirituale delle comunità indigene. E proprio su questa manifesta ambiguità legislativa si basano tutti quei casi in cui Stati, Governi e multinazionali intervengono a gamba tesa sulla espropriazione di territori e risorse naturali in essi contenute.

    In senso favorevole ai nativi, però, si esprime l’articolo 21 dell’American Convention on Human Rights (nota ¹² ), in cui il paragrafo 3 cita: « L'usura e qualsiasi altra forma di sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono vietate dalla legge » .

    Mi permetto di dire: Magari.

    E magari l’oggetto della contesa da difendere fossero solo le risorse del sottosuolo dei territori indigeni! La palizzata dei diritti umani si erge troppo debole nel proteggere questi popoli, per la loro stessa sopravvivenza. In Camerun ad esempio i Bakà, di cui parlavo prima, spesso non sono nemmeno cittadini censiti, subiscono la deforestazione e la alienazione dai loro territori senza potersi difendere, dovendo adattarsi a un nuovo habitat, e sono destinati alla estinzione.

    Senza alcun diritto sui territori ancestrali.

    La differenza tra il governo americano, pur con tutti i suoi difetti e limiti, e il governo del Camerun che ha a capo lo stesso presidente da quarant’anni, Paul Biya, è sostanziale ai fini della democrazia e della tutela dei diritti umani dei Popoli Indigeni. Ovunque oggi ci sia un popolo indigeno, vi è un enorme problema di sfruttamento di risorse. Che esse siano diamanti, oro, bauxite, petrolio o foreste, i Popoli Indigeni diventano un ostacolo da abbattere con lo stesso fine, e con i modi più diversi: apartheid, descolarizzazione, isolamento e perdita forzata dei valori culturali e della propria identità. Ho visto molte tragedie, soprattutto in Africa e Asia. Ma questo non toglie che anche il popolo dei Sami, in nord Europa, abbia serie difficoltà a vedere riconosciuti i propri diritti e a tutelarli.

    I Mohawk del Canada, che fanno parte della Confederazione delle Tribù Irochesi, sono tra i popoli nativi più determinati e attrezzati a lottare per la giustizia. Eppure, risale al 2017 un report di Bernard LeFrançois, un coroner del Quebec, sui suicidi di nativi canadesi, che relazionava come causa principale un clima di apartheid . Il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato tempo fa di voler valutare il riconoscimento canadese della Dichiarazione ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni, UNDRIP, United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples (nota ¹³ ), dando nuovi diritti alle First Nations canadesi, ma ancora nulla è stato fatto, anzi la politica economica del governo intende perseguire la costruzione di pipeline, oleodotti, ed estrarre combustibili attraverso il fracking, ignorando i territori delle riserve indiane e spesso dissacrandone i luoghi religiosi e di sepoltura. Tornando all’UNDRIP, di importanza fondamentale per tutti i Popoli Indigeni, tra le nazioni che non lo hanno sottoscritto nel mondo ci sono Nuova Zelanda, Australia, Stati Uniti e Canada, che nel 2007 hanno votato contro, e questo la dice lunga sulle origini democratiche e civili di questi Paesi. Sono invece 11 i Paesi che si sono finora astenuti dal voto. Vi sono territori ricchissimi di risorse, strappati ai popoli nativi con la forza sia durante la colonizzazione, che durante la fase di decolonizzazione, dove la globalizzazione conduce i giochi sotto nuovi nomi e nuovi volti, spesso all’apparenza buonisti.

    Alcune nazioni hanno in comune una dichiarazione di buoni intenti nei confronti dell’UNDRIP, ma nulla è stato cambiato, poiché gli interessi economici in ballo sono davvero stratosferici. Per gli Aborigeni dell’Australia è stato istituito nel 1998 il National Sorry Day, la Giornata Nazionale delle Scuse, per ricordare il trattamento iniquo — per meglio dire atroce — cui furono sottoposti, ma si dovette aspettare fino al 2008 perché il Primo Ministro Kevin Rudd porgesse le scuse ufficiali. Scarsa consolazione. Come i Nativi Americani, anche i bambini aborigeni furono sottoposti a rimozione e ad assimilazione forzata: allontanati dalle famiglie e adottati in famiglie bianche, fino agli anni Ottanta. Furono chiamate le Stolen Generations, le Generazioni Rubate (nota ¹⁴ ). L’operazione in Australia riuscì perfettamente: non ho mai visto un popolo più discriminato, ancora oggi, e depauperato dei propri valori.

    Il genocidio dei popoli indigeni continua, in forme più sottili ma non per questo meno crudeli.

    Io stessa, che sono stata adottata, in forma tribale, da una famiglia di Nativi Americani, negli Stati Uniti, sono stata oggetto di discriminazioni. Come se avessi la peste. Mentre invece sono fierissima di poter essere, in parte, una nativa. Il razzismo contro i Nativi esiste, ed è tangibile, in tutto il Nord America. E determina una esclusione civile e sociale, un modo di vivere ai margini del mondo dei Bianchi.

    Il nodo religioso

    Il cattolicesimo, e il cristianesimo in senso ampio, hanno incarnato la forma di colonialismo più potente e più violenta che abbia mai aggredito le popolazioni indigene. Nel nome di un dio buono, è stato imposto ai Nativi americani e canadesi di cambiare nomi, dimenticare le loro lingue originali, cancellare tradizioni. Le scuole missionarie cristiane, per i nativi, sono state negli Stati Uniti, come in Canada, uno strumento implacabile di assimilazione forzata, fino a pochissimi decenni fa. Per non parlare delle adozioni di bambini nativi in famiglie bianche, con l'intento di strapparli definitivamente alla loro famiglia e al loro popolo. Quando sorsero le prime riserve, le redini del comando delle tribù assoggettate erano in mano a due istituzioni: l’agenzia indiana del Governo, che gestiva i viveri, la giustizia, l’assetto economico della riserva; e la scuola missionaria, che attraverso scuola e chiesa impartiva l’educazione alle giovani generazioni, perpetrando un vero e proprio lavaggio del cervello. Molti degli orrori accaduti nelle riserve accaddero sotto il segno della croce.

    Le orribili scoperte del 2021: i Collegi Indiani

    Il 2021 sarà ricordato come l’anno dello scandalo in Canada: finora quasi 2000 corpi di bambini nativi sono stati ritrovati, senza nome, sepolti in fosse comuni nei terreni adiacenti a ex residential school, scuole missionarie canadesi adibite alla loro istruzione (chiamate boarding school negli Stati Uniti). Le comunità native statunitensi e canadesi sono rimaste sgomente di fronte a tanto orrore, pur se molti studenti sopravvissuti a queste scuole sapevano bene cosa succedesse là dentro: violenze, abusi e privazioni. Giornali e social media nativi hanno urlato titoli di dolore, chiedendo giustizia, scuse ufficiali dal Papa, ma soprattutto indagini per portare alla luce tutti i poveri corpi, restituirli alle famiglie o alle tribù e dare pace ai loro spiriti. Il Segretario degli Interni statunitense, Deb Haaland, nativa americana, ha promesso di andare a fondo alla questione. Nel frattempo il numero delle salme ritrovate continua a crescere. Secondo il report del National Centre for Truth and Reconciliation of Canada, solo oltre 3000 i corpi ancora da disseppellire, ma le stime parlano di oltre 50.000 bambini scomparsi nel secolo scorso.

    Ma qual era lo scopo delle scuole per bambini nativi? La loro scolarizzazione è stata propinata come pura bontà governativa ed ecclesiastica; era, invece, una arma di sterminio? Ritengo opportuno approfondire questo aspetto, attingendo a diverse fonti tra cui lo studio del Forum Permanente dei Popoli Indigeni dell’ONU, Indigenous People and Boarding Schools: A comparative Study, a cura di Andrea Smith.

    Lo scopo storico di questi collegi era quello di assimilare i nativi alla società dominante in cui vivevano e da

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