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Racconti di Nativi Americani: I cinque di mezzo. Ragazzi indiani a scuola
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Racconti di Nativi Americani: I cinque di mezzo. Ragazzi indiani a scuola
E-book168 pagine2 ore

Racconti di Nativi Americani: I cinque di mezzo. Ragazzi indiani a scuola

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Info su questo ebook

Nella sua prima edizione in italiano, The Middle Five, “I Cinque di Mezzo”, è considerato un classico della letteratura dei Nativi Americani, uno dei libri più apprezzati come autentica fonte di informazione sulla cultura indiana, e che possono essere raccomandati a tutti i lettori anche giovani, come utile correttivo all'immagine spesso distorta della vita indiana che si vede nei film, nei fumetti e in televisione. È un racconto semplice e toccante di giovani ragazzi indiani a metà strada tra due culture, riluttanti ad abbandonare le abitudini dei loro padri, e perplessi e a disagio nel loro nuovo ruolo di “uomini bianchi per finta”. Si tratta del resoconto della vita di Francis La Flesche come studente in una scuola missionaria presbiteriana nel nord-est del Nebraska, all'incirca al tempo della Guerra Civile. Scrive La Flesche: “In quest’opera, in una serie di ritratti, voglio presentare i miei compagni dei giorni di gioventù, specialmente ai ragazzi della razza che si è impossessata della terra dei miei padri”. Le vicende dei collegi indiani, boarding schools, spesso si sono concentrate sugli abusi, sulla rimozione forzata delle credenze e dei simboli culturali e sulla rottura degli alunni con la loro identità di Nativi Americani. Sebbene questi fattori siano senz’altro in gioco nel memoire di Francis La Flesche, quest’opera presenta un punto di vista diverso.
L’Autore: Francis La Flesche (Omaha, 1857-1932) è stato il primo etnologo professionista nativo americano; ha lavorato con la Smithsonian Institution ed era specializzato nelle culture Omaha e Osage. Collaborando come traduttore e ricercatore con l'antropologa Alice C. Fletcher, La Flesche scrisse articoli e un libro sugli Omaha, e diversi lavori sugli Osage. Di origine Omaha, Ponca e francese, La Flesche era figlio del capo Omaha Joseph La Flesche (noto anche come Iron Eye) e della sua seconda moglie Ta-in-ne (Omaha). È cresciuto nella Riserva Omaha in un momento di grande transizione per la tribù. Prima dell'istituzione dei programmi di antropologia, La Flesche si è laureato e ha conseguito un master presso la George Washington University Law School di Washington, D.C. La sua vita professionale si è svolta tra gli americani europei.
Il curatore:  Scrittrice e giornalista, Raffaella Milandri, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia. È membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi. Tra le sue opere ricordiamo “Nativi Americani. Guida alle Tribù e alle Riserve Indiane degli Stati Uniti” (Mauna Kea, 2021), una opera completa e aggiornata sul mondo delle tribù indiane oggi. 
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2024
ISBN9788831335508
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    Anteprima del libro

    Racconti di Nativi Americani - Francis La Flesche

    Frontespizio

    Francis La Flesche

    I cinque di mezzo.

    Ragazzi indiani a scuola

    a cura di Raffaella Milandri

    Francis La Flesche

    I cinque di mezzo:

    The Middle Five: Indian Boys at School (1900)

    Prefazione, traduzione e note

    a cura di Raffaella Milandri

    Prima edizione

    © 2024 MAUNA KEA EDIZIONI

    Prefazione di Raffaella Milandri

    Ogni volta che mi trovo davanti al nuovo testo di un autore nativo americano, in particolare un grande classico della letteratura del Novecento, mi pongo la domanda: sarà stato libero di esprimersi, di scrivere in libertà, oppure sarà stato soggetto a una opera di censura della cultura dominante negli Stati Uniti?

    Perché, come sappiamo, la realtà della assimilazione forzata e della scellerata legislatura che ha travolto i Nativi è stata, fino a poco tempo fa, sottoposta a un severo silenzio omertoso.

    La risposta viene sempre dalle pagine stesse del testo e dallo studio del contesto storico e biografico dell’autore e per me vale, come esempio su tutti, Luther Standing Bear, che passò in pochi anni da un racconto dai toni moderati, come Il mio Popolo, i Sioux , a una opera di denuncia e accusa come La terra dell’Aquila maculata .

    Ma veniamo a Francis La Flesche e al suo The Middle Five . Di origine Omaha, Ponca e francese, La Flesche era figlio del capo Omaha Joseph La Flesche (noto anche come Iron Eye [1] ) e della sua seconda moglie Ta-in-ne (Omaha). Crebbe nella Riserva Omaha in un momento di grande cambiamento per la tribù.

    La Flesche si laureò e conseguì un master presso la George Washington University Law School di Washington, D.C.

    La sua vita professionale si svolse tra gli americani europei.

    Diventò il primo etnologo professionista nativo americano; lavorò con lo Smithsonian Institution e con la nota antropologa Alice Fletcher, con cui scrisse un lavoro sugli Omaha.

    Già dalla sua biografia possiamo intuire che, se il suo primario interesse era quello di divulgare e preservare la cultura del suo popolo, non era però sua intenzione trasformare il suo lavoro in una critica aperta al sistema occidentale che lo aveva accolto. Ne consegue che The Middle Five è sicuramente un bellissimo racconto biografico dell’esperienza dell’autore e dei suoi compagni presso una scuola missionaria, ma la narrativa è edulcorata, solo accennando molti aspetti critici e lasciandoli alla immaginazione del lettore.

    È un racconto semplice e toccante di giovani ragazzi indiani a metà strada tra due culture, riluttanti ad abbandonare le abitudini dei loro padri, e perplessi e a disagio nel loro nuovo ruolo di uomini bianchi per finta.

    Le vicende dei collegi indiani, boarding school, spesso si sono concentrate sugli abusi, sulla rimozione forzata delle credenze e dei simboli culturali e sulla rottura degli alunni con la loro identità di Nativi Americani. Sebbene questi fattori siano in gioco nel memoire di Francis La Flesche, questa opera presenta un punto di vista diverso.

    Egli scrisse per rivelare la natura e il carattere del ragazzo indiano, raccontando la storia dei suoi compagni di scuola. In abiti civili perché potessero essere, come scrive l’autore nella prefazione, essere giudicati, come gli altri ragazzi, solo per quello che dicono e fanno e non per l’abbigliamento indiano, segno di barbarie.

    La narrazione dà vita alle vicende dei Middle Five, con le loro avventure ed esperienze da ragazzi, descritte con le loro parole. Nel corso della storia, La Flesche mostra l'importanza della vita tradizionale dell'Omaha nelle esperienze sue e dei suoi amici, attraverso le parole e gli esempi delle loro famiglie.

    Un’opera che può essere apprezzata come autentica fonte di informazioni sulla cultura indiana e raccomandata a ogni tipo di lettore, senz’altro anche ai giovani.

    PREFAZIONE DELL’AUTORE

    Poiché l'obiettivo di questo libro è quello di rivelare la vera natura e il carattere del ragazzo Indiano, ho scelto di scrivere la storia dei miei compagni di scuola piuttosto che quella degli altri amici, ragazzi che conoscevano solo la vita originaria del nostro popolo. Ho fatto questa scelta non perché le influenze della scuola alterino le qualità dei ragazzi, ma perché possano apparire in condizioni e con un abbigliamento familiare al lettore. La pittura, le piume, le vesti e gli altri accessori che compongono l'abbigliamento dell'Indiano sono segni di barbarie per l'Europeo, e chi li indossa, per quanto possano essere appropriati o rappresentativi per se stesso, trova difficile rivendicare una appartenenza alla comune natura umana. Quindi, anche se l'uniforme scolastica non ha cambiato coloro che la indossavano, in questo caso, può aiutare questi piccoli Indiani a essere giudicati, come gli altri ragazzi, solo per quello che dicono e fanno.

    Non è mia intenzione fornire nelle pagine seguenti una storia completa con un eroe ma, in una serie di ritratti, presentare i compagni dei miei giorni di gioventù ai ragazzi della razza che si è impossessata della terra dei miei padri.

    Questa premessa è reale, perché tutti i ragazzi che appaiono in questi ritratti sono realmente vissuti e hanno avuto un ruolo negli episodi qui riportati. Ogni piccolo protagonista, compreso lo scrittore, ha fatto il suo ingresso sul palcoscenico della vita nel tee-pee o nella capanna di terra a forma di cupola; infatti, negli anni in cui siamo nati noi ragazzi, solo le abitazioni indigene erano in uso tra il nostro popolo, la tribù degli Indiani Omaha. Come tutti i neonati di innumerevoli generazioni nella linea della nostra stirpe, anche noi abbiamo dovuto attraversare il periodo della culla, mentre le nostre ossa maturavano, come dicono gli Indiani, e diventavano abbastanza forti da sopportare il peso del nostro corpo. Quando finalmente le nostre madri ci davano la libertà di gattonare e sgambettare, prontamente usavamo questa libertà per fare ogni sorta di pasticci, mentre esploravamo il nuovo e meraviglioso mondo in cui ci trovavamo.

    Tra i miei primi ricordi ci sono le lezioni in cui ci veniva insegnato il rispetto e la cortesia verso i nostri anziani; a dire grazie quando si riceveva un regalo o si restituiva un oggetto preso in prestito; a usare il termine appropriato e conveniente alla relazione o parentela che si aveva quando si parlava a un altro; a non rivolgersi mai a nessuno con il suo nome proprio; ci veniva anche proibito di passare davanti alle persone sedute nella capanna senza aver prima chiesto il permesso; e ci veniva rigorosamente raccomandato di non fissare mai i visitatori, in particolare gli estranei. Sembrava che non ci fosse fine alle cose che eravamo obbligati a fare e a quelle che dovevamo evitare di fare.

    Fin dai primi anni di vita, il bambino Omaha veniva istruito sull'uso grammaticale della sua lingua madre. Nessun errore veniva lasciato passare senza essere corretto e, di conseguenza, non c'era un linguaggio infantile come quello dei bambini di lingua inglese; l'unica differenza tra il linguaggio degli anziani e quello dei giovani era la pronuncia delle parole, che spesso il bambino non riusciva ad articolare correttamente, ma questa difficoltà veniva presto superata e un ragazzo di dieci o dodici anni era in grado di parlare bene la lingua Omaha come un uomo di età matura.

    Come le persone adulte, noi giovani eravamo amanti della compagnia e della conversazione. Nel fabbricare i nostri bastoni da gioco e nel giocare, chiacchieravamo incessantemente delle cose che ci venivano in mente, e trovavamo difficile quando eravamo costretti a parlare a bassa voce mentre le persone più anziane erano impegnate in una conversazione. Quando entrammo nella Scuola della Missione, sperimentammo una difficoltà ancora maggiore, perché lì incontrammo una regola che proibiva l'uso della nostra lingua, regola che era imposta severamente con l’uso di una bacchetta di legno, cosicché il nuovo arrivato, per quanto propenso a socializzare, era obbligato ad andare in giro come un piccolo manichino muto finché non avesse imparato a esprimersi in inglese.

    A tutti i ragazzi della nostra scuola erano assegnati nomi inglesi, perché i nomi Indiani erano difficili da pronunciare per gli insegnanti. Inoltre, i nomi indigeni erano considerati dai missionari come barbari e incivili e quindi dovevano essere aboliti. Non meno barbari nella loro provenienza erano i sostituti inglesi, ma la perdita del loro significato originario e della loro motivazione, a causa dell'uso prolungato, li aveva resi adatti a essere mantenuti come nomi per le persone civilizzate.

    E così, al posto di Tae-noo'-ga-wa-zhe, arrivò Philip Sheridan; al posto di Wa-pah'-dae, Ulysses S. Grant; al posto di Koo'-we-he-ge-ra, Alexander, e così via. I nostri padrini andavano ancora più indietro nella storia, e così avevamo i nostri Davide e Gionata, Gedeone e Isacco e, con il diluvio di questi nuovi nomi, arrivò Noè. Per noi non faceva molta differenza dover imparare il significato di una parola in più, usata per noi stessi, quando il compito che ci attendeva era quello di farci strada in un'intera lingua sconosciuta. Così imparammo a chiamarci con i nostri nomi inglesi e continuammo a farlo anche dopo aver lasciato la scuola ed essere diventati adulti.

    I nomi così ottenuti dai ragazzi sono utilizzati in questi ritratti a discapito dei loro nomi originali, per il motivo che le parole indiane non solo sono difficili da pronunciare, ma rischiano di suonare tutte allo stesso modo per chi non ha familiarità con la lingua, e i ragazzi che compaiono in queste pagine potrebbero perdere la loro identità e non riuscire a distinguersi chiaramente nella mente del lettore se fosse costretto a lottare continuamente con i loro nomi Omaha. Nei discorsi dei ragazzi ho cercato di fornire una ricostruzione del particolare inglese parlato da loro, che era multiforme, frutto della comprensione imperfetta dei loro libri, dei provincialismi degli insegnanti e dello slang e della cattiva grammatica appresa da persone bianche non istruite impiegate nella scuola o nell'Agenzia governativa. Le stranezze del linguaggio, le parolacce, i gergalismi e lo slang erano sconosciuti nella lingua Omaha, per cui quando queste espressioni arrivavano alle orecchie di questi ragazzi, le imparavano e le usavano innocentemente, senza il minimo sospetto che potessero esistere sia un inglese cattivo sia uno buono.

    L'idea sbagliata della vita dell’Indiano e del suo carattere, così comune tra i bianchi, è in gran parte dovuta a una ignoranza della lingua Indiana, del suo modo di pensare, delle sue credenze, dei suoi ideali e delle tradizioni native. Ogni aspetto dell'Indiano e del suo modo di vivere è sempre stato strano per l'uomo bianco, e questa stranezza è stata amplificata dalle nebbie del pregiudizio e dal conflitto di interessi tra le due razze. Anche se col tempo queste cose potrebbero forse scomparire, nessun Nativo Americano potrà mai smettere di addolorarsi del fatto che le parole dei suoi padri siano state costantemente svilite quando sono state tradotte in inglese, che i loro pensieri siano stati spesso stravolti e travisati e che la loro dignità nativa sia stata oscurata. Il tipico interprete ha generalmente appreso la sua conoscenza dell'inglese in modo casuale, perché pochissimi hanno avuto il vantaggio di un'istruzione approfondita, e tutti hanno dovuto affrontare le difficoltà che si presentano al traduttore. La bellezza e la raffinatezza, la vivacità dei toni o la serietà della dialettica che ho sentito tra la mia gente, e anche tra altre tribù, sono quasi impossibili da trasmettere in inglese alla lettera.

    I discorsi degli anziani, quando parlano in questo libro, sono, per quanto io possa essere in grado di tradurli, quelli di uso quotidiano.

    La maggior parte del paese oggi conosciuto come Stato del Nebraska (il nome in lingua Omaha del fiume Platt, descrittivo della sua scarsa profondità, della sua larghezza e delle sue basse sponde) è stata per molte generazioni posseduta e dichiarata dal nostro popolo come propria, ma quando fu ceduta la parte più grande di questo territorio al Governo degli Stati Uniti, si riservarono solo un certo territorio per il proprio uso e la propria casa. È nella parte orientale di questa riserva che si svolgono le scene di questi ritratti, all'epoca in cui gli Omaha vivevano vicino al fiume Missouri in tre villaggi, distanti tra loro circa quattro o cinque miglia. Quello più a sud era conosciuto come il villaggio di Ton'-won-ga-hae; gli abitanti erano chiamati mangiatori di legna perché tagliavano e vendevano la legna ai coloni che vivevano vicino a loro. Quello di mezzo era il villaggio di Ish'-ka-da-be, e le persone erano indicate come Coloro che Abitano nelle Capanne di Terra, avendo adottato la forma di abitazione tradizionale quando costruirono il loro villaggio. Quello più a nord e più vicino alla Missione era il villaggio di E-sta'-ma-za, e le persone erano conosciute come i finti uomini bianchi, perché costruivano le loro case secondo gli usi dei coloni bianchi. I mobili, come letti, sedie, tavoli, scrivanie, ecc. non erano utilizzati in nessuno di questi villaggi, tranne che in pochi casi, mentre in

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