In Alaska: Il Paese degli Uomini Liberi
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Anteprima del libro
In Alaska - Raffaella Milandri
Qitsualik
Introduzione
Percorrere la strada e viverla, questo è il viaggio. La strada è il luogo dove tutto accade, fuori e dentro di te. La strada sfoglia le pagine di te stesso, del tuo passato e del tuo futuro. Al contempo la strada diventa tua madre, tuo padre, tuo figlio, te stesso bambino, te stesso in punto di morte. Ogni curva, angolo e salita aprono un sospiro di sconosciuto e accompagnano la tua solitudine alla guida. Tocchi il tuo io più profondo, e devi conoscere i tuoi limiti per allargarne le nuove frontiere e valicarle. Ed essere tutt’uno con il tuo mezzo. Le strade americane del lontano
Ovest e dell’Alaska, larghe, monumentali e deserte, sono tra le più belle del mondo da percorrere al volante: le nuvole soffici, enormi e bianchissime, sfiorano la lingua infinita dell'asfalto. I panorami, raramente attraversati da altri esseri umani, ti fanno sognare, piangere, ridere, cantare e commuovere. Territorio gelido e impervio, a volte con una sola stazione di servizio nel raggio di centinaia e centinaia di chilometri, l'Alaska non risparmia uomini e veicoli. Puoi sentirti molto, molto inadeguato se vai in panne senza nessuno nei paraggi e non incontri anima viva per diversi giorni, mentre i coyote e i lupi ululano minacciosi nella notte e ogni rumore ti fa saltare il cuore in gola. Ti immergi nella tua solitudine sempre più, e non desidereresti altro per il resto della tua vita che lo snodarsi della strada, che ad ogni curva ti sorprende e ti delizia con nuovi wow
della maestosa natura. Soltanto quando giungi all'apice della tua solitudine, riemerge il desiderio di incontrare un altro essere umano, e di sorridergli col cuore. Sarà per questa natura possente, selvaggia e solitaria che in Alaska molte persone sono cordiali e generose, pronte ad accogliere e aiutare il prossimo.
Io e l’Alaska
Ho una sola cosa in mente: l’Alaska.
(
christopher mccandless
, Into the Wild)
The Last Frontier. Il desiderio di partire per l’Alaska mi prende all’improvviso, mentre seduta comodamente guardo il film di Sean Penn, Into the Wild. Ho nella tasca il biglietto aereo per il Nepal, nella mente il suo popolo gentile, nel naso l’odore di incenso dei templi, nelle suole le strade lastricate di Bhaktapur. Ma, durante la visione del film, il Nepal che ben conosco svanisce: mi catturano lo spirito d’avventura, il fremito della estrema incertezza, l’ansia degli ultimi angoli di selvaggio sul nostro pianeta. Ormai il wild sembra albergare solo in certi animi umani: meschini, crudeli, immondi. Il selvaggio della natura è invece onesto, schietto: è la legge del più forte, è la lotta per la sopravvivenza. Se non reagisci, la natura ti uccide. Purtroppo, in realtà, è la natura ad essere vittima dell’uomo, in una lotta impari: la bramosia del denaro lo porta a storpiare, castrare, assassinare la Natura. Fino alle estreme conseguenze. Respiro l’idea dell’Alaska e pregusto foreste, ruscelli, ghiacciai, bramiti di cervi, sentieri impervi e aria pulita. Per me è una sfida, un viaggio alla conquista di me stessa, significa proiettarmi verso la libertà e gli spazi infiniti. È una grande incognita. Un grosso punto interrogativo squarcia la mia tela romantica: sono in grado di affrontare questo viaggio? Sì, dico in un sospiro e con un nodo alla gola. Bene, intraprenderò la mia sfida.
Non è un Paese per poveri
Ieri è cenere; il domani è legno. Solo oggi il fuoco risplende.
(
detto inuit
)
Finché non ho in mano una piantina dell’Alaska, tutto rimane vago e indefinito, un cumulo di nomi appesi come lanterne cinesi al soffitto. Quando dispiego la cartina sul pavimento, resto senza fiato. L’Alaska è immensa. Misuro le distanze a spanne tra un luogo e l’altro. Ci sono aree molto vaste che non hanno strade percorribili. Nome ad esempio, famosa per la corsa all’oro e che si affaccia sullo Stretto di Bering, è irraggiungibile via terra, come altri centri abitati. Dawson, cittadina raccontata in tante storie del Far West, mi strizza l’occhio dallo Stato dello Yukon, in Canada. Barrow, il tetto del mondo
, che si affaccia sull’Oceano Artico, è il paese più a nord degli Stati Uniti. Desidero intensamente vedere questi posti sperduti, accarezzo i nomi sulla cartina. Ma nulla può essere lasciato al caso. Ci saranno degli imprevisti, oh sì se ce ne saranno. I preparativi sono fondamentali. Il volo durerà un’eternità. La temperatura sarà mutevole. Il viaggio su strada sarà di almeno 10.000 chilometri. Le condizioni delle strade sono alquanto dubbie. Gli alberghi sono estremamente costosi e scarsamente distribuiti sul territorio, e i prezzi delle camere, che mi arrivano via email, mi lasciano a bocca aperta. Prevedo il mio punto di partenza a Fairbanks, e traccio un ambiziosissimo percorso sulla mappa, ai limiti dell’impossibile. Con l’auto è proibito andare fuori strada, pare che nessuna compagnia di autonoleggio o di assicurazioni lo consenta su gravel and unpaved road
, strade brecciate e non asfaltate, che compongono un buon 50% del mio percorso. Occorre noleggiare un veicolo adatto, un fuoristrada attrezzato, in particolare per la Dalton Highway in Alaska e per la Dempster Highway nello Yukon, due strade che attraversano il Circolo Polare Artico e i cui soli nomi lanciano già una sfida. Le difficoltà, invece che demoralizzarmi, mi rinvigoriscono. La mia determinazione lievita a dismisura. Tempesto di email agenzie di autonoleggio, assicurazioni, vari dipartimenti e ministeri dello Stato dell’Alaska, dello Yukon, del Canada e degli Stati Uniti. L’unico dubbio che non ho è per i voli interni: solo la Alaska Airlines offre buoni collegamenti.
Ordino ulteriori cartine e guide, cerco notizie sui consolati italiani, informazioni sulle condizioni delle strade, sui calendari di pow wow, i raduni tradizionali di Nativi Americani, e poi esploro possibilità di phototrek — una sorta di safari fotografici, di battute di caccia all’orso, ma anche ai fantasmi. Nulla mi sembra irrealizzabile. Ho ancora quindici giorni prima di partire, per organizzare tutto. Molte email restano senza risposta, altre recano notizie sconfortanti, qualcuno mi augura good luck. Dave, un impiegato del ministero dei Trasporti, prende a cuore il mio caso
e mi manda una lista delle strade percorribili assieme a molte raccomandazioni. Buffo, pare che ci sia già in Alaska diversa gente preoccupata per questa donna italiana che viaggia da sola. Sembrano chiedersi: sarà selvaggia, tosta o picchiatella?
Partenza
A meno che tu non sia il capo dei cani da slitta,
davanti a tutti, la vista è sempre la stessa.
(
detto inuit
)
Parto durante una notte di agosto calma e dall’aria leggermente umida e greve. Sull’autobus per Fiumicino piango sommessamente: la voglia di avventura non stempera i miei sentimenti e la preoccupazione per chi rimane, né il pensiero — piccolo piccolo — che qualcosa possa andare storto e che io non riesca a tornare a casa. Sono carica come non mai. Una valigia da 25 chili, uno zaino da 12 chili e un borsone da 18 chili. All’aeroporto di Fiumicino avanzo un passo alla volta, ansando e ansimando sotto il peso del mio armamentario. Mi guardo intorno in cerca di un pietoso carrello portabagagli. Finalmente, quando sto per crollare a terra, un ragazzo straniero, un etiope, si offre generosamente e si carica tutto in spalla con un gran sorriso. Mi trovo ora in aereo, davanti a me due signore italiane: prima hanno tediato chiunque a destra e a manca, elemosinando posti a sedere vicino al finestrino, fino a essere redarguite dalla hostess: Non disturbate i passeggeri, please
. Ora, si aggirano tra le file di sedili pregando che qualcuno ceda loro una coperta — non c’è il personale di bordo per questo? Alla fine eccole che la rubano a un signore che dorme. Riescono ad attirare l’attenzione di un maturo steward ottenendo doppia porzione di salatini. Yeeeeeah, ragazze, che successone! Il volo ha una durata, inclusi gli scali a Philadelphia e Seattle, di 34 ore, un tempo epico che trascorro dormendo in un buio privo di sogni, a batterie spente, consumo di energia ridotto a zero.
Non mi va di parlare né di condividere con nessuno le mie aspettative di viaggio, ancor meno le mie paure. All’arrivo, è buio. È la brevissima notte estiva dell’Alaska, che non rispetta anzi violenta il nostro ciclo circadiano: un ciclo che si compie all’incirca ogni 24 ore, durante il quale si ripetono regolarmente certi processi fisiologici come quello che alterna sonno e veglia. Trovo la differenza di temperatura tra l’Italia e l’Alaska di agosto decisamente brutale: da trenta a zero gradi centigradi. Mama Tibra, la proprietaria del b&b di Fairbanks dove alloggio per le prime due notti, mi viene a prendere in aeroporto — intendiamo, non per cortesia ma al costo di 15 dollari — però prima arriva la terribile notizia della US Airways: uno dei miei bagagli è andato smarrito, proprio quello che mi è indispensabile, con indumenti pesanti e biancheria. Recupero solo il borsone con il sacco a pelo, gli stivaloni impermeabili in gomma, il seggiolino pieghevole sul quale mi sono immaginata seduta a contemplare la natura selvaggia — e che invece non userò mai —, il treppiede per la macchina fotografica, la bussola, varie creme riscaldanti, un piccolo kit di sopravvivenza, la sirena di allarme antistupro — utilissima per gli animali selvaggi e randagi — e l’inseparabile spray al peperoncino.
Ma che fortuna! Ci ho infilato anche un giaccone, preziosissimo, un salvagente contro il freddo. È con occhio iniettato di sangue che apostrofo l’impiegato della US Airways, che scuote la testa: nulla, prima di domani non si può fare nulla. Domattina probabilmente avrà i suoi bagagli, mi lasci un recapito, magari la chiamiamo appena arrivano, saranno rimasti a Seattle.
In auto, sono solo a 3.600 chilometri di distanza... In una manciata di ore è già mattina, e dopo l’ennesima notte senza sogni, indosso di nuovo i vestiti in cui mi trovo prigioniera da oltre due giorni. Mama Tibra, una delle pochissime persone di colore in Alaska, mi consegna una cartina di Fairbanks e mi chiama un taxi. Arrivo in aeroporto infreddolita e stropicciata, ma pronta a farmi valere, con il ghigno cattivo di chi non accetta ritardi o soprusi. Non mi posso permettere contrattempi. Al desk della US Airways non c’è ancora nessuno, vado a ritirare la macchina a noleggio, la mia unica compagna di viaggio, e poi mi prendo un lungo, caldo, zuccherato caffè che mi rianima. Appena arriva la addetta, mi precipito al desk; con molta calma lei guarda le carte, fa un paio di telefonate e mi dice: Ancora nulla, Miss Milendra. Sorry
. La mia voce prorompe come un tuono di inciviltà nel silenzio dell’aeroporto: Se non mi consegna i bagagli entro un’ora, giuro, le lego sotto al naso i calzini che porto da tre giorni
. La signora ammutolisce, interdetta e spaventata, probabilmente pensando che gli italiani sono irritabili, focosi e fors’anche pericolosi. Fra un’ora, torno qui
, aggiungo con un riso beffardo. Sono determinata, in modo assoluto, a far andare le cose per il verso giusto. Fuori dall’aeroporto, l’aria è tersa e pulita; tra i viaggiatori in transito vi sono persone di origine Inuit, e altri che indossano il cappello da cowboy e stivaloni in cuoio. Bene, sono a un passo dalla libertà e dalla felicità. Manca solo una valigia.
Fairbanks
Quando le tue gambe sono stanche, cammina con il cuore.
(
paulo cohelo
)
La buona sorte — o la minaccia dei calzini — mi aiuta, e finalmente recupero il mio indispensabile bagaglio: ora posso cambiarmi, scaldarmi, rilassarmi e raccogliere idee ed