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Sulle orme della tradizione: Gli Indiani d’America e noi
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Sulle orme della tradizione: Gli Indiani d’America e noi
E-book226 pagine3 ore

Sulle orme della tradizione: Gli Indiani d’America e noi

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È come se il suono del tamburo ci accompagnasse, nella lettura di Sulle orme della tradizione: un ritmo a volte incalzante, provocatorio, stimolante, a volte calmo, pregno di informazioni storiche e culturali, scrive Naila Clerici nella prefazione di quest’opera. Il libro delinea un percorso “sulle orme” delle tradizioni native nordamericane, alla ricerca della traccia di umanità di questi popoli, negata e soffocata dai processi di colonizzazione e assimilazione lungo oltre cinque secoli. La traccia che i tradizionalisti nativi hanno cercato è la stessa che gli antropologi hanno cercato. Questa ricerca, dai due diversi versanti, si è particolarmente intensificata con la ripresa delle tradizioni sciamaniche native nella seconda metà del Novecento e, nello stesso periodo, con la ripresa della ricerca etnografica dell’antropologia postcoloniale e postmoderna. Il libro cerca di cogliere questo particolare incrocio, dai due versanti, cercando di evitare schematismi e luoghi comuni: in questo senso il sottotitolo “Gli indiani d’America e noi”. Il percorso del libro si snoda su temi generali, quali i conflitti culturali relazionali tra Nativi e Bianchi durante l’epoca coloniale e su aspetti specifici, quali i confini delle riserve e dei territori nativi, le rivendicazioni contro le nuove forme di espropriazione e abuso di questi territori, così come la ripresa e la difesa delle tradizioni religiose sciamaniche dalle nuove forme di consumo e abuso spirituale. Il tema del conflitto tra le culture native nordamericane e la cultura dominante risulta pienamente leggibile soltanto da una prospettiva storica che non neghi quegli aspetti di mescolamento e di cooperazione che hanno “fatto l’America” nella collaborazione tra i protagonisti in gioco, su livelli molto diversi quali quello tecnologico, linguistico e religioso. Il libro pone l’attenzione su come la negazione di questa traccia di incontro, metissage e collaborazione tra culture sia un altro “marchio” del colonialismo moderno, che ha contrapposto “primitivi” e “civilizzati”, razze, religioni inconciliabili, culture essenzialmente contrapposte, categorie in conflitto. 
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2023
ISBN9788831335461
Sulle orme della tradizione: Gli Indiani d’America e noi

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    Sulle orme della tradizione - Francesco Spagna

    Frontespizio

    Francesco Spagna

    SULLE ORME DELLA TRADIZIONE

    Gli Indiani d’America e noi

    Francesco Spagna

    Sulle orme della tradizione.

    Gli Indiani d’America e noi

    © 2023 MAUNA KEA EDIZIONI

    © 2008 Copyright by Francesco Spagna

    Dedica

    Dedicato ad Anna, Veronica, Caterina e Valerio

    Prefazione di Naila Clerici

    È come se il suono del tamburo mi avesse accompagnato nella lettura di Sulle orme della tradizione : un ritmo a volte incalzante, provocatorio, stimolante, a volte calmo, pregno di informazioni storiche e culturali.

    Spagna ed io non abbiamo mai viaggiato insieme, ma siamo stati negli stessi luoghi, conosciamo persone in comune, sappiamo di storia, antropologia, letteratura; i suoi ricordi mi hanno portato ai paesaggi dei Grandi Laghi, la raccolta del riso selvatico, il sapore dolce dello sciroppo d’acero, i canti Anishinabe, i danzatori a un powwow.

    Una barzelletta che circolava nel corso delle celebrazioni per la scoperta dell’America (1992) era quella di un gruppo di Indiani che arrivavano in nave a scoprire l’Europa e a prenderne possesso. Un rapporto complesso dunque quello tra noi e loro, in cui da una parte i Nativi vogliono essere lasciati in pace, non desiderano fare proseliti, ma nel contempo vorrebbero che le conoscenze su di loro e la loro storia fossero divulgate in modo equilibrato e che si riconoscesse la falsità di stereotipi circolati per secoli, ma anche le basi ideologiche che hanno giustificato la conquista. Per fare solo un esempio: le bolle papali, o la dichiarazione dello statunitense giudice Marshall (1832).

    Dopo aver delineato la lunga fase di contatto tra indigeni ed euro-americani, con Spagna si può entrare nel mondo contemporaneo dei Nativi Americani, complesso e pieno di contraddizioni. È importante sconfiggere l’idea di culture moribonde, al tramonto, e lo si può fare attraverso l’incontro e le testimonianze di Nativi noti e sconosciuti. Al contempo è difficile usare il vocabolo tradizionale e definire cos’è tradizione. Gli antropologi hanno avuto approcci diversi nel corso del tempo su cosa fosse importante documentare e come interpretarlo, definirlo e contestualizzarlo. Il dibattito è complesso (cap. 16) ma sono convinta, e non sono la sola, che siano una serie di valori ancestrali a rimanere vivi ancor oggi, nonostante la sparizione delle abitudini della cultura materiale e, in molti casi, tristemente, della lingua.

    La mia amica Delores Huff ribadì in un’occasione la sua identità separata: Io sono Indiana (e rimango tale) anche tra i grattacieli di New York; un’affermazione a prima vista banale ma che mi ha fatto pensare che era lo stesso per me: la mia identità poteva evolvere, crescere e anche cambiare, ma alla base rimanevano alcuni valori provenienti dal contesto in cui si potevano identificare le mie origini. Come dice anche l’artista Leland Bell (cap. 10): La nostra cultura evolve continuamente, ma non per questo scompare.

    Un sogno di molti antropologi è quello di incontrare uno sciamano, come Zhu-ni-ia Ghi-zhig (cap. 7), e assistere a una cerimonia come può essere il midewiwin, o partecipare a una capanna sudatoria o a una danza del sole. Non sempre l’osservatore partecipante riesce a entrare nel mondo dell’altro e renderlo pubblico perché, come dice il nostro autore, gli Indiani non vogliono testimoni e interpreti inopportuni. Le esperienze interculturali rimangono dunque spesso esperienze personali, non divulgabili, ma hanno portato Spagna, e anche me, a percorsi di conoscenza, condivisione, arricchimento personale che influiscono poi nel modo di comunicare, come ben si percepisce in questo scritto.

    Anche Spagna come Lewis Henry Morgan è Un Colui Che Sta Attraverso grazie a una ricerca collaborativa e partecipata, nonostante abbia lavorato sul campo in un periodo in cui gli Indiani erano diffidenti verso i bianchi e molti lo sono ancora; solo per fare un esempio si vedano su youtube gli ironici sketch del gruppo 1491s. Il nostro autore attraversa i confini delle riserve per andare oltre, in una dimensione personale che sola può far comprendere cosa c’è, come dice lui, sotto la crosta. Rilevante per ogni lettore è aver chiara la funzione dell’immaginario ed evitare di cercare in questo libro prova di quello che si è immaginato, se non fantasticato, sugli Indiani Nordamericani. Sono molti a voler trovare nella lettura prove di quello che già si pensa; un chiaro esempio è la figura di Alce Nero che attraverso gli scritti di John Neihardt appare solo come un romantico testimone del passato, mentre studi più recenti e meno noti mettono in rilievo tutti gli aspetti della complessa vita dell’uomo di religione Oglala Sioux.

    Questo per dire che sconsiglio la lettura a chi vuole cominciare un percorso di conoscenza sulle popolazioni indigene nordamericane; suggerirei invece di iniziare consultando la bibliografia: partire dalle letture di riferimento (da Salgari, alle testimonianze di vari antropologi, alle opere letterarie di autori nativi) e anche da Tepee (la rivista che dirigo per Soconas Incomindios) per passare poi ad approfondire, a riflettere, insieme a Spagna.

    Leggendo Sulle orme della tradizione. Gli Indiani d’America e noi, capiamo come l’incontro con le diversità sia importante. Invitiamo dunque i lettori a essere disponibili ad accogliere anche prospettive inaspettate, accettare forme di metissage, essere generosi e non interrompere lo scambio, passando ad altri le conoscenze ricevute e le proprie riflessioni.

    Una presa di tabacco offerta agli spiriti per ringraziare della condivisione sarebbe adeguata.

    Premessa dell’autore

    Questo libro raccoglie, oltre al primo capitolo introduttivo, scritti inediti e rielaborazioni di articoli pubblicati su riviste e opere collettive dal 1994 al 2006. Ringrazio Flavia e Sandra Busatta ( Hako ), Naila Clerici ( Soconas Incomindios ), Laura Ferri (Centro Siena-Toronto), Luciano Giannelli (Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena, Università di Siena), Antonio Rigopoulos (Università di Venezia), Romolo Santoni (Centro Studi Americanistici Circolo Amerindiano) e Donatella Schmidt (Università di Padova) che hanno ospitato nelle loro riviste, nei libri curati o negli Atti di convegno gli articoli e i contributi originali.

    I primi due contributi sono da intendersi come introduzione ai temi che vengono sviluppati e approfonditi nei contributi successivi. Si tratta di riflessioni a margine dei viaggi e delle ricerche etnografiche che ho compiuto in Stati Uniti e Canada a partire dal 1992.

    Ringrazio gli uomini e le donne di Medicina e tutti gli amici Nativi Americani per gli insegnamenti che ho ricevuto. Essi rimangono dentro di me con una forza e una chiarezza che sono cresciute negli anni.

    Sulle orme della tradizione inaugura Il Sentiero di perline. Collana di studi Nativi Americani, il cui nome e logo hanno un preciso significato.

    Quattro fili di perline – rosse, bianche, nere e gialle – rappresentano i quattro popoli del mondo. Insieme devono collaborare a rendere il Sentiero nuovamente largo. Perché oggi siamo qui. Il Sentiero è diventato stretto, per questo è facile cadere fuori. Al principio il Sentiero era largo. Questo è il significato della fascia arcobaleno.

    (Eddie S. - Ojibwa di Roseau River, Manitoba – descrive la Visione raffigurata sulla sua borsa di Medicina).

    1. Arte della fuga

    All I really want to do

    is, baby, be friend with you

    (Bob Dylan)

    Gli Indiani non vogliono. Non vogliono farsi fotografare, non vogliono farsi studiare, non vogliono farsi categorizzare, non vogliono farsi analizzare. Sembrano impigliati in quella vecchia canzone di Bob Dylan, il cui ritornello ho messo in epigrafe [1] . Non vogliono che si partecipi alle loro cerimonie, non vogliono che qualcuno tenti di assomigliare loro, non vogliono che qualcuno parli per loro, o interpreti la loro storia. Non vogliono che altri si occupino dei loro problemi. Non vogliono che i loro oggetti sacri vengano conservati nei musei, non vogliono che qualcuno vada a curiosare tra le ossa dei loro trisavoli, e via dicendo. Covano un rancore smisurato per l’uomo bianco ma non lo vogliono esprimere. Preferiscono elaborare questa sorta di sistematica negazione e sfuggimento. Incrociano le braccia, voltano le spalle, scompaiono. Scompaiono nei boschi, scompaiono nelle Pianure, scompaiono nei luoghi della memoria. Scompaiono dove uno si aspetterebbe di trovarli.

    Ovviamente, questo loro essere loro dipende molto da noi. Gli Indiani, più che una categoria antropologica, sono una categoria immaginaria. Indiani è qualcosa che ci definisce, più che definire loro. Ma loro non vogliono, non lo vogliono più. Fa parte del loro percorso di emancipazione.

    Ma loro chi?

    La questione è complicata e ci si può perdere a dibattere sulle origini di questa complicazione. Oppure si può andare dritti come una freccia, al cuore del problema. La strada Bianca e la strada Rossa. La strada Bianca è evidentemente, per chi scrive, più congeniale. Sulla strada Rossa si deve camminare a piedi scalzi, con cautela e determinazione. La sua naturale semplicità e la sua bellezza ci affascinano. Essa ci appare bella larga e dritta. Per secoli siamo stati alla biforcazione.

    Nuvole-temporalesche-che-arrivano-da-lontano , detto anche Jerry, nella riserva Chippewa di Lac du Flambeau, in Wisconsin, tenta di insegnarmi l’arte dei canestri in corteccia di betulla. Io nella mia vita ho fatto pochi lavori manuali e mi sento come un bambino all’asilo. La situazione è però divertente, per me e voglio sperare anche per Jerry. A un certo punto mi metto a tagliare con la forbice un pezzo di pelle di daino per farmi una borsa di medicina. Jerry osserva come taglio la pelle ed è abbastanza soddisfatto. Mi dice che si può capire una persona dal modo in cui taglia, se va dritto e preciso o un po’ a zig-zag.

    Una delle caratteristiche principali del pensiero occidentale è quella di essere zigzagante. Quando parliamo di Indiani, rischiamo di essere particolarmente circonvoluti. La strada Rossa assomiglia invece molto allo Zen, vi si accede per Illuminazione diretta.

    Ci può essere comunicazione? Le due strade si possono in qualche punto incrociare?

    Il problema è, in effetti, la comunicazione, e lo scopo di questo libro è tentare di superare l’incomunicabilità che si è creata: tra noi e il popolo rosso.

    Prendiamo la strada opposta, e andiamo a vedere non dove gli Indiani sfuggono, ma dove si mostrano. Una strada disseminata da shock culturali, che funzionano quasi come mine antiuomo. Ricordo che mi trovavo nella mia mansarda, da poco tornato dai viaggi in America e stavo organizzando il materiale per scrivere la tesi di Dottorato in antropologia. Mi arrivò a casa il numero di un periodico al quale mi ero abbonato in America News from the Indian Country (nota bene il titolo: Notizie dalla Terra Indiana, gli Indiani che si riconoscono nella categoria) e cominciai a sfogliarlo. Tra le notizie, l’elezione di una miss di riserva; la pubblicità per arruolarsi a West Point; le carte di credito indiane. Nonostante avessi quasi ultimato il mio percorso di formazione come antropologo – e quello doveva essere pane per i miei denti – rimasi comunque un po’ depresso da quel sovraccarico di indianità aberranti dal nostro immaginario convenzionale. Mi sentii all’improvviso semplicemente come un uomo, sul pianeta, che stava sfogliando un giornale… un giornale piuttosto noioso.

    Ho deciso di rivelare un segreto iniziatico. Eravamo tutti stretti al calduccio in una capanna sudatoria, sulle sponde del lago Huron, in Ontario. I conduttori della cerimonia chiesero a noi partecipanti di spiegare a turno perché ci trovavamo là, perché avevamo deciso di fare la capanna, quali erano le motivazioni forti che ci spingevano. Non si dovrebbe mai raccontare nulla di quello che avviene dentro una capanna sudatoria. Ritengo tuttavia abbastanza ironico e istruttivo il fatto che io in quel frangente dissi una specie di fesseria e poi un’altra cosa che sollevò un poco la mia reputazione. Dissi infatti, nel mio inglese non oxfordiano, che lo scopo per cui ero là era to reduce stereotypes, per ridurre gli stereotipi. La parola stereotypes rimbalzò stonata nelle pareti della capanna, con il suo sentore di registratori e macchine da scrivere. Una parola che puzzava terribilmente di antropologo. Per fortuna subito dopo aggiunsi: E sono qui anche perché sto per diventare padre (ed era la verità, mia moglie era con me in viaggio al sesto mese di gravidanza). In quel momento la tensione, la frattura che una parola astrusa aveva provocato si sciolse, e continuai a essere accolto, a essere parte di quello che stavo vivendo. La cultura, la vita e il loro eterno conflitto.

    Perché il compito di un antropologo – seppur alle prime armi – può essere individuato nel ridurre gli stereotipi tra le culture? Perché devo cercare di ridurre qualcosa che continua a venir fuori a getto continuo? Perché devo spiegare ai ragazzi delle scuole del mio paese che gli Indiani non erano i cattivi, che sono stati ingiustamente massacrati dalle Giubbe Blu, quando gli Indiani di oggi fanno a gara per iscriversi a West Point e andare (a farsi mandare in prima linea) a uccidere gli iracheni? Detto provocatoriamente, gli Indiani possono anche essere tra i peggiori ubriaconi, aprire case da gioco nelle riserve in combutta con i mafiosi e picchiare le mogli. Si fanno infinocchiare dall’esercito degli Stati Uniti, sono facilmente conservatori e favorevoli alla pena di morte. Non sono per nulla ecologisti: sparano ai cerbiatti dalle macchine, accecandoli con i fari, così come i loro bisavoli buttavano giù i bisonti dalle rupi.

    Gira la macina della dialettica della storia e delle culture, ma quale grano produce?

    Ricorderò sempre come una volta, presso una associazione culturale, organizzai un incontro su Alce Nero tentando di capire come era stato possibile che un personaggio che aveva lavorato gran parte della sua vita per la chiesa missionaria di Pine Ridge fosse diventato un’icona della sinistra alternativa nel mondo occidentale. Trovai un uditorio estremamente attento e interessato. Solo successivamente scoprii (era l’inizio degli anni Novanta) che questo uditorio era formato in gran parte da new agers cattolici. Perché mi stupivo? Avevo certo fallito il mio bersaglio intellettuale, ma pensavo forse che l’essere cresciuto negli ambienti della sinistra alternativa, degli Indiani metropolitani, mi desse una prerogativa politica sull’indianità? L’interesse per gli Indiani può essere nazista, massone, cattolico, scoutistico, nomadelfico, ecologista, anarco-comunista. Si fa prima forse a scoprire chi non è affascinato dall’indianità.

    Sto volutamente usando categorie politiche e religiose in modo difforme e strumentale. Ciò che mi interessa è far osservare che nel caleidoscopio politico-religioso dell’Occidente gli Indiani possono scorgere una loro immagine abbastanza coerente.

    La New Age è un curioso fenomeno antropologico. L’interesse quasi ossessivo dei new agers per gli Indiani delle Pianure ha quasi imposto, per ambedue le parti in gioco, la necessità di una meta-interpretazione. Il livello di spiegazione è totalmente mistico e irrazionale, ma è interessante che alcuni tradizionalisti nativi concordino con i new agers sul fatto che gli appassionati degli Indiani nel mondo dei Bianchi sono in realtà anime reincarnate di Indiani morti che tentano di tornare alle loro origini.

    L’antica idea di accogliere lo straniero integrandolo idealmente nel sistema dei propri antenati attraversa come una corrente sottomarina il subconscio delle subculture dell’Occidente, producendo pagine e pagine di entusiastica carta stampata. Una congerie di personaggi letterari e cinematografici sembra fare a gara per scoprire la propria indianità recondita.

    Ritorna, curiosamente, il tema della scoperta, in chiave intimistica. Il capo sciamano contemporaneo Archie Fire Lame Deer mette a disposizione dei tarocchi Lakota per facilitare questo proficuo processo di riconoscimento degli spiriti indiani errabondi.

    Ma che ne è stato, ci si può chiedere un po’ maliziosamente, degli spiriti errabondi dei nostri?

    Lo scompenso numerico fa sempre un po’ vacillare, ma in realtà tutto si tiene, l’idea può essere seducente anche al rovescio: se gli Indiani delle riserve attuali sembrano così corrotti dai costumi dei Bianchi è perché essi in realtà sono Bianchi: reincarnazioni di spiriti di Bianchi morti. Tutto a posto allora, ci eravamo solo scambiati le parti.

    A parte gli scherzi, la questione ci porta su un terreno interessante. L’antropologia non si occupa delle vite precedenti. La sua attività è sempre misurata all’interno di un laico orizzonte esistenziale. Tuttavia, molte culture sul pianeta non condividono questo stesso orizzonte ed elaborano – come è ben noto agli antropologi – visioni del mondo su diversi livelli di realtà. L’antropologia considera certamente questo aspetto, ma di fatto, quando dispiega il suo armamentario di interpretazioni e spiegazioni, lo fa – kantianamente – da una prospettiva limitata, e sempre interna all’arco esistenziale dell’osservatore. Nella logica del pensiero occidentale, una prospettiva di osservazione diversa da questa sarebbe impossibile o aberrante e ascientifica. Quello che però vorrei far osservare è che questo aspetto – questa chiusura prospettica in un orizzonte razionale e individuale – lede l’universalismo dell’antropologia e in una certa misura disabilita la sua pretesa di saper aprire diversi sistemi culturali.

    Possiamo considerare la questione riprendendo la celebre opposizione postulata da Louis Vincent Thomas, tra società oliste e società individualiste [2] . Società oliste, che pensano in termini di cicli di discendenze e stagioni della vita – di nonni assunti ad

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