Sussurri dell'Anima
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Info su questo ebook
Sussurri dell'Anima sfida gli stereotipi della società e ci ricorda l'importanza di essere autentici in un mondo superficiale. Nicole impara a lottare per se stessa, circondata da chi la ama per chi è veramente. Un romanzo coinvolgente dove a emergere è la forza di volontà di una ragazza che si fa donna credendo fortemente in se stessa e senza mai arrendersi.
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Anteprima del libro
Sussurri dell'Anima - Beatrice Marrocco
Sussurri dell’anima
di Beatrice Marrocco
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2023©
Narrativa – Intrecci
www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com
È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
SUSSURRI DELL’ANIMA
Ritrovare se stessi nella tempesta
Beatrice Marrocco
AliRibelli
Indice
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Ai miei genitori, che hanno plasmato l’anima che ho imparato ad amare.
Tutti hanno diritto ad una rinascita.
Se ne hai bisogno anche tu, ricorda che non è mai troppo tardi.
Prenditi cura della tua anima, riempila di emozioni
e stai attento a chi donarla: è fragile.
Buona lettura.
Prologo
"Impariamo a pesare la nostra anima,
poi il nostro corpo".
Infinite personalità, infinite anime doloranti e qualcuna appagata miseramente, nessuna, però, pronta a essere se stessa. Per molti, il mondo risulta essere una fortezza in cui custodire ogni piccola scaglia di umanità che riempie la nostra anima, altri, invece, si sentono prigionieri in un castello pieno di disordine, pieno di forze oscure che non riescono a generare, se messe insieme, la pace e la stabilità che si cerca veramente.
Solo se quel castello dovesse sbriciolarsi verrebbe fuori la vera forza e il vero essere della persona, libera da pregiudizi, stereotipi, paure futili. Ma abbatterlo non è sempre semplice, bisogna trovare la speranza di scovare un vero volto, un vero cuore.
Come tutte le volte, la mia massa non calava sopra la bilancia che era lì per giudicarmi, per farmi sentire impotente e debole davanti agli occhi del dottore, pronto anche lui a dare i suoi schietti verdetti, che infliggevano in me molta sofferenza.
Non era poi da così tanto tempo che soffrivo di questo disturbo, che in molti continuavano a chiamare bulimia, nervosa per l’esattezza, ma mi stava divorando, insieme alla fame e insieme alla voglia, subito dopo aver mangiato, di sparire, di sgonfiarmi con un ago, di vedermi di nuovo perfetta; l’unico mezzo che avevo era il vomito, rimettevo tutto ciò che avevo ingerito subito dopo aver mangiato.
Mi cullavo su questo, credevo che così facendo potessi prima saziare la mia fame infinita e subito dopo saziare la mia voglia di essere magra, ma era un circolo vizioso, mangiare non mi saziava, vomitare non mi faceva dimagrire. Stavo sprofondando, dentro la mia anima troppo vuota e il mio corpo troppo pieno.
Mia zia Kelly, infatti, mi costrinse ad andare di nuovo lì, non capiva che il mio aumentare di peso era dovuto solamente al cibo che di giorno e di notte finiva nel mio stomaco, era quasi estenuante la sua preoccupazione e il suo senso di colpa.
Ma non era colpa sua, il tumore ne aveva la colpa.
Non ero io a essere malata, mia madre lo era, vedevo come era diventava con il passare del tempo, era sempre più fragile, un vaso custodito in una teca di cristallo.
I libri erano la sua unica speranza quando non riusciva nemmeno a ricordarsi di me, prendeva una storia qualunque e cercava di immedesimarsi in quelle donne che hanno una vita davanti, mentre poi, quando il male avanzava, nemmeno quelli la facevano più sorridere, ed era diventata come un vegetale circondato da farmaci. I miei familiari, a cominciare da mio padre, mi tenevano all’oscuro da molte cose, non sapevo quanti giorni le restavano, nemmeno se riusciva a sentirmi, quando invano le parlavo; cercavano di proteggermi dalla triste verità, dal fatto che molto presto mi avrebbe abbandonata.
E lo fece.
Fu allora che il dolore logorante mi portò a essere quella che ero, con un corpo troppo pesante e con un’anima vuota.
Dopo la morte di mia madre, ci fu un’altra perdita, mio padre. Iniziò a soffrire di una grave depressione, il suo psichiatra, il signor Kavanagh, gli aveva prescritto molti psicofarmaci: dallo Zoloft, che lo aiutava a essere più calmo e rilassato durante le sue crisi e i suoi soffocamenti
, così chiamavo io quelli che erano attacchi di panico; all’Abilify, un tipo di antipsicotico che lo aiutava, la maggior parte delle volte, a fuoriuscire da una realtà immaginaria. Non me lo aveva mai detto, ma credevo fortemente che vedesse ancora la mamma, soprattutto quando di notte spegneva la lampada dopo aver letto decine di pagine dei suoi romanzi preferiti, in particolare lui amava Stephen King.
Soffriva molto, e io piangevo di giorno e di notte per la sua sofferenza, perché era l’unica persona che mi era rimasta, l’unica che in questo mondo, attraverso il suo sorriso, riusciva ancora a farmi sorridere, anche se ormai quel sorriso si stava spegnendo.
C’era, però, un’altra consolazione, qualcosa che riusciva a tirarmi su per poco, come però nessun psicofarmaco riusciva: mangiare. In qualche modo non poteva tradirmi, lasciarmi sola, e se aumentare di peso era il prezzo da pagare, lo avrei pagato tutto pur di alleviare un po’ della mia sofferenza.
Quel cibo però, mi aveva allontanato dal mondo, mi aveva lasciato sola in mezzo a un prato pieno di pungiglioni pronti a far sanguinare il mio cuore.
Poi c’era la scuola, quella che non ero pronta ad affrontare, quella che avrebbe notato i miei cambiamenti, li avrebbe schifati e poi derisi.
Ero una ragazza che viveva dell’opinione pubblica, perché una volta ero io stessa quella che definiva, fin quando il mondo non mi era caduto addosso, fin quando le mie amiche non mi avevano scaricato… Così come tutte le persone che un tempo conoscevo.
Dunque, il mio mondo era più che tragico quando avevo diciassette anni, ero diventata in poco tempo l’opposto di ciò che volevo essere, ma posso svelarvi un piccolo segreto: non ho mai vissuto niente di più bello in vita mia, tutto quello che ho imparato da perfetta ragazza in sovrappeso mi è rimasto nel cuore e difficilmente ne uscirà.
Ora non vi resta che leggere le memorie di una ragazza dell’Illinois, il racconto di Nicole Hill.
Capitolo 1
Di nuovo sotto gli occhi di tutti
.
Chicago sembrava il posto per tutti, dove ogni cittadino riesce a prendere la sua strada e a capire il posto che ricoprirà nella società. Succedeva lo stesso in tantissime altre città statunitensi, ma io, da vera amante della mia patria, finisco sempre per metterla al primo posto. Amavo un tempo questa città, anche con il suo clima orribile, rimaneva la mia casa, il mio porto sicuro, ma con il tempo iniziai a interrogarmi sul significato della parola sicuro
e ancora oggi mi chiedo cosa può veramente farmi sentire al sicuro, a casa
. A quei tempi non avevo nemmeno una casa mia, o almeno, l’avevo, ma non ci abitavo, ed era decisamente straziante non essere più tra quelle mura che hanno ascoltato tutto, hanno visto tutto. In casa nascondiamo i nostri segreti più intimi, proprio perché rintanarsi in una camera rappresenta uno scoglio da cui puoi vedere il tuo riflesso e non cadere.
C’era un ostacolo, però, a quel porto sicuro, ed era causato dal sistema, quell’insieme catastrofico di elementi che portano a un fine. Essenzialmente il sistema stava divorando le regole che un tempo tenevano saldo l’universo, regole che non ti portavano a diventare schiavo, ma che ti gettano nella trappola che noi stessi prepariamo. Eppure, ormai poche persone sapevano qual era il loro posto, molte, infatti, sentivano quel senso di inadeguatezza sulla pelle che le portava a respirare con affanno, a sentirsi oppresse dalle giornate che man mano stabilirono il loro percorso, tortuoso e inaffidabile.
Io, come tanti, avevo bisogno di respirare aria pulita, di uscire da quella fossa che avevo io stessa scavato. Ma in quel momento niente davanti a me sembrava avere un senso, la morte di mia madre e la malattia di mio padre avevano aperto una voragine intensa e nessuno, allora, poteva comprendere il vuoto, la paura, l’angoscia che provavo, quella irreale, quella che per molto tempo non riuscivo a scindere dalla realtà: ai miei occhi l’unica realtà che ero in grado di riconoscere era quella in cui mi perdevo in un mondo troppo ostile da affrontare. Mentirei se dicessi che a volte avrei preferito abbandonarlo. Non c’entrava l’egoismo, perché era proprio quello che non avevo a farmi stare ancora su quella bilancia.
La bilancia, un piccolo strumento che giudicava la mia vita di volta in volta, mi ripeteva di scendere, ero grassa, voleva liberarsi di me, ma io non gliel’avrei data vinta, dovevo rimanere lì sopra a fissare i miei settantacinque chili.
Solo sette mesi prima ne pesavo cinquanta.
Lo specchio, un ammasso di vetro trasparente, il migliore e il peggiore amico di ogni donna, davanti a me dipingeva le linee del mio corpo molto più che morbide, il mio viso nel suo riflesso diventava sempre più paffuto.
Ero in grande difficoltà con il mio corpo, non lo accettavo. D’altra parte, lo consideravo fin troppo, sapevo di non doverlo fare, ma il mio inconscio prendeva il sopravvento ogni volta, ogni giorno litigavo con me stessa per non essere più quella di prima.
Ero stata in terapia da molti psicologi, ma i loro pareri non potevano essere più discordi, tra chi mi spronava a mettermi a dieta e chi, invece, voleva farmi capire che il mio aumentare di peso non era un problema. Quelli che la pensavano così mi credevano troppo superficiale, non in grado di vedere la vita da più punti di vista, pensavano che dovessi scoprire me stessa prima di apportare modifiche al mio corpo.
I miei occhi cerulei apparivano spenti e i miei capelli lunghi castani riuscivano a coprire, se messi davanti alle spalle, un po’ di quel grasso che risiedeva sul mio viso.
Poi il mio sguardo passò all’orologio sul polso. Era tardi ed era il primo giorno di scuola, il primo giorno del mio quarto anno. Era tutto così diverso, sembrava astratto, ma in realtà sapevo già cosa aspettarmi: un anno di ansie, di debolezza, di distruzione. Nemmeno un’ora dopo ero in macchina con mia zia Kelly e percorrevo le strade di Chicago per arrivare alla Western School. Osava lanciarmi occhiate, come se volesse dirmi qualcosa, forse un incoraggiamento, che poi alla fine arrivò.
«Nicole, puoi farcela. O almeno puoi provarci» mi