L'amore ai tempi del G8
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Anteprima del libro
L'amore ai tempi del G8 - Flavia Rampichini
Un nuovo inizio
La prima volta che sentii parlare del G8 di Genova ero al corso di italiano per stranieri, in un circolo Arci vicino a casa. All’epoca vivevo ancora con i miei, ma mi ero rotta della solita vita: studiare sodo durante la settimana, a testa bassa fino al weekend, e poi sabato sera nei locali o a casa di amici, a ubriacarmi e a parlare di niente fino a tarda notte. Il primo giorno dell’anno, che poi era anche il primo del nuovo millennio, avevo formulato i miei buoni propositi di portata epocale: basta con le sigarette, basta con la carne, basta con Gianni. Gianni era il mio fidanzato, ma era evidente ormai che la cosa non funzionava. Due anni di reciproci malumori e scontentezze sfociarono in una mitica litigata a Capodanno a casa di amici. La lite tra me e Gianni si ripercosse a cascata su tutta la compagnia, in un’escalation grottesca di frecciate velenose. Cominciò con lo schifo che mi faceva il pesce cucinato da Sabrina.
«Sono stufa di mangiare cadaveri» proclamai, nauseata dall’idea di quella creatura morta soffocata per soddisfare le nostre gole, già sazie per i troppi antipasti. «Non voglio più cibarmi di agonie».
«Quanto rompi,» disse Gianni «da che mondo è mondo l’uomo si nutre di altri animali, è naturale».
«Prima di tutto non è vero,» replicai «perché l’uomo per sua natura e conformazione è frugivoro, e poi non è detto che tutto quello che è naturale sia buono per noi. Siamo una specie culturale».
«Sì, e tu sei una specie di fanatica» fece lui. «E poi frugivora ci sarai. Io e i miei simili siamo onnivori».
«Mi pare evidente che io e te non siamo tanto simili».
«Infatti».
«E allora perché cazzo continuiamo a stare insieme, me lo spieghi?».
«Non posso spiegartelo, perché non lo so nemmeno io».
Tra i nostri amici, a tavola, scese un silenzio di gelo. Lia, seduta alla mia destra, mi riempì il bicchiere.
«Bevi,» mi intimò «e smettila di vaneggiare».
Obbedii, poi mi alzai da tavola per andarmi a fumare una sigaretta in solitudine.
Dopo cena Giorgio, l’amico che ci ospitava, sintonizzò la radio su una stazione che trasmetteva musica da discoteca anni Novanta, tipo Alexia o DJ Molella, musica di merda insomma; qualcuno si mise a ballare, mentre aspettavamo il conto alla rovescia. La conversazione languiva: avevamo già rievocato i cartoni animati che vedevamo da bambini e spettegolato della nuova fidanzata di un amico assente.
«Perché non facciamo come nel Simposio di Platone?» propose Giorgio, che aveva fatto il liceo classico con me. «Per non bere troppo e lasciare un po’ di posto per lo spumante, ognuno di noi potrebbe improvvisare un discorso sull’amore».
«Sì dài, comincio io» aderì Sabrina con finto entusiasmo. «Questo è il mio discorso: L’amore non è bello se non è litigarello. Finito».
«Preferisco bere fino a schiattare» chiosò Gabriele.
«A proposito di amore» intervenne Lia rivolgendosi a me «ho fatto una bella figura di merda l’altro giorno con quel tuo compagno di università, Simone…».
«Che figura di merda?».
«Ma sì, quando gli ho chiesto come si chiamava la sua ragazza e lui ha risposto: È un ragazzo, si chiama Luigi
».
«Va bè, non mi sembra una gran figura, mica potevi saperlo».
«State parlando di Simone?» si intromise Barbara. «In effetti non si vede per niente che è gay».
«Già,» replicai io «non ha la pelle verde, né le orecchie a punta».
Poi raccontai alle mie amiche che Simone era parecchio infastidito dal gay pride, perché sua mamma quando guardava le immagini in televisione pensava che tutti gli omosessuali si vestissero come femmine o andassero in giro in calzoni di pelle e manette.
«Ha ragione,» commentò Barbara «anche a me dà fastidio il loro esibizionismo».
«Ma quale esibizionismo?» sbraitai; sentivo il sangue salirmi alla testa e pulsarmi nelle tempie, «che stai dicendo, anche tu? Perché, non hanno il diritto pure loro di vestirsi come gli pare? E se danno scandalo a tutti i benpensanti come te tanto meglio, in fondo che manifestazione sarebbe se non provocasse un po’ il comune insulso senso del pudore e la morale cattolica di questo paese di bigotti?».
Stavo esagerando e lo sapevo, ma non me ne fregava niente. Ero stufa di sentire idiozie, ero stufa di sentirmi diversa da quasi tutti i miei amici, a cominciare dal mio fidanzato. Ero stufa di vivere come un’italiana media della mia generazione, ed ero stufa marcia dei miei compatrioti teledipendenti, qualunquisti e piagnoni. Però me la stavo prendendo con la persona sbagliata, e me ne accorsi quando a Barbara spuntarono le lacrime agli occhi; Barbara era la più mite e la più dolce delle mie amiche, e mai in tutta la mia vita avevo litigato con lei. La mia vis polemica subì un brusco arresto, ma non ce la facevo a chiederle scusa. Mi venne da piangere, e me ne andai fuori in balcone a fumare. Dopo pochi minuti mi raggiunse Lia.
«Eva, ma che cos’hai? Non ti riconosco stasera».
«Mi sono rotta, Lia».
«Di cosa?».
«Di tutto».
«C’entra la storia con Gianni?».
«Sì, c’entra Gianni, ma non solo, anche noi: cosa stiamo facendo delle nostre vite?».
La domanda rimase sospesa, perché venne a chiamarci Sabrina per il brindisi.
«Al nuovo millennio» dissi io con una punta di sarcasmo.
«Ma non era iniziato l’anno scorso?» disse Gianni.
«No, inizia quest’anno. L’anno scorso era l’ultimo anno del ventesimo secolo».
«Secondo me dici cazzate».
«Informati, e vedrai che ho ragione. Non esiste l’anno zero».
«Ma che minchia c’entra l’anno zero? Perché devi sempre fare la prima della classe?».
«Oh, la volete finire voi due?» si intromise Lia, e venne a trascinarmi via per ballare l’irresistibile YMCA dei Village People; finalmente alla radio c’era un po’ di revival anni Ottanta.
Quando cominciano a piacerti le canzoni che vent’anni fa ti facevano schifo, pensai, vuol dire che stai invecchiando, bella mia.
Ma ballai lo stesso, continuando a stordirmi con l’alcool e le sigarette per far finta di non vedere Gianni che se ne stava in disparte col suo amico Gabriele, senza degnarmi minimamente di uno sguardo o di una parola.
Verso l’una se ne andarono tutti a letto. Io non ne avevo voglia, e rimasi un po’ sveglia a chiacchierare con Barbara, rappacificate dal silenzio notturno che conciliava le confidenze. Dopo poco però ci raggiunsero Gianni e Gabriele, completamente ubriachi.
«Oh, ma allora la festa non è finita,» disse Gabriele «dài ragazze, accendiamo la radio».
Barbara gli diede retta e si mise a ballare con lui al buio, mentre Gianni rideva di un riso idiota e io lo guardavo in cagnesco.
Dopo un po’ comparve Sabrina dall’altra stanza, pallida come un fantasma.
«Cosa diavolo state facendo?!» ringhiò più che chiedere. «Mi avete svegliata».
«Suvvia sorella,» replicò Gabriele «facciamo solo un po’ di onesta baldoria. In fondo, è Capodanno. Non hai sentito prima cos’ha detto la nostra Eva? Inizia il nuovo millennio!».
«Il nuovo millennio un par di palle,» fece lei «io domattina devo lavorare. Spegnete quella radio e lasciatemi dormire».
«Sorella, hai dei problemi?» fece lui. «Perché non metti la testa nella tazza del cesso, così la nostra musichetta non ti disturba più?».
«Io me ne vado» sibilò Sabrina.
La seguii nella sua stanza.
«Cosa fai?» le chiesi, mentre si toglieva la maglia del pigiama.
«Mi vesto e me ne torno a casa».
«Ma sei pazza? Da sola a quest’ora?».
«Sì. E tu fatti gli affari tuoi; potevate pensarci bene tu e Gianni, prima di invitare quell’alcolizzato».
«Ma Sabrina…» tentai ancora di dire mettendomi tra lei e la sua borsa, che aveva appoggiato sul letto per rimetterci dentro le sue cose.
«Levati di torno» fece lei, spostandomi di peso.
Comparve Gabriele sulla porta.
«Te ne vai? Che peccato! Sarà un mortorio qui senza di te».
«Crepa,» commentò Sabrina «sparisci o ti prendo a calci nel culo da qui fino alla fogna da dove sei uscito».
Non volevo sentire la risposta di Gabriele. Mi veniva da vomitare; corsi in bagno e mi chiusi dentro. Dopo aver buttato fuori un bel po’ di vino e tutti i salatini che mi ero ingurgitata, mi sedetti sulla tazza e cominciai a piangere. Quando uscii dal cesso la situazione si era calmata; Lia aveva