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È solo una partita
È solo una partita
È solo una partita
E-book165 pagine2 ore

È solo una partita

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Info su questo ebook

Bergamo, primavera 2016. Bruno è un ragazzo di diciassette anni che potrebbe sfondare nel mondo del calcio, ma il suo rapporto difficile con il padre e un tragico incidente mandano in frantumi il suo sogno.
Quattro anni dopo Bruno ha la sua occasione di rivincita. Allenatore di una squadra di calcio giovanile, raggiunge una finale nazionale contro ogni pronostico. Pochi giorni prima della partita, però, il giocatore più forte della sua squadra scompare nel nulla e Bruno viene arrestato per omicidio.
Daniele Cavagna, nato a Bergamo nel 1983, è sposato e ha tre figli. Appassionato di arte, cultura, gastronomia, imprenditoria, sport e tecnologie, scrive da quando ha diciotto anni. Amando il territorio e tutto ciò che lo rappresenta, svolge diverse attività in Val Serina, dove vive.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2019
ISBN9788835374336
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    Anteprima del libro

    È solo una partita - Daniele Cavagna

    MAGNOLIA

    Narrativa

    È solo una partita

    Daniele Cavagna

    © 2019 – Il Seme Bianco

    ISBN E-Book 9788835374336

    Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.

    I edizione luglio 2019

    info@ilsemebianco.it

    www.ilsemebianco.it

    eBook by StreetLib.com

    Il Seme Bianco è un marchio distribuito da Lit Edizioni Srl

    Sede operativa: via Isonzo 34, 00198 Roma

    Daniele Cavagna

    È SOLO UNA PARTITA

    Indice

    Prologo

    PRIMA PARTE

    I

    II

    III

    SECONDA PARTE

    I

    II

    TERZA PARTE

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    Prologo

    Anno 1984

    «Ahi, cieca umana mente, come i giudizi tuoi son vani e torti!», disse Carlo a petto in fuori.

    La signora Lucrezia lo guardò stupita. L’uomo e la donna, che erano con lei, fecero lo stesso. Poi l’uomo rise di gusto, diede una pacca leggera sulla spalla del bambino e si avviò verso l’uscita, cingendo la sua compagna con un braccio.

    Quando il portone si chiuse alle spalle della coppia, Carlo andò alla finestra. I campi che circondavano l’orfanotrofio erano ingialliti. In lontananza le cime più alte delle montagne bergamasche, imbiancate dalla prima neve, risaltavano sullo sfondo grigio del cielo. Il bambino osservava l’auto della coppia scomparire in fondo alla strada sterrata. La signora Lucrezia gli appoggiò una mano sulla spalla, guardando a sua volta all’esterno. Poi abbassò lo sguardo su di lui e ruppe quel loro silenzio.

    «Dove hai sentito questa frase?».

    Il bambino alzò le spalle, guardandola negli occhi con un leggero sorriso di soddisfazione.

    Lei, a sua volta, sorrise debolmente, in attesa di una risposta.

    Carlo fece un cenno per dirle di aspettare, poi si mise a correre con il suo passo zoppo lungo il corridoio. Salì la scalinata che portava alle stanze dei bambini.

    Poco dopo tornò con un vecchio libro tra le mani e lo porse alla signora Lucrezia che lesse il titolo: La Gerusalemme Liberata – Edizione 1946.

    «L’hai preso in biblioteca?», domandò la signora Lucrezia indicando lo stanzino dove venivano conservati i volumi provenienti dalle donazioni. Carlo annuì, poi tornò alla finestra che dava sul cortile.

    Ogni giorno molte persone oltrepassavano il grande arco di mattoni dell’orfanotrofio. Erano i volontari che aiutavano amorevolmente nella cura dei bambini, i dipendenti della cooperativa che gestiva la struttura, i medici, gli assistenti sociali, le coppie che intendevano adottare un bambino.

    Lì non ci si annoiava mai. Le voci dei bambini che giocavano riempivano i corridoi.

    «Perché non andiamo a preparare ancora qualche disegno per la tua festa di compleanno?», chiese la signora Lucrezia.

    Carlo si voltò, prese il libro dalle mani della donna e si incamminò verso la scalinata, senza degnare nessuno di uno sguardo. La signora Lucrezia sospirò preoccupata; Carlo, il bambino zoppo con i capelli bianchi e gli occhi di un verde chiarissimo, viveva nell’orfanotrofio da quando aveva un anno e mezzo. La settimana successiva ne avrebbe compiuti sette.

    Arrivato nella sua stanza il ragazzino si sdraiò sul letto, aprì il libro e riprese a leggere le pagine ingiallite. In pochi secondi il suo respiro si fece rilassato, il battito più silenzioso.

    Rimase a leggere fino all’ora di cena, quando chiuse il volume e lo appoggiò sul comodino sopra un altro vecchio libro, il suo preferito, il primo che avesse mai letto: Le avventure di Peter Pan.

    «L’onta irrita lo sdegno a la vendetta», disse Carlo il giorno seguente, quando la signora Lucrezia e la coppia in visita lo salutarono con un cenno della mano.

    I due adulti sorrisero per la sorpresa. Non era uno di quei sorrisi compassionevoli che Carlo mal sopportava. La signora Lucrezia spiegò loro che il ragazzino aveva letto tutti i libri per ragazzi della loro biblioteca e che era passato a testi più impegnativi. I due parvero colpiti.

    Carlo si avviò claudicante verso la sua stanza, trattenendo a stento, per orgoglio, il sorriso soddisfatto che gli piegava il viso. Soltanto quando fu solo, nel suo letto, lasciò che quel sorriso esplodesse in tutta la sua forza.

    PRIMMA PARTE

    Anno 2016

    I

    Agata fece un cenno di saluto alla ragazza della sorveglianza, che rispose con un sorriso. Arrivò nella sala piena di opere d’arte, si sfilò il soprabito e fece scorrere lo sguardo tra i capolavori fino a trovarne uno in particolare. Si avvicinò lentamente al quadro. Nella sala non c’era nessun altro. Si mise perfettamente di fronte all’opera osservandola attentamente. Il San Sebastiano di Raffaello guardava leggermente a sinistra, con un occhio impercettibilmente strabico. Agata, dopo la morte della madre, aveva trovato nel volto sereno del San Sebastiano di Raffaello la forza di reagire. Si avvicinò ancora di più al quadro, guardò il santo negli occhi e dalle labbra le uscì un «Ciao», appena sussurrato.

    La sua bocca si aprì in un sorriso di bambino felice. Si sedette su una poltroncina di fronte al dipinto e vi rimase in contemplazione.

    Dopo quasi tre quarti d’ora si alzò e prese il cellulare dalla tasca del soprabito. Scrisse un messaggio a Silvia, sua sorella, invitandola al bar fuori dall’Accademia Carrara.

    «Arrivo tra dieci minuti», fu la risposta quasi immediata.

    Agata si portò di nuovo a pochi centimetri dal San Sebastiano, continuando a osservarne il volto, poi si avviò all’uscita. Si avvicinò al locale designato per l’incontro e prese posizione a uno dei tavolini all’esterno. Silvia arrivò pochi minuti dopo scendendo dalle scalinate che portavano in Città Alta, dove frequentava l’università da meno di un anno. Ordinarono da bere e Silvia fece un apprezzamento sul sedere del cameriere.

    «Mi hanno offerto un tirocinio a Roma», disse Agata all’improvviso. Silvia smise di sorridere.

    «Stai scherzando, vero?».

    «No», rispose prontamente Agata «un anno di praticantato nello studio a Roma».

    «Ma è fantastico!», esclamò Silvia felice.

    Agata, invece, non sembrava felice.

    «Non so se accetterò», disse sommessamente.

    «Ma cosa stai dicendo? Certo che accetterai Aga! Dopo che hai studiato tutti questi anni vuoi sprecare la tua occasione? Poi lo senti papà…».

    Lo sguardo di Agata era perso nel vuoto.

    «Hai sentito quello che ti ho detto?», chiese Silvia.

    Gli occhi di Agata divennero lucidi.

    «Se io me ne vado chi ti impedirà di truccarti come un trans prima di uscire?», disse per sdrammatizzare.

    Silvia rise di gusto, poi ribatté: «Già, e se te ne vai chi ti porterà fuori di casa a divertirti un po’, a ballare, a conoscere gente nuova?».

    Una lacrima scivolò sopra il sorriso amaro di Agata.

    «Potrei aspettare ancora qualche mese e chiedere un’opportunità più vicino a casa, a Milano, per esempio».

    Silvia portò la mano al mento di Agata e le sollevò il viso perché la guardasse negli occhi.

    «È quello che volevi», le disse con decisione. «Vai a Roma e fai quello che devi fare».

    Silvia si alzò dalla sedia, andò all’edicola dall’altro lato della strada. Tornò a sedersi al tavolino del locale e Agata la guardò sorridendo.

    «Tu mi spedirai questa cartolina da Roma, ok?», disse porgendole il cartoncino che rappresentava un panorama ripreso dalle mura di Città Alta. «Oppure scordati di poter usare di nuovo le mie scarpe rosse di vernice».

    Agata scoppiò a ridere e a piangere insieme.

    Silvia si alzò e la abbracciò stretta.

    II

    «E allora, solo perché uno è finito male dovrebbero essere tutti drogati? Ma cosa vuol dire?», chiese Bruno con sarcasmo.

    «È un mondo marcio, quello, lo vuoi capire?», rispose Pietro. «Girano troppi soldi e finisce che le persone perdono il contatto con la realtà».

    «Dici così solo perché è successo a quello della concessionaria».

    «Ci sono passato Bruno, non è solo per quello che è successo a Lorenzo. Lui era una testa calda comunque».

    «Appunto», sottolineò Bruno.

    Pietro sospirò di nuovo abbassando il capo e portandosi una mano alla fronte. Poi lasciò il salotto e si diresse in cucina.

    «Ti prego», disse Bruno speranzoso.

    Nelle ultime settimane le discussioni tra padre e figlio si erano intensificate.

    Nel frattempo Laura, la madre di Bruno, se ne stava in disparte sul divano. Non interferiva mai nelle discussioni dei due uomini di casa.

    Pietro tornò in salotto con dei bicchieri e una bottiglia di tè freddo. Si sedette sul divano di fianco a Laura, che leggeva una rivista. Versò la bevanda e porse a Bruno un bicchiere, che lo rifiutò con un gesto rassegnato.

    «Quante volte dovremo discuterne ancora?», chiese Pietro.

    «Ma non ha senso!», esclamò Bruno a voce alta. «Solo perché qualcuno si droga o vende le partite per farci dei soldi non significa che siano tutti così!».

    Le vene sul collo di Bruno pulsavano vistosamente.

    Pietro emise un nuovo profondo respiro, poi posò il bicchiere sul vecchio tavolino da salotto. Si sistemò sul divano per guardare meglio suo figlio e gli disse: «Lorenzo è morto perché se l’è cercata. È sempre stato un tipo pericoloso. Però quello è un mondo marcio. L’ho visto con i miei occhi, Bruno», disse con intensità.

    Poi si alzò e prese tra le mani una vecchia cornice con dentro una foto di una squadra di calcio.

    «Allora non giravano tanti soldi come ora, eppure c’era chi scommetteva, chi si drogava, chi beveva…».

    Pietro scosse la testa e assunse un’espressione di disprezzo. «Figuriamoci oggi con il giro d’affari che c’è».

    Bruno rilassò le spalle rassegnato, mentre suo padre riprese:

    «Non sarò io a mettere mio figlio in quella gabbia di matti».

    «Allora perché mi hai lasciato arrivare fino a qui?», chiese Bruno a labbra strette.

    «Non è lo sport in sé a essere negativo», rispose Pietro spazientito. «Il calcio è bellissimo, e finché si gioca per divertimento, come a questi livelli, è tutto ok. Ma diventare professionista è tutta un’altra cosa».

    «Questo significa che non hai fiducia in me», lo incalzò Bruno.

    «Questo non è vero e lo sai!», esclamò Pietro. «Tra pochi mesi sarai maggiorenne. A quel punto non avrai più bisogno della mia approvazione. Fino ad allora l’argomento è chiuso!».

    «Ma così perderò una stagione».

    «Santo Iddio!», Pietro picchiò i pugni sul tavolino. «Te lo ripeto per l’ultima volta: non sarò io a farti finire in quel giro! Sarebbe come chiedermi di calarti in una fossa piena di serpenti velenosi!».

    Bruno andò in camera sua, prese il casco e si avviò verso l’uscita.

    «Dove vai ora?», chiese Pietro.

    «Esco!», rispose Bruno sbattendo la porta d’ingresso.

    Pochi istanti dopo, sbirciando dalla finestra, marito e moglie videro aprirsi il cancello elettrico del cortile. Bruno lo oltrepassò in sella allo scooter che Pietro gli aveva regalato quando aveva compiuto quattordici anni. Allora Pietro guadagnava bene facendo l’artigiano edile. Sembrava passata un’eternità.

    «Oh Cima», disse Bruno telefonando da sotto casa dell’amico «Mi apri? Sono qui sotto».

    Cima e

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