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Fanali gialli
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E-book262 pagine10 ore

Fanali gialli

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Info su questo ebook

Con il ritmo serrato di un romanzo suspense e la delicatezza dei sentimenti di una grande storia d'amore, "Fanali gialli" torna in questa nuova veste editoriale pubblicata da GAEditori.
LinguaItaliano
EditoreGAEditori
Data di uscita1 giu 2022
ISBN9791221346121
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    Anteprima del libro

    Fanali gialli - Gasperini Brunella

    I

    — Agi! Aaaaaagi! — Un'acuta voce di donna si allargava sul prato di via Sirio, pieno di cartacce e di cani randagi. — Aaagi! — Non c'era bisogno di guardare l'orologio per sapere che erano le otto. Biagio, detto Agi, figlio della sarta, era un ragazzino movimentato, che viveva in strada dall'alba al tramonto, e sua madre lo chiamava puntualmente, per motivi alimentari, quattro volte al giorno: alle otto del mattino, a mezzogiorno, alle quattro del pomeriggio e alle otto di sera. Via Sirio poteva regolarsi su quei richiami come su una specie di meridiana rionale.

    — Te possino!— disse Fulvia Gennari, tirandosi le coperte sulla testa. Era nata e cresciuta a Milano, ma in quel periodo aveva un amico romano, e ne aveva assimilate le imprecazioni. Il braccio nudo, unica parte visibile di lei oltre a un intricato cespuglio di capelli color paglia, brancolò fuori alla ricerca delle sigarette. Solo dopo averle trovate si decise a tirar fuori la faccia: terrea, disgustata, con due macchie di rimmel sotto gli occhi.

    — E tu cos'hai da guardare — disse a sua sorella Tilla che stava seduta, vestita, sull'altro letto. — Lo so che non sono per niente bella da vedere, alle otto del mattino. No, non era bella da vedere. I lineamenti fini sembravano raggrinziti, i grandi occhi neri sembravano spenti, la pelle liscia sembrava fìnta.

    «Mia sorella,» pensava Tilla «la mia cara sorella maggiore!» Non riusciva a staccare lo sguardo da quello sfacelo mattutino. «Io non finirò come lei! Giuro che non finirò come lei.»

    Ogni volta che assisteva agli squallidi risvegli di sua sorella, rifaceva a se stessa quella specie di accanito giuramento. A se stessa, alla sua famiglia guasta, a via Sirio.

    Via Sirio con le brutte case piene di gente che si affacciava alle finestre e sulle ringhiere per spiare le liti e le parolacce di Fulvia e della mamma, le stolide risatine e gli ambigui piagnistei di suo fratello Dante, i balbettii da ubriaco e le improvvise furie di suo padre; via Sirio che sogghignava e torceva la bocca quando lei passava, con la sua preoccupante bellezza, con la sua chiusa arroganza, coi suoi diciannove anni amari e impauriti. «Giuro, giuro, giuro...»

    — Se ti faccio schifo, — disse Fulvia — lascia stare di guardarmi. — Mentre parlava, la sigaretta ballonzolava all'angolo della bocca sbavata di rosso. In silenzio, Tilla distolse lo sguardo. — E poi levati dai piedi, sordomuta! — continuò Fulvia, chiudendo bruscamente gli occhi.

    Sempre senza parlare - non parlava mai coi suoi familiari - Tilla andò verso la porta.

    — Aaaagi! — chiamava, fuori, la meridiana di via Sirio.

    — Aaaaagi...

    — Mamma, dì a Mariolina di sbrigarsi — disse la voce rassegnata di Cesare Bianchi, nell'appartamento attiguo a quello dei Gennari. — Sarà mezz'ora che è in bagno, mi fa far tardi in ufficio.

    — Sbrigatimariolina — recitò distrattamente la mamma di Cesare, nota in via Sirio come «la vedova Bianchi». Era in piedi davanti alla finestra, con uno straccio da spolverare in mano e i bigodini nei capelli brizzolati, apparentemente immersa in profonde meditazioni.

    Le meditazioni della vedova Bianchi erano sempre profondissime.

    Con un sorriso non del tutto allegro, ma molto tenero, Cesare la lasciò alle sue meditazioni e andò a battere le grosse nocche pazienti sulla porta del bagno.

    — Sei pronta, Mariolina? Faccio tardi.

    — Mmmm... sì — rispose, da dentro, un'esile voce sognante.

    Anche attraverso la porta chiusa, Cesare poteva vederla benissimo: seduta sul bordo del bagno, con le magre gambe quindicenni dondolanti, un giornale illustrato in mano e un sorriso rapito sulle labbra. La casa, la scuola e il resto del mondo in generale erano scomparsi per lei. In quel momento Mariolina era una diva, una principessa, un'ereditiera o qualcosa del genere.

    Cesare sorrise di nuovo, lo stesso sorriso di prima, e tornò a battere le nocche sulla porta.

    La porta si aprì e Mariolina, col giornaletto nascosto dietro la schiena, lo guardò dall'alto della sua raffinatezza. — Che barba che sei — esclamò.

    — Ciao, mamma — disse Cesare. — Noi andiamo.

    — Attento agli incroci! — raccomandò la mamma. Lo diceva tutte le mattine: gli incroci erano un'altra delle cose su cui la vedova Bianchi meditava profondamente.

    — Sì, mamma — disse Cesare.

    Povera mamma! Svanita, incorreggibile e cara. Le sorrise, e questa volta la mamma gli ricambiò il sorriso con una specie di supplichevole gratitudine.

    Sul pianerottolo c'era la vecchia bicicletta di Cesare appoggiata al muro. Mentre lui si chinava a ispezionare le gomme, dall'appartamento di fronte uscì Tilla Gennari, bruna, ermetica e bella, portando dietro di sé, attraverso la porta aperta, una scia di imprecazioni meneghine e di isteriche ingiurie: Fulvia e sua madre avevano iniziato la giornata.

    — Ciao Tilla — disse gentilmente Cesare, fìngendo di essere sordo.

    — Ciao — rispose Tilla, senza guardarlo. Chiuse la porta, ma gli urli arrivavano ugualmente fin sulle scale; tra un acuto e l'altro si sentiva Dante ridere stupidamente.

    — Andiamo, Mariolina — disse in fretta Cesare, spingendo sua sorella giù per le scale. Sollevò la bicicletta e la seguì, senza più voltarsi.

    Tilla scese dietro di loro, a testa alta, gli angoli della bocca piegati in giù. «Ha paura che gli contamini la sorellina» pensava. «Tilla Gennari, figlia di scostumati, prossima scostumata lei stessa. Vi venga un accidente a tutti quanti.» I lunghi capelli neri, gonfi e lucenti, danzavano sulle sue spalle, e i suoi occhi fissavano la grossa schiena di Cesare, il brutto vestito, quella sua aria goffa, solida e mite. «Cesare Bianchi, giovane povero e onesto, sostegno della famiglia, comodino degli amici. Gli venga un accidente anche a lui.» Era talmente cretino provare questa rabbia e questa terribile tenerezza, ogni volta che lo vedeva. E lo vedeva ogni giorno, da tanti e tanti anni. C'era stato un tempo, quando Mariolina era piccolissima, che Cesare portava a scuola lei, Tilla, sulla canna della bicicletta. Secoli fa, quando il papà non era ancora stato in prigione, e Fulvia non era ancora diventata quello che era, e Dante non s'era ancora ammalato, e la mamma sembrava che volesse un po' di bene anche a lei, oltre che a Dante. E lei era una bambinetta magra, timidissima e innocua. E in tutto questo tempo, tra lo sfacelo delle illusioni infantili e degli affetti e dell'innocenza, lei s'era portata dietro intatta questa cosa cretina: «Cesare Bianchi, giovane povero e onesto».

    Allungando le gambe impazienti, Tilla lo sorpassò bruscamente e corse fuori verso via Sirio, verso un'altra giornata inutile e amara.

    — Aaagi...

    Il richiamo raggiunse il nuovo casermone all'angolo di via Dolfini, penetrò attraverso le finestre del sesto piano fino al tinello dove gli otto ragazzi Gerli (divisi in «grandi» dai ventidue ai sedici anni, e in «piccoli» dai quindici anni agli otto), riuniti intorno a una tavola incredibilmente lunga e incredibilmente carica, divoravano montagne di tostini al prosciutto e litri di cioccolata calda, in un confuso, assordante incrociarsi di verbi greci, epiteti goliardici, Topolini, Paperini, fantascienza e molliche di pane. L'anziana domestica che vagava intorno alla tavola dicendo continuamente: — Su zitti presto, su presto zitti —, appariva già vicina al collasso alle otto di mattina. E vicina al collasso rimaneva fino a sera: da una quindicina di anni. La signora Gerli, invece, sebbene in ventitré anni di matrimonio non avesse fatto altro che mettere al mondo figli, allattarli, crescerli, vestirli, amarli, capirli, seguirli negli studi e nasconderne le malefatte al marito, non appariva mai stremata, ma solo dolcemente stanca. Sotto i capelli che cominciavano a incanutire, i suoi occhi dorati erano pieni di pazienza e di umorismo.

    Mancava, a tavola, solo il capofamiglia.

    — Aaaagi... — Il secondo richiamo della meridiana coincise col rumore della porta del bagno che sbatteva.

    — Gulp! — disse Toni, il più piccolo — Arriva.

    Non c'era bisogno di dire chi. Con un ben concertato fragore di sedie mosse, gli otto figli si alzarono recitando il rituale «Buongiorno, papà», e aspettando il permesso di tagliare la corda.

    Torreggiante, baffuto e di pessimo umore, il padre li guardava senza cordialità. Era sempre di pessimo umore, a quell'ora. Lui spiegava il fenomeno col fatto che durante la notte, dormendo, si dimenticava di aver messo al mondo tanti figli, e che trovarseli poi davanti così, tutti in una volta, era sempre un brutto colpo. Uno sogna, da studente, di diventare uno scienziato puro, tipo Pasteur, tutto dedito allo studio e al benessere delle generazioni avvenire; poi incontra una ragazza con gli occhi gialli e la voce che ride, s'innamora, la sposa, e un bel giorno si trova proditoriamente padre di otto figli. Hai voglia a fare il Pasteur, con otto figli.

    — Giorno — grugnì. — Potete andare.

    Mentre il complesso dei figli dirottava verso il corridoio, non senza le difficoltà e gli incidenti causati dal voler passare dalle porte contemporaneamente, il dottor Gerli si rivolse, sempre con espressione disgustata, alla pila di tostini che l'affranta domestica gli presentava e la sorridente consorte gli spalmava tranquillamente di burro. Prima che iniziasse a spazzare via tutto, dall'esercito in fuga si staccò una retroguardia singola, che tornò indietro di corsa e venne ad appoggiargli la guancia sulla pelata. — Ciao, papà — disse una voce fresca.

    Per un momento l'espressione del capofamiglia oppresso cambiò, diventando inerme. Poi, riprendendosi, il dottor Gerli si ficcò in bocca un tostino e si limitò a dare una rapida occhiata alla giovane faccia che gli sorrideva.

    Questa non apparteneva, per lui, né ai «grandi» né ai «piccoli». Questa era semplicemente Francesca, la sua unica figlia femmina; e sebbene tentasse virilmente di nasconderlo, ogni volta che la vedeva il dottor Gerli si sentiva sciogliere tutto di dentro come gelatina al fuoco: così allegra e dolce, carica di giovinezza, di salute e d'intelligenza, dai piedini danzanti ai capelli castani, la sua nuova ragazza dagli occhi gialli, il ritratto vivente di quell'altra quando aveva vent'anni.

    — Ciao, ciao — brontolò.

    Sopra la sua testa pelata, Francesca sorrise a sua madre, disse di nuovo ciao, e corse a raggiungere gli altri sulle scale: dopo alcune drammatiche esperienze, i condomini avevano interdetto loro l'uso dell'ascensore. Quando la valanga Gerli arrivò trionfalmente in via Sirio, i vetri, le scale, la portinaia e i condomini smisero di tremare alle loro spalle, e il pallido sole di marzo ingentilì le loro giovani indomite facce.

    — Santo cielo, è primavera! — disse Francesca, con una voce quasi ferita. Tutta quella nebbia ieri... e adesso era primavera! Sempre, ogni anno, la primavera la coglieva di sorpresa, come un miracolo. Ma in quel mattino di marzo dei suoi vent'anni, e in quel preciso momento, la scoperta della primavera divenne, senza una ragione precisa, una specie di choc: un'acuta, spaurita felicità che era quasi un dolore o un presentimento. «Signore, non cambiare niente, ti prego» pensò. «Fa' che resti sempre tutto come adesso: il papà e la mamma e i ragazzi e la vita e la primavera, e io. Non cambiare niente, Signore.»

    — Gulp — la riscosse la voce ammirata di Gigi, l'esemplare più grande della categoria piccoli. — Guardate che razza d'una macchina!

    Una macchina sportiva, rossa e vistosa, con una frenata che deliziò tutti i ragazzini e spaventò tutti i cani di via Sirio, stava fermandosi di sghimbescio davanti al portone del numero quattordici. Dai marciapiede, dalle finestre, dalle porte dei negozi, via Sirio si protese a guardare. — Toh! — dissero — Era un pezzo che non lo si vedeva.

    Lo sportello rosso si aprì e ne scese, con un complicato dipanamento di gambe, un giovanotto alto, dall'aria indolente e casuale, che si stirò come un gatto insonnolito e poi sedette sul cofano, spingendosi il cappello ancora più indietro sulla nuca.

    — Forse è sbronzo — suggerì Stefano Gerli. — Comunque fa molto americano.

    — Vedrai che quando gli passiamo davanti — disse Paolo — dà una guardata a Francesca e dice qualcosa.

    — Sta' a sentire cosa gli dico io, allora — insinuò Francesca.

    — Quello non è il tipo che parla a una ragazza con sette fratelli intorno — stabilì Stefano.

    — E io dico che qualcosa dice — sostenne Paolo. Per tradizione, i pronostici dei gemelli erano sempre discordanti. — Uno che frena in quel modo e che porta il cappello così, figurati se non dice qualcosa.

    — Non con sette fratelli intorno — ribadì Stefano. — Scommessa?

    — Piantatela — disse Francesca. — È troppo tardi.

    Dal numero quattordici era uscita una ragazza alta e formosa, con lunghi capelli neri e ora si stava avvicinando al giovanotto della macchina.

    — Ma guardate quel tipo — disse Giorgio. — Dev'essere nato stanco: non si alza neanche per salutare.

    Non si alzava, infatti. Il massimo sforzo che fece, quando Tilla Gennari gli si fermò davanti, fu di alzare una mano - non più di venti centimetri - e agitare pigramente non più di due dita.

    — Salute, Massimo Marangoni — disse Tilla. — Mi sbaglio, o sei in ritardo d'un paio di mesi?

    — O Dio Signore — sospirò Massimo. Aveva completamente dimenticato l'esistenza di questa ragazza. Dimenticava l'esistenza di qualsiasi ragazza, quando non l'aveva proprio davanti al naso. Questa adesso gli stava davanti al naso, e se ne ricordava: forse se faceva uno sforzo gli veniva in mente anche il nome. Mina, Tina, Milla, Scilla, qualcosa di simile. Comunque non aveva voglia di fare sforzi. — O Dio Signore — ripeté afflitto. — M'era passato di mente.

    — Pensavo che fossi morto. — Non sembrava arrabbiata, però. Sembrava anzi che se ne infischiasse circa quanto lui. E questo lo stimolò blandamente. Ricordò di aver passato una sera con lei da qualche parte, in dicembre o gennaio o circa, di aver ballato con lei (era calda, duttile e diffidente), di averla baciata sotto il portone, e di averle dato un appuntamento per la sera dopo. Poi era tornato a casa. Nevicava: e gli erano venuti in mente i pupazzi di neve dell'infanzia, lui piccolissimo che camminava per mano a sua madre, e sua madre aveva neve sui capelli e sulle ciglia e rideva... Con quei ricordi era arrivato a casa, e davanti a casa c'era ferma la macchina di suo padre, in attesa che il padrone scendesse con qualche ragazza ciondolante e gorgogliante da riportare a casa. Allora lui non era entrato, era andato avanti, e continuava a nevicare, ma i pupazzi di neve e i fossi del Castello e le ciglia bagnate di sua madre erano chissà dove, e a un tratto lui s'era sentito stufo e vuoto. Era sempre stufo e vuoto, ma in quel momento gli era parso di esserlo troppo, e così aveva deciso di andarsene in montagna, in mezzo a molta neve nuova, per qualche giorno. E invece c'era rimasto due mesi o giù di lì. Non che avesse voglia di starci, ma non aveva neanche voglia di ripartire. Era sempre così che gli succedeva, in qualunque posto andasse.

    E di questa Mina o Tina o Scilla o Milla che fosse, non s'era ricordato più di quanto non ricordasse le tante altre che si accalcavano, prive di senso, nei suoi giorni e nelle sue notti.

    — Cesare non ti ha detto che ero andato in montagna? — le chiese contrito.

    — Non vedo perché avrebbe dovuto dirmelo — lei rispose, seccamente. Poi sorrise, un sorriso che non le arrivò agli occhi neri e segreti. — Non è che ci si parli un gran che, io e Cesare.

    — No? — lui chiese, senza interesse. — Allora, facciamo stasera?

    Ma non aspettò la risposta, perché dal numero quattordici stava uscendo qualcosa che lo interessava evidentemente molto di più. Quel qualcosa era costituito da Cesare, che spingeva fuori dal portone bicicletta e sorellina.

    Questa volta, con notevole sorpresa del complesso Gerli che si stava avvicinando, il «nato stanco» si alzò. La sua bella faccia abbronzata, pigra e indifferente fu traversata da qualcosa di finalmente vivo, caldo e spontaneo, che lo fece apparire, per poche frazioni di secondo, solo un ragazzo. Sulla faccia di Cesare il riflesso fu altrettanto vivo, ma molto più semplice e scoperto: la bocca gli traversò la faccia da un orecchio all'altro.

    Tilla, Mariolina, la bicicletta, la macchina e la baraonda Gerli che era ormai a un passo, divennero particolari insignificanti e superflui. Per un momento parve che sul vecchio marciapiede di via Sirio scaldato dal primo sole non ci fossero che quei due ragazzi clamorosamente diversi che si battevano sulla spalla in silenzio.

    — Ciao, Mariolina! Ciao, Cesare — salutava il coro Gerli passando. Otto paia d'occhi incuriositi e perplessi spiavano lo strano incontro di quei due antipodi.

    — Ciao — disse loro Cesare riscuotendosi.

    — Ci raggiungi, poi? — chiese Francesca, voltandosi.

    Cesare arrossì. Se ne accorse Mariolina, che fece un sorrisetto conciliante. Se ne accorse Tilla, che sbatté pensosamente le palpebre. Non se ne accorse Massimo, perché s'era voltato a guardare le gambe di Francesca. Non erano male. Magroline, lunghette, passabili.

    — Ehm — disse Cesare. — Dopo, se posso.

    I Gerli girarono l'angolo, e Massimo chiese: — Da dove esce ’sto collegio? Com'è che li conosci?

    — Stanno qui al grattacielo da due mesi — rispose Cesare. — La ragazza dà lezioni di greco a Mariolina.

    — O Dio Signore — disse Massimo. — Non posso stargli lontano un momento che questo va a incespicare in una ragazza con uno sterminio di fratelli. E che dà lezioni di greco, pure. O Dio Signore.

    Cesare rise, ma arrossì di nuovo.

    E di nuovo Massimo non se ne accorse, perché stava tornando verso la macchina.

    — Allora, ciao — disse Tilla. — Vado a guadagnarmi un pasto.

    — A stasera, allora? — disse Massimo, con un piede sulla macchina.

    Aspettava senza il minimo interesse, e senza il minimo interesse Tilla rispose, chiaro e forte, a beneficio di tutta via Sirio: — D'accordò.

    Alle nove.

    Tra i negozi, i portoni, le ringhiere e le finestre in ascolto corsero sguardi d'intesa. Tilla girò intorno lentamente i suoi occhi neri, freddi e impudenti, poi voltò le spalle e sparì dentro il portone del numero sedici, urtando contro un bambino che ne usciva di corsa e che alzò la faccia tonda a sorriderle.

    Tilla gli passò una mano sulla guancia appiccicosa: — Ciao, Agi — disse, dolcemente. Via Sirio non avrebbe riconosciuto la sua voce, né il suo sorriso.

    — Secondo me — annunciò Mariolina sedendo in macchina vicino a Massimo — Tilla è una bellezza volgare.

    — Cosa mi dici — disse Massimo in tono di profonda costernazione. — E io che le ho dato un appuntamento! Credi che la mia reputazione ne soffrirà?

    — Uhm — brontolò Cesare. Certe volte Mariolina gli dava proprio fastidio. Caricò se stesso e la bicicletta sui sedili posteriori, e Massimo disse:

    — Lascialo a casa, quel ferrovecchio. Vi accompagno io, no? Mariolina a scuola e te alla tomba. — La «tomba» era lo studio notarile dove Cesare era impiegato da cinque anni ormai, e dove Massimo, erede e padrone, non metteva mai piede. — Vi accompagno e vi vengo anche a prendere: tutti e due. Io e la Messalina siamo a vostra completa disposizione. — La «Messalina» era la macchina.

    — Preferisco portarmi la bici — disse Cesare.

    Sapeva per esperienza quanto fossero fragili i propositi di Massimo: «Ti porto qui, ti porto là, ti accompagno, ti vengo a prendere, dovere di amico»; ma non si sapeva

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