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L' Amore che il calcio non vuole
L' Amore che il calcio non vuole
L' Amore che il calcio non vuole
E-book260 pagine3 ore

L' Amore che il calcio non vuole

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Info su questo ebook

Piero Arena, portiere di una squadra di Lega Pro, durante l'ultima partita di campionato, decisiva per i playoff, ha volontariamente lasciato entrare in rete una punizione tirata da Mario Ferlito, suo ex compagno di squadra.
Ma perché?
Incapace di nascondere l’inconfessabile verità, Piero racconta i motivi della sua azione sconsiderata in conferenza stampa. Ciò però gli costa caro.
Abbandonato dai compagni di squadra, dal proprio mister, da Carla, la donna che era in procinto di sposare, e dallo stesso Mario, Piero decide di lasciare la città e raggiunge la stazione pronto a saltare sul primo treno, incurante della destinazione.
Il romanzo racconta il viaggio catartico di Piero che, vagone dopo vagone, scompartimento dopo scompartimento, incontra le figure più importanti della propria vita e scioglie insieme a loro gli oscuri nodi della propria anima.
E ciò mentre, fuori dal treno, la vita continua a scorrere normalmente. O quasi.

LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2018
ISBN9788869344114
L' Amore che il calcio non vuole
Autore

Marina Lo Castro

Marina Lo castro, classe 1982, è nata e vive a Catania dove lavora come editro freelance e traduttrice. Insieme a Fabrizio Alessandro Cadili, forma una coppia affiatata nella scrittura e nella vita. I due scrivono a quattro mani da molti anni, prediligendo il tema fantastico e le familiari ambientazioni sicule. Oltre a numerosi racconti, pubblicati da diverse case editrici singolarmente o inseriti in antologie cartacee e digitali, sono autori dei romanzi Memorie degli Euritmi. Caesar, per la Plesio Editore e finalista al Premio Italia 2014, Exceptor Legno e Sangue, edito dalla Dunwich Edizioni nel 2015 e il romanzo a puntate Strange Activity, pubblicato in digitale e poi in edizione cartacea dalla Plesio Editore nel 2016. Sono inoltre i vincitori del concorso "L'Evoluzione della Farfalla", indetto dalla Origami Edizioni, con il racconto Eater.

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    Anteprima del libro

    L' Amore che il calcio non vuole - Marina Lo Castro

    Fabrizio Alessandro Cadili

    e Marina Lo Castro

    L’amore che il calcio non vuole

    Romanzo

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, luglio 2018

    Isbn 9788869344114

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Foto di copertina: ©Depositphotos.com/val_th

    Progetto grafico: pastinadesign | Mara Scanavino

    Fabrizio Alessandro Cadili e Marina Lo Castro

    Entrambi classe ’82, Marina Lo Castro e Fabrizio Alessandro Cadili sono nati e vivono a Catania dove Fabrizio lavora come operatore turistico e Marina è editor freelance e trascrittrice.

    Coppia affiatata nella scrittura e nella vita, scrivono a quattro mani da molti anni, prediligendo il tema fantastico e le familiari ambientazioni sicule.

    Oltre a numerosi racconti, pubblicati da diverse case editrici singolarmente o inseriti in antologie cartacee e digitali, sono autori dei romanzi Memorie degli Euritmi. Caesar, per la Plesio Editore e finalista al Premio Italia 2014, Exceptor Legno e Sangue, edito dalla Dunwich Edizioni nel 2015 e il romanzo a puntate Strange Activity, pubblicato in digitale e poi in edizione cartacea dalla Plesio Editore nel 2016. Sono inoltre i vincitori del concorso L’Evoluzione della Farfalla, indetto dalla Origami Edizioni, con il racconto Eater.

    Nel mondo del pallone è un tabù dichiarare i propri orientamenti sessuali perché i calciatori sono visti come idoli, come modelli di perfezione. L’emersione della libertà sessuale è bandita, è una crepa da nascondere, una vergogna da celare.

    Prologo

    A volte l’unica opzione che ci rimane è aspettare che l’arbitro fischi la fine del primo tempo e rimandare la rivincita al secondo.

    Ripiego la camicia, la terza e ultima che ho intenzione di portare, e la sistemo nel borsone, in cima agli altri indumenti. Si stropiccerà lo stesso, ma suppongo sia inevitabile. Ho preso tutto, o almeno lo spero. Oltre alle camicie, scarpe di riserva, mutande e calzini, cinque magliette, una tuta, pantaloncini larghi, di quelli comodi, un paio di jeans, ricambio di quelli che porto, e una giacca scura, perché non si sa mai.

    Il resto ce l’ho addosso.

    Mordicchio l’unghia del pollice, la faccio sbattere contro la fessura tra gli incisivi e rimango a contemplare il borsone aperto. Possibile che a usarlo per gli allenamenti non riuscissi quasi a chiuderlo mentre adesso è pieno soltanto per metà? Rimane così poco della mia vita? È davvero qui tutto ciò che voglio portarmi dietro, da cui non voglio separarmi?

    Evidentemente sì.

    Sollevo il borsone e lo porto con me fuori dalla stanza da letto, nel corridoio, al buio. Le luci parallele che filtrano dalle persiane socchiuse indicano il percorso come le uscite di emergenza di un aereo, e sono sufficienti. È notte, accendere la luce sarebbe un invito che mi rifiuto di mandare. Non voglio che si pensi che Piero Arena sia sveglio abbastanza da poter essere disturbato.

    Mi dirigo verso il bagno, per prendere le ultime cose. Eppure, il lampione del posteggio dall’altro lato della strada – lo riconosco perché emette una luce di un denso giallo cereo – mi indica un’altra direzione. Illumina la porta socchiusa dello sgabuzzino come un occhio di bue un attore sul palcoscenico, poco prima che dia inizio un monologo. Poggio a terra il borsone, spingo la porta dello stesso grigio uniforme della parete e mi ritrovo di fronte una muraglia di mensole. Riconosco cinque paia di scarpe, vecchi scarpini da calcio, ricordo ognuno di uno scalino per giungere al professionismo, l’aspirapolvere, scopa e paletta. In basso, la stufa elettrica che mi ha regalato mia madre quando sono andato via di casa perché d’inverno fa freddo, anche se hai i termosifoni. Non l’ho mai usata, ma lei non lo sa. In alto i piumoni e la cornice con la foto della squadra, che ho dimenticato di riparare dopo che Carla l’ha fatta cadere per sbaglio. Tutto ha assunto l’uniforme colore giallo del lampione. Soltanto la mensola all’estrema sinistra, grazie all’inclinazione della porta, si salva da quell’infezione. Su di essa, afflosciato, riconosco il mio primo pallone da calcio, regalo di un padre per il decimo compleanno del figlio. Quali altri veri regali mi ha fatto? A pensarci, non me ne viene in mente nessuno, eccetto questo.

    Affondo le dita nel cuoio e tiro fuori il pallone. È sgonfio, ammaccato dai tanti calci che gli ho rifilato per spedirlo a schiantarsi contro il muretto dietro casa. L’ho usato fino a ridurlo in quello stato, il piccolo soldato di cuoio, e poi l’ho messo da parte nel momento in cui mi sono potuto permettere un pallone nuovo.

    Chi avrebbe pensato che un giorno mi sarei sentito allo stesso modo? Usato e gettato via, pieno di cicatrici che mi graffiano il cuore, l’anima e l’orgoglio.

    Al contrario del pallone, però, io sono un uomo. Posso scegliere di non rimanere incarcerato in uno sgabuzzino a ricoprirmi di polvere fino a che di me non rimarrà soltanto un ricordo grigio.

    E nemmeno tu farai questa fine, vecchio amico.

    Spolvero la superfice del pallone e mi chino sul borsone per cercare di ricavargli uno spazio. È allora che l’occhio traditore trova la scritta sul fianco della sacca: Aci Sant’Alfio. Sfioro le lettere plastificate, ruvide per gli anni e per l’uso. La vista diventa acquosa, ma riesco a ricacciare indietro le lacrime; ne ho già versate troppe, negli scorsi giorni. Si dice che, per quanto difficile possa essere una situazione, nel momento in cui si decide come affrontarla o se arrendersi a essa, la disperazione che ti ha procurato si affievolisca, fino a diventare persino sopportabile. Penso di aver raggiunto, finalmente, quello stadio di consapevolezza.

    Sistemo il cuoio floscio nell’angolo di solito destinato alle scarpe sporche di terra ed erba, e mi rialzo. Manca ancora qualcosa: spazzolino, dentifricio, deodorante. E poi un pettine, seppure i miei capelli ricci spesso deridano i nostri sforzi comuni, sottomettendosi soltanto al gel extra forte.

    In bagno, con la porta chiusa e le persiane sigillate, decido di rischiare e accendo la luce. Prendo tutto quello che mi manca, o almeno credo, e ne approfitto per provare a dare sfogo a un bruciore di stomaco che mi perseguita da giorni e che sospetto i medicinali abbiano acuito. Siedo sulla tazza e mi rendo conto che probabilmente quella sarà l’ultima volta che uso il water di casa mia. L’ultima volta.

    Tutto d’un tratto il respiro mi si fiacca e il cuore prende a battere al ritmo del tamburo nelle feste di paese. Appoggio i gomiti sulle cosce, prendo la testa tra le mani, e il sudore dei palmi si confonde con quello che inizia a stillare dalla fronte. Rimango così, con la voglia di sprofondare nella tazza al posto di ciò che continua a rimestarmi le budella senza avere voglia di venire fuori.

    Non so quanto tempo passa, so solo che smetto di stringere le palpebre e riapro gli occhi al mondo, che rimane tremulo per almeno un altro minuto.

    Come ho fatto a ridurmi in questo stato? Io, che potrei correre per mezz’ora senza nemmeno pezzare le ascelle, sono madido e con il respiro corto.

    Piero, alzati.

    La mia stessa voce, anche se soltanto pensata, ha il tono perentorio di mio padre, così obbedisco d’istinto e mi ritrovo di fronte al mio riflesso, sullo specchio sopra il lavandino. Pochi giorni di pasti spizzicati e di tempo trascorso al buio possono ridurre così un atleta? La mia faccia smagrita me lo conferma. Ho la barba, ed è strano. Mi sembra di guardare il giardino di nonna Franca nei mesi in cui si ruppe il bacino e non permise a nessuno di curare le sue piante. Il praticello inglese in poco tempo si era trasformato in una giungla di erbacce e piante secche. Così mi pareva la mia faccia con la barba. Dai sedici anni mi rado ogni mattina. Forse all’inizio era per far contento papà (bisogna essere sempre a posto, quando si esce di casa), però alla lunga l’abitudine si era trasformata in piacere. Passo i polpastrelli sui peli rigidi, folti sulle mandibole più che sulle guance. Sarebbe una perfetta maschera: la mia faccia nascosta da me stesso.

    Forse è giusto lasciare le cose come stanno. Se voglio iniziare una nuova vita, probabilmente è meglio che il calcio d’inizio sia un dettaglio per i più insignificante, come la presenza o meno della barba. Così accantono l’idea di radermi.

    Neanche mi stessi preparando a parare una punizione, porto indietro i ricci che mi sono ricaduti sulla fronte e mi concentro per compiere la semplice operazione di aprire il rubinetto. L’acqua mi riempie le mani a coppa e scivola lungo gli avambracci, mentre me la getto sul volto. Il sollievo della freschezza dura poco: il tempo di asciugare la pelle ed è già svanito, soffocato di nuovo da quel gas velenoso che è la malinconia.

    Sto facendo la cosa giusta? È così che voglio risolvere i miei problemi? Sparendo?

    Sparire… ma chi voglio prendere in giro? Sto scappando, ecco la verità.

    «E anche se fosse? Che c’è di sbagliato?»

    La mia voce rimbomba come se la stanza non avesse mobili. Rimane a rimbalzarmi nelle orecchie abbastanza a lungo perché torni a bussare il desiderio impellente che ho sbattuto fuori nei giorni trascorsi in volontario isolamento: quello di chiedere consiglio.

    Solo Nostro Signore sa quanto avrei bisogno di sentire uno dei rimbrotti del mister. Uno scappellotto e poche parole, sagge e dense.

    O un parere di mio padre.

    Dopo la mia voce, a riecheggiare nel bagno arriva una risata gutturale, ironica, emersa dal fondo della gola.

    Mio padre.

    Non ci sentiamo da anni, eccetto che per le feste comandate e per i compleanni. Dopo la conferenza, poi, nemmeno una parola. Non mi aspettavo certo che si precipitasse qui a sostenermi, ma una telefonata… Ci avevo sperato, i primi tempi, ed è umiliante persino ammetterlo.

    Si vergogna, è evidente. Già lo immagino, isolato nel suo studio così come io, imparando da lui, sto facendo da giorni nel mio bivani. Ha bevuto? Forse, se mamma ha fatto finta di niente come al solito. Più probabile, però, che si sia gettato nel lavoro, sforzandosi di dimenticare di aver messo al mondo un figlio come me. O magari, chissà, a rimpiangere di non aver voluto dare a mia madre il secondogenito che aveva desiderato. Una seconda scelta, un’uscita d’emergenza che di certo oggi gli avrebbe fatto comodo, ma che non ha avuto il buon senso di approntare.

    Non l’ha detto esplicitamente, durante quella sera a cena, eppure non bisognava inforcare gli occhiali per leggere un messaggio fin troppo chiaro: si aspettava altro da me, e con la decisione di seguire il mio sogno lo stavo ferendo e deludendo. Il peggio, però, doveva arrivare, e all’epoca nemmeno io lo sapevo. Chissà quanto è ferito e deluso in questo momento.

    Al ricordo di quella sera al ristorante il metronomo del cuore impazzisce di nuovo. Mi cingo il petto con un braccio e crollo a sedere sul water.

    Calmo, calmo, calmo.

    La velocità si abbassa, i battiti diminuiscono i loro giri, la Maserati che mi romba in corpo lentamente si trasforma nella Chatenet Barooder di mio cugino Ettore.

    Questa volta sono riuscito a sedarla sul nascere, la crisi, ma la ribellione del mio corpo è sempre lì, mi insegue instancabile come un’ombra.

    Vedendomi così il mister mi avrebbe dato uno scapaccione di quelli forti, che ti infiammano la nuca e ti fanno ricordare che non è il caso di contraddirlo. A conoscerlo, si impara che gesti simili sono dimostrazioni di affetto e confidenza. Soltanto ai prediletti mister Reitano riservava le sue scoppole di incoraggiamento.

    Mi tocco la nuca, quasi sorrido all’idea. I polpastrelli trovano il velo di sudore sulla pelle, lo stesso che ha bagnato il colletto della maglia.

    Riaffondo, sento che sto mi inabissando di nuovo.

    Mentre la bocca dello stomaco mi si contrae, costringo le gambe a sorreggermi, apro lo sportello nascosto dietro il vetro sopra il lavandino. Tra aspirine, Neoton, Mepral e Orudis, intercetto la confezione immacolata di Paxil. La afferro, torno al borsone e la infilo in una tasca laterale, lì dove conservo anche l’Halcion. Senza il primo ormai mi è impossibile restare sveglio e in me, senza il secondo dormire è diventata un’utopia.

    Ho appena tirato la zip che già sento l’ansia crescere, i battiti scalpitare in preparazione di una nuova galoppata.

    Perdo la mia battaglia prima ancora di essermi rimesso in piedi. Apro di nuovo il borsone, tiro fuori un blister e mi faccio cadere due pillole sul palmo, prima di infilare le restanti nella tasca della felpa. Il dottor Reale ha detto di andarci piano, di attenermi alle sue prescrizioni, ma lui non ha idea di come mi sento.

    Getto le pasticche in bocca e le ingoio senz’acqua.

    È difficile ammettere che è l’unico modo per sentirmi meglio, per ricacciare indietro i tremori, il sudore freddo, le fitte.

    All’inizio ne bastava una, poi ho continuato con due, tre al giorno. Adesso sto davvero esagerando.

    Mi dico che è perché sono ancora qui, dove non voglio trovarmi, in mezzo a tanti che mi giudicano senza avere il coraggio di dirmelo in faccia. Alla mercé di commenti pretestuosi di chi della mia vita non sa niente, ma pretende di poter sputare sentenze.

    Pochi minuti e sto meglio, il tremore è svanito. L’ansia è lì, in fondo alla gola, un lieve fastidio per ora tollerabile.

    È ora di andare.

    Lascio il bagno, percorro il corridoio in penombra. Delle foto appese, di cui distinguo a malapena le cornici, conosco ogni dettaglio. Quella lì, quella orizzontale che pende un po’ a destra perché il chiodo è piantato male, è la mia squadra. Persino ad occhi chiusi potrei dire i nomi di tutti, dal primo in alto a sinistra, in piedi, all’ultimo, accovacciato in basso a destra. Io sono in piedi al centro, guanti ancora indosso e capelli tenuti dalla fascetta. Ho un braccio sulle spalle di Antonio. L’altro, il destro, su quelle di Mario.

    Mario.

    Non resisto. Stacco la fotografia dal muro e la porto sotto il fascio luminoso del lampione. Il sorriso di Mario. Malgrado le pillole mi abbiano calmato, sento un masso nello stomaco. Farà male così per sempre?

    Sposto lo sguardo. Corre sui volti sudati ed entusiasti dei miei compagni e mi soffermo su Salvo, il capitano, inginocchiato al centro con le dita puntate alla medaglia appesa al collo. Quanti anni fa è stata scattata questa fotografia?

    Tre. Tre, e ne sono sicuro perché è stata in quell’occasione che Mario ha vinto il titolo di capocannoniere e, dopo aver rotto le fila, come diceva sempre il mister Reitano, al termine della foto di rito siamo andati a festeggiare, tutti con la medaglia al collo.

    La stessa che ho infilato nel fondo del borsone.

    Bei tempi.

    È assurdo come i momenti migliori della vita possano diventare ricordi tanto dolorosi. Chissà, magari è per via della consapevolezza che certi istanti non torneranno più? O magari si è convinti che non capiterà un’altra volta di sentirsi tanto bene, tanto sereni, tanto in pace, e ci si rode perché all’epoca si era talmente spensierati da non rendersi nemmeno conto di come la sorte ti stesse sorridendo, ammiccando come una madre gentile? Ti capita di vivere un momento bello, un altro giorno felice come quell’ultima partita di campionato di tre anni prima, e sei tanto concentrato sul passato da non renderti conto di stare accumulando ricordi che, in futuro, ti rimprovererai di non aver goduto appieno.

    Sto vivendo un giorno felice, adesso? Domando al me stesso più giovane che mi sorride dalla fotografia.

    Non mi pare proprio, eppure sento che è una svolta. Non so verso dove, certo. Su un poster incollato a chissà quale parete, ho letto una frase: il punto di non ritorno è quando in un viaggio è più conveniente andare avanti che tornare indietro.

    E io ormai sono andato troppo oltre.

    Lo sapevo, ne ero cosciente quel giorno sul campo, prima della punizione, e ne ero ancora più consapevole mentre l’acqua frizzante mi pizzicava la gola un attimo prima che aprissi la bocca e dessi il via alla seconda conferenza stampa che mi avrebbe cambiato la vita.

    Riappendo la foto, orgoglioso della forza d’animo ritrovata, mando giù un’altra pillola e mi getto la sacca sulla spalla.

    È più conveniente andare avanti che tornare indietro, mi ripeto. E mi sforzo di farne il mio mantra.

    Decido di scendere a piedi, e ho subito il fiatone, le vertigini. Okay, sono settimane che non mi alleno come si deve né mi concedo una corsetta di quelle che ti fanno sentire in pace col mondo. Le medicine? Qualche effetto collaterale?

    No. Il poco allenamento e l’ansia, ecco i veri responsabili.

    Però, diavolo, è in discesa! E poi nello spogliatoio ero Mister Steel, l’uomo con polpacci e quadricipiti d’acciaio.

    Dubito di aver mantenuto il titolo, dopo quanto è successo, rifletto con il borsone che mi sbatte sulla schiena al ritmo dei miei passi.

    Riesco a scrollare una spalla al pensiero, ma non a sorridere. Una cosa per volta.

    Il condominio è deserto, persino i sospiri rimbombano come in una chiesa. Non ci sono universitari che fanno casino, né giovani coppie senza figli che possono permettersi il lusso di uscire e tornare tardi la sera. Al pianerottolo del secondo piano passo davanti alla porta della signora De Nicola. Poverina, è morta il mese scorso, lasciando figli adulti, nipoti e Mimì, la gatta bianca con una macchia rossa sulla schiena che mi ricorda tanto un mantello. Nei miei giorni di reclusione a casa la sentivo piangere. Poi sono venuti a prenderla e da allora anche quell’unico, lamentoso suono che mi faceva compagnia nelle notti in cui il sonno si rifiutava di venirmi a trovare, se n’era andato.

    Spero che tu stia bene, Mimì, dovunque ti abbiano portato.

    A quest’ora dormono tutti, mi sembra quasi un peccato aver acceso la luce della scala, visto che i restanti appartamenti sono abitati da famiglie: genitori che la mattina vanno a lavorare e trascorrono il resto della giornata a badare ai figli, accompagnarli in piscina, a danza.

    Mi ricordano la mia infanzia, quando papà usciva di casa prima che mi svegliassi e ritornava mentre lottavo con la mamma per non infilarmi sotto le coperte. E forse è proprio per i ricordi che ho scelto una casa in un complesso

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