E-book158 pagine2 ore
Amor
Di Eva Clesis
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Info su questo ebook
Lucia è sopravvissuta a un grave incidente e a un amore interrotto. Traduttrice e scrittrice, vive in un piccolo monolocale romano, isolata dal mondo e assecondando una stretta routine che si è imposta per superare dolore e depressione. Quando per errore riceve la
telefonata di un uomo che la scambia per l’amore mai dimenticato, la voglia di confidarsi con uno sconosciuto enigmatico e affascinante la spinge a fingersi la persona che lui cerca. Questa piccola bugia avrà conseguenze impreviste e spingerà Lucia a rompere il suo isolamento e ogni difesa per sfuggire a un’assurda caccia all’uomo, sullo sfondo di una città grande, bella e spietata: Roma.
telefonata di un uomo che la scambia per l’amore mai dimenticato, la voglia di confidarsi con uno sconosciuto enigmatico e affascinante la spinge a fingersi la persona che lui cerca. Questa piccola bugia avrà conseguenze impreviste e spingerà Lucia a rompere il suo isolamento e ogni difesa per sfuggire a un’assurda caccia all’uomo, sullo sfondo di una città grande, bella e spietata: Roma.
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Anteprima del libro
Amor - Eva Clesis
* Le frasi riportate in asterisco sono di Samuel Beckett, da Cascando e L’ultimo nastro di Krapp.
Parte prima
Quella cipolla sta nel mio surgelatore da un anno, ormai. Dovrei buttarla, assieme alle tre bottigliette di plastica senz’acqua che mi sono rimaste in frigo e al cartone della pizza di ieri appoggiato sul coperchio della pattumiera. Ma ho ancora la borsa a tracolla e la busta dei documenti in mano, di cui vorrei sbarazzarmi oltre ogni cosa, così chiudo il surgelatore e mi guardo attorno.
Come se fossi in un’altra casa, delusa di non esserlo.
Non ricordo più che ci sto a fare qui, in questo punto preciso dello stanzone, e perché fosse così importante che una volta rientrata mi dirigessi a ispezionare il surgelatore e il frigo.
Quanto tempo sarà passato da quando ho aperto la porta? Pochi minuti?
Finché non mi giro e mi accorgo che c’è uno schizzo di caffè sul fornello.
Cerchi qualcosa che non quadra e se ti ci impegni la trovi pure.
Quindi una macchia è sfuggita alle pulizie giornaliere e me ne accorgo soltanto adesso. Stringo gli occhi a fissarla. Mi mette ansia constatare che esiste, che è là come io sono qua, che non sto facendo ancora niente per rimuoverla. Poso la busta e comincio a rimproverarmi perché se c’è sporcizia in casa vuol dire che sto peggiorando, senza ricordarmi che faccio lo stesso pensiero ogni volta. Abbasso gli occhi fino a terra.
Le pulizie giornaliere da qualche tempo includono la detersione dei pavimenti con un prodotto che sgrassa senza rovinare le piastrelle, ma le lucida, e secondo l’etichetta tiene lontani gli insetti che strisciano.
Ho ancora la borsa e una brutta sensazione addosso.
Della sensazione potrei sbarazzarmene all’istante uscendo a buttare il cartone, le bottiglie e la cipolla in scatola per poi rientrare e passare sulla macchia di caffè una spugnetta umida con una goccia di detersivo per i piatti.
Anche il detersivo per i piatti sgrassa e lucida. È al limone.
Ma il fatto è che non voglio uscire e incontrare il portiere un’altra volta, preferirei aspettare il momento in cui staccherà per il pranzo, tra mezz’ora. Dal piano in cui abito, il primo, lo sento ancora ciarlare con la dog-sitter della scala B, come quando li ho incontrati. Mi scuoto, butto la borsa sul divano e prendo la spugnetta, ci metto un minuto a pulire i fornelli. Passerò i restanti ventinove dietro la porta, con la busta di spazzatura in mano e le orecchie tese a captare il segnale di via libera, lui che chiude il gabbiotto a chiave e scende nel suo appartamento al sottoscala. Non ho neanche aperto la busta, tanto per verificare che i documenti che contiene sono ciò che temo.
Torno ad aprire il surgelatore. Prendo la scatola di cipolla e mi accorgo che dentro ce n’è ancora. Lascio la scatola sul piano cottura appena pulito, apro una busta di plastica e ci ficco dentro il cartone della pizza e le due bottiglie. Il cordless squilla mentre sto così, a fare la lady Macbeth con una busta in mano. Mi darebbe fastidio poggiare a terra il sacco di spazzatura con il cartone della pizza, perché il pavimento è pulito e il sacco è di sicuro più sporco. Allora apro la porta, poso la spazzatura sul pianerottolo e mi sfilo le scarpe, lo faccio senza pensare che poi dovrò ridiscendere. Dal giorno dell’incidente indosso solo scarpe ortopediche con tomaia elasticizzata e fondo corretto. Ne ho due paia, uno nero, l’altro color castoro, mi sono costate quanto la caparra del mio monolocale e il risultato estetico è pessimo, perché è vero che mi raddrizzano la postura, ma mi fanno le gambe più tozze, l’ho scoperto scorgendo la mia immagine riflessa sulle vetrine mentre camminavo per strada. Una volta avevo belle gambe, forse le ho tuttora, ma con queste scarpe nessuno potrebbe dirlo.
«Pronto?»
Non mi sono ancora levata la giacca. Dall’ufficio inabili al lavoro hanno tentato di vendermi una polizza, stamattina, poi tornando a casa il postino mi ha fermato e mi ha consegnato la busta con i documenti. Sa già che è per me. Sono io la ragazza dell’incidente, e ormai lui o il portiere mi mettono da parte ogni lettera con mittenti di avvocati, medici, ospedali, enti vari e assicurazioni.
Al telefono una voce maschile sta mormorando qualcosa che non capisco, le chiedo di ripetere. Non so cosa vuole, ma so di chi è. È di uno che ha sbagliato numero.
Per colpa del mio numero di telefono ricevo anche dieci chiamate al giorno di gente che vuole sentire qualcun altro. La compagnia dei telefoni mi ha dato un numero a cinque cifre, mentre i numeri più comuni a Roma ne hanno sei o sette. Basta saltare una delle sei cifre e per errore arrivi a cinque e stai chiamando me. Un’infinita possibilità di combinazioni fa sì che il telefono mi squilli ogni due o tre ore eccetto la notte, quando grazie a Dio non sbaglia più nessuno.
Il problema non sono loro, ma io, una delle persone più sole sulla faccia della Terra. Vivo da eremita a Prati, che a Roma è un ottimo quartiere per chi vuole starsene per conto proprio pur abitando in centro, perché ha ancora una sua dimensione privata, direi borghese. Abito in un monolocale di via Catullo, distante cinque fermate di bus dalle case editrici per cui lavoro come traduttrice dall’inglese. Quando sono in vena esco, arrivo a piedi fino a piazza Cavour e mi siedo su una panchina a osservare la chiesa valdese. Non ho amici, tutt’al più conosco un sacco di gente con cui sono abile a scambiare convenevoli. Lavorando da casa non ho colleghi, e in quanto a sfera sentimentale un tempo mi lasciavo adottare dall’amante di turno e dalla sua società. Fino a trent’anni la situazione non mi ha quasi pesato, anzi, era un po’ come scegliere se stessi a scapito degli altri che non sopportavo. Per capire come funzionano i tuoi simili li devi frequentare, ci devi stare in mezzo in modo assiduo, devi dissimulare, scendere i gradini della tua torre d’avorio fino a toccare un terreno comune al loro, oppure il loro, che è peggio, e io non sono mai stata capace di farlo senza che me ne sfuggisse il senso, era come dover assistere alla commedia di una teatrante. Invece la compagnia di me stessa mi divertiva, e nel mio tempo libero ci guardavamo un film.
Poi, in un forum di traduttori, ho conosciuto mio marito e abbiamo iniziato a scherzare e scambiarci messaggi.
Carlo. È stato il caso. Voleva tradurre da solo le schede tecniche di una filiale all’estero per far risparmiare soldi alla sua e impressionare il capoufficio. E se c’è un posto dove risparmiare soldi ti fa fare bella figura con il capo, quello è un’agenzia di assicurazioni. Provai ad aiutarlo, per una simpatia istintiva, credo, e quando iniziammo a chattare trovai così tanti spunti di conversazione per intrattenerlo che se le mie parole fossero state proiettili l’avrei crivellato. Lui non si curava di mostrarsi colpito, gli piaceva raccontarsi, e in fondo penso che quando in amore si è corrisposti tutto accade molto facilmente, e felicemente.
La prima volta che ci siamo visti io ero appena scesa dal treno, lui mi veniva incontro sul binario: mi impressionò la sua altezza e mi misi in punta di piedi, nonostante i tacchi, per salutarlo con un breve abbraccio. Carlo invece mi sollevò appena per i gomiti e mi diede un piccolo bacio sulle labbra. Facilmente e felicemente, l’amore non tiene pensieri.
Dopo il primo week end insieme mi sono trasferita da lui a Roma: all’inizio ho fatto come facevo con i miei amanti, e per tre anni Carlo è stato la mia famiglia. Adesso sono di nuovo sola, ma dopo l’incidente la cosa ha iniziato a pesarmi per la prima volta. Invecchiando ho sviluppato una strana morbosità nei confronti di ciascun mondo altrui, fino a ritrovarmi a rimpiangere passati in cui non c’ero e geografie che non ho mai visto né ho avuto voglia di vedere. Vacanze di gruppo a Capoverde, la notte di san Lorenzo sull’isola d’Elba, la settimana di mare a Sharm, lo shopping compulsivo a Manhattan.
Tra quattro giorni identici a questo farò trentacinque anni, e ci sono momenti in cui parlo al muro per confermare a me stessa che possiedo ancora una voce. O, come in questo caso, tentando di conversare con chi non mi cerca.
I miei interlocutori casuali.
Che vogliano la cugina, il fedifrago che non può parlare perché sua moglie è in casa, il professore, la psicologa, il consolato o l’ente di previdenza sociale, io cerco di argomentare sempre e coinvolgerli in una conversazione che spesso li sfibra e confonde. Poveretti. Con taluni mi siedo a tavola, con altri trovo persino il tempo di accendermi una sigaretta, mi rallegrano perché spezzano la monotonia del mio silenzio. Da parte mia li tratto con una cortesia estrema, abusando di formule affettate come lei non mi disturba affatto
, spero di esserle stata d’aiuto
, sarebbe così gentile da
e trovandomi incredibilmente giusta e amorevole nella mia scelta lessicale, come una principessa in trappola che il mondo deve ancora scoprire.
La realtà è che con gli estranei do il mio meglio, soprattutto se so che rimarranno tali: so che non li sopporterò a vita e cerco di lasciar loro un buon ricordo di me, mentre io avrò avuto una buona impressione di loro, tutto sommato migliore di quella che ho avuto conoscendo la maggior parte delle persone.
Ricordo sempre un ragazzo con cui uscii quando avevo diciotto anni e vivevo ancora a Caserta. Di sicuro ci uscii per dimenticare qualcuno che ora infatti non ricordo, in una sera di fine agosto. Mi disse che mi avrebbe portato a ballare, invece non so come finimmo al cinema a guardare un film su Pearl Harbour, con lui che provava a stringermi e toccarmi nella sala deserta in cui assistevamo all’esplosione della bomba. Poi ci parcheggiammo in un american bar. Non ero mai stata in un american bar
, all’epoca era una novità che non avrebbe avuto successo: non a Caserta, perlomeno.
Ci accolse un baraccone desolato, con le stampe dei divi anni Cinquanta, le chitarre e i finti dischi d’oro appesi alle pareti di legno. Una cameriera in divisa giallo limone, che in teoria avrebbe dovuto servire ai tavoli schettinando e che masticava una gomma prese le nostre ordinazioni. Quando se ne andò in cucina rimanemmo soli, io nel mio abito striminzito con i lustrini sulle spalle, circondati da foto di divi, a rimpallarci il nostro disagio.
«Mi hanno detto che sei un tipo brillante», disse lui. «E allora perché non mi fai ridere? La sai una barzelletta?»
Me ne stetti in silenzio, gli occhi sul menù, anche se avevamo già ordinato. Non avevo mai sentito parlare di questi piatti, e perché avevano scritto ribs e non costolette? Pensai che i ragazzi non li capivo, e avrei dovuto dirgli che mi aveva ingannato, che saremmo dovuti andare a ballare, che mi davano fastidio i suoi occhi sul mio seno. Ma mi misi a cantare: «If you’re so funny then why are you on your own tonight?»
Con una vecchia nonna di Pomezia che cercava sua nipote sono arrivata a prendere il caffè insieme. Oddio, sarebbe disonesto raccontarla così, il caffè l’avevo già preparato, dovevo solo metterlo sul fornello. Ma la signora continuava a insistere che le passassi sua nipote, perciò ho dovuto prenderla per mano, intendo dire metaforicamente, visto che nella mano libera dal cordless avevo l’accendigas, e spiegarle che aveva fatto cinque numeri al posto di sette. Mi disse che non esistevano cinque numeri nel Lazio e da lì iniziammo a discutere. Si convinse alla mia seconda tazzina.
Questo invece non so quanto tempo mi prenderà, perciò me ne vado direttamente a letto e mi stendo. Abito in un buco di casa, l’ho scelta piccola apposta, per compensare con lo spazio ridotto la mia menomazione. Dal letto al fornello della cucina sono due passi. Devo ancora mangiare e l’uomo che ha sbagliato numero adesso sta piangendo. «Mi dispiace», fa in lacrime, «ho appena saputo».
La curiosità mi ammazza viva. Non voglio compiacermi del dolore di uno sconosciuto, vorrei che la telefonata durasse il tempo di capire di cosa stia parlando. Il portiere si sta ancora intrattenendo con la dogsitter. Per quale motivo
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