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Il passato è dispari
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E-book279 pagine4 ore

Il passato è dispari

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Info su questo ebook

Un romanzo noir su un momento della vita che, prima o poi, tutti dobbiamo affrontare: quello dei conti con il nostro passato.
Perché il passato è una droga, un vortice, un canto delle sirene che ti attira e ti fa guardare indietro, una trappola.
Il passato è dispari.”

di Eros Bellistracci
L’ispettore Matteo Molinari ha un’ossessione per i numeri pari e una vita che sembra procedere nella direzione sbagliata.
Un pirata della strada, una giovane in coma e l’incontro inaspettato con la bella Sarah gli danno l’occasione per riscattarsi, ma un lutto riapre ferite antiche e Molinari dovrà scavare nel proprio passato per mettere le cose in pari.
“Perché il passato è una droga, un vortice, un canto delle sirene che ti attira e ti fa guardare indietro, una trappola.
Il passato è dispari.”

Un romanzo noir su un momento della vita che, prima o poi, tutti dobbiamo affrontare: quello dei conti con il nostro passato.
Si può abbassare la testa e tirare dritto, venirne braccati fino all’ultimo dei nostri giorni, oppure darci un taglio netto, magari con un rasoio ben affilato.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2021
ISBN9788833285467
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    Anteprima del libro

    Il passato è dispari - Eros Bellistracci

    binari.

    1. Amnesia

    Domenica, tarda mattinata.

    Mi sveglio ma non apro subito gli occhi, aspetto qualche minuto. Ci vuole una certa disciplina per riuscirci, perché l’istinto è di aprirli. Per fortuna, però, in sciocchezze come questa mi sono allenato per anni e sono un maestro.

    Già ai tempi della scuola, alla vigilia dei compiti in classe, quando la paura e il senso di colpa per non aver studiato mi riempivano la testa e svuotavano lo stomaco, avevo escogitato un metodo per mettermi a letto accompagnato solo dalle fantasie più dolci, cancellando tutte le inquietudini.

    Il suggerimento me lo aveva dato la mamma, grazie alla sua ossessione per l’igiene orale. Voleva che lavassi i denti tre volte al giorno e che li spazzolassi per almeno tre minuti guardando la lancetta lunga dell’orologio appeso sopra lo specchio del bagno. Se capitava di essere in un bagno senza orologio, allora bastava contare col pensiero fino a centottanta, meglio ancora duecento per essere sicuri di non sbagliare.

    Se prima di addormentarmi volevo sognare ciò che più desideravo, era necessario innanzitutto cancellare le apprensioni. Decisi, quindi, di farlo la sera, nei tre minuti in cui mi lavavo i denti.

    Spazzolavo e mi costringevo a pensare intensamente a quello che mi spaventava. Mi concentravo sui pensieri spiacevoli, su ciò che non mi avrebbe fatto dormire: un’interrogazione, gli spintoni di Simone Cupi negli spogliatoi della palestra ma, soprattutto, l’indifferenza di Francesca.

    Tre minuti per preoccuparmi del giorno dopo, avere paura, comprimere tutto il nero e condensarlo in uno sciroppo denso e disgustoso da sputare nel lavandino. Tre minuti per lavare la coscienza con uno spazzolino.

    Dopo mesi di tentativi divenni padrone della tecnica, un automatismo che si attivava semplicemente inserendo lo spazzolino in bocca. I rimorsi, i sensi di colpa, quella sensazione latente di essere fuori posto, inadeguato, tutto veniva concentrato in un unico, grande malessere della durata di tre minuti che, preso nella rete, veniva schiumato, rimosso e risciacquato. E con in bocca il sapore di menta, ero pronto a sdraiarmi e immaginare di essere un supereroe, oppure di baciare Francesca, la più bella della classe.

    Tre minuti. Il numero tre, anche se dispari, è ammesso per lavarsi i denti. Anche i multipli di cinque vanno bene, per esempio per il volume della televisione e dell’autoradio. Quindici, venticinque, trentacinque, sono dispari ma rotondi, senza spigoli. Il tre e i multipli di cinque, basta. Queste sono le uniche eccezioni, tutto il resto deve essere pari.

    I numeri dispari mi fanno lo stesso effetto di un quadro storto alla parete, devo metterlo a posto.

    Ognuno convive con le proprie manie e ossessioni. C’è chi evita di calpestare le righe sull’asfalto; chi sulla propria scrivania ordina tutto in simmetrie perfette e ancora chi preme il tubetto di dentifricio con metodo, dal fondo, senza accartocciarlo. Io ho la mania dei numeri pari, ho bisogno di equilibrio. Di mettere le cose in pari.

    Un’altra mia piccola mania è, come adesso, starmene un po’ a letto con gli occhi chiusi, immobile ad ascoltare e annusare l’ambiente intorno, prendendo contatto col mondo poco alla volta come un pulcino appena uscito dall’uovo.

    Osservo l’interno rosso delle mie palpebre, un magma di macchie liquide che cambiano continuamente forma: il sole di luglio, già alto, picchia su Torino e mi colpisce in faccia attraverso la finestra aperta.

    Dalla strada salgono i rumori tranquilli della domenica mattina; niente clacson, soltanto la frenata del tram che passa su Corso Belgio col suo ripieno di vite solitarie e sciami di adolescenti diretti verso il McDonald’s di piazza Castello. Quando il tram riparte sferragliando sui binari, emergono le voci dei vecchi dal bar sotto casa. Stanno tutto il giorno là fuori, a fumare una sigaretta dopo l’altra e a sputare previsioni sportive con le bocche impastate di caffè.

    Apro lentamente gli occhi e appena mi sollevo sui gomiti, due enormi martelli cominciano a picchiarmi sulle tempie e mi sembra di avere in bocca una sciarpa. Mi tiro a sedere sul letto alzando il cuscino contro il muro. Lo stomaco gorgoglia e lungo l’esofago sale piano una bolla d’aria che si libera nella camera e mi lascia in bocca il gusto di rum.

    Cominciamo bene, penso, allungandomi verso il comodino. Ho la vista annebbiata e afferro il bicchiere pieno d’acqua. Mi rinfresco la gola, ieri è stata una serata pesante.

    Chiudo di nuovo gli occhi, ho il sole in faccia e fa caldo.

    Potrei abbassare le tapparelle e farmi qualche altra ora di sonno, oppure abbandonare il letto, prendere due aspirine e fare colazione. In frigo ho anche il succo di pera, fresco…

    «Bevi il succo di pera», grida qualcuno in strada.

    Poi ripete e capisco meglio.

    «Ho detto che viene brutto, stasera.»

    «Brutto? Qui c’è scritto il contrario.»

    Riconosco la voce del giornalaio, uno scambio di opinioni con i vecchi del bar, le previsioni meteo contro i dolori alle ossa.

    E succo di pera sia! Sto raccogliendo le forze per alzarmi quando improvvisamente avverto una presenza. A pensarci bene, l’ho percepita da subito ma non ci ho fatto caso, un soffio tra il mal di testa, i rumori della strada e il brontolio dello stomaco. Un soffio ritmato e regolare, come un respiro.

    Spalanco gli occhi e mi volto, cauto; dal lenzuolo bianco spuntano due piedi piccoli, con le unghie smaltate color verde menta. Le dita sono proporzionate e ben curate, la pelle sul collo del piede e sulla pianta è chiara e levigata. Mi piace chi si prende cura dei propri piedi.

    Rifletto un attimo, sollevo la mia metà di lenzuolo e vedo un salsicciotto inguainato in un preservativo raggrinzito e secco.

    La donna è sdraiata su un fianco, ha il corpo pieno e delle curve che mi accendono in testa fotogrammi della notte passata. Capelli biondi dai riflessi ramati sono sparpagliati sulla schiena nuda.

    Tiro lentamente il lenzuolo fino a scoprire un tatuaggio, appena sopra i glutei; tre piccole impronte, come se un gatto con le zampe sporche d’inchiostro le fosse passato sull’osso sacro. Le abbasso un poco le mutandine e accolgo, felice, lo svelarsi della quarta zampina. I conti tornano.

    Sento crescere un’erezione e la plastica tirare, poi un guizzo dal basso ventre, una catapulta sganciata che alza con un colpo il lenzuolo. Giusto un attimo e parte un altro colpo di grancassa, su e giù.

    Decido di darmi una sistemata veloce prima di svegliarla. Non ricordo molto della notte scorsa ma ho intenzione di rinfrescarmi la memoria.

    Mi sfilo piano dal letto e trascino i piedi in bagno, mi lavo velocemente e raccolgo un paio di pantaloncini accanto al contenitore dei panni sporchi, un canestro mancato di pochi giorni fa. Mi sento un po’ così, un oggetto che dovrebbe essere da un’altra parte e invece resta a terra, sporco e stropicciato. Entro in cucina con la sensazione di avere in bocca un pugno di sabbia. Butto due aspirine in un bicchiere d’acqua, risciacquo una tazza e ci verso il succo di pera fresco. Bevo d’un fiato la medicina frizzante e poi vado sul balcone a sorseggiare con calma il succo.

    Appoggio il culo alla ringhiera e osservo. In strada, un uomo apre i cassonetti della spazzatura e li ispeziona con l’aiuto di un manico di scopa. Dall’altra parte c’è il cinema con le locandine dei film in programmazione.

    Sento il sole bruciare sulla nuca e, dai giardini pubblici, il profumo di erba appena tagliata. Socchiudo gli occhi e inspiro dal naso. Prima un capogiro e un po’ di nausea, poi parte il filmino scolorito di me in bici sulle strade di campagna in Emilia-Romagna, in vacanza dai nonni: stesso caldo sulla testa, stesso profumo, ma niente nausea.

    La prima volta che ci andai ero ancora nella pancia di mia madre e mia sorella Teresa non era neanche un progetto. I nonni ci hanno visto crescere per un mese ogni anno, tutti gli anni, fino all’ultima estate, quella del 1985, quando la vita mi avrebbe lasciato sulla pelle i suoi primi segni profondi, cominciando a trasformarmi in ciò che sono oggi. Avevo tredici anni. D’altra parte, cosa potevo aspettarmi da un numero come il tredici?

    «C’è una donna nel tuo letto», mi ricorda una voce nella testa.

    Il campanile della chiesa batte un colpo, è l’una. L’elastico dei ricordi teso indietro nel tempo si sgancia e mi riporta rapido al presente, a questo momento. La strada di campagna ritorna balcone, la bicicletta rimpicciolisce nella pianta di basilico bruciata dal sole e stringo nella mano una tazza vuota. Cenerentolo da quattro soldi.

    Mi schiarisco la gola e l’uomo che fruga nella spazzatura si blocca e alza lo sguardo al balcone. Rientro e mi siedo al tavolo della cucina, sfido la nausea e accendo una sigaretta, poi raccolgo nella memoria, con ordine, i cocci di ieri sera.

    Si chiama Sarah. Claudio è arrivato all’aperitivo con lei e un’altra ragazza, Antonella. Lavorano tutti e tre insieme, in un’agenzia di viaggi in centro.

    Claudio è mio amico fin dai tempi delle elementari, quando saltavamo nelle pozzanghere e rompevamo i vetri col pallone. Ha raggiunto i quarant’anni mantenendo lo stesso fisico asciutto e nervoso di allora, con l’aggiunta di qualche capello grigio e un paio di rughe ai lati degli occhi. Ha il pregio di non recitare la parte del giovane, di vestire con disinvoltura la sua mezza età.

    Io, pur essendo suo coetaneo, ho la barba lunga e sembro più vecchio – lo ripete sempre anche Anna – ma la barba e i baffi mi fanno sentire protetto. Ancora di più quando posso indossare gli occhiali da sole, così la maschera è completa.

    Sarah si è presentata con un sorriso aperto.

    «Sarah con l’acca finale», ha specificato tendendomi la mano. «Che poi cosa me ne faccio dell’acca? Ti serve un’acca, Matteo?»

    Mi piacciono le persone che memorizzano subito il mio nome, che parlandomi lo ripetono, creando dal nulla un contatto, un ponte che io in genere trovo sempre troppo faticoso costruire. Sarah, invece, si è sporta subito da quegli incantevoli occhi verdi, piena di curiosità, come se al mondo chiunque potesse essere interessante, donarci qualcosa o ispirarci, come se non esistessero gli imbecilli e i rompicoglioni.

    Il suo sguardo inflessibile di chi non si nasconde mai, così diverso dal mio, mi ha dato subito l’impressione che in lei ci fosse qualcosa di molto forte, prezioso e difficile da raggiungere.

    «Penso che l’acca ti doni molto», le ho risposto, impacciato.

    Sarah era un metro e sessantacinque di determinazione compressa, curve pronunciate ma il corpo sodo e muscoloso di chi ha da sempre praticato sport: tanti anni di nuoto, da ragazzina, judo. Indossava dei pantaloni bianchi attillati che le arrivavano sopra le caviglie, dei sandali scuri col tacco alto e una camicetta leggera, nera, con un paio di bottoni slacciati. Sul petto spiccava il cuoricino rosso di un pendente Swarovski.

    L’altra ragazza, Antonella, era alta e slanciata, più appariscente di Sarah, più attenta agli sguardi; capelli corti e look aggressivo. Sarah era più discreta, parlava a voce bassa, rideva spesso ma senza esplosioni, rispondeva svelta e ironica a ogni mia piccola provocazione e manteneva un atteggiamento caldo ma mai ambiguo. Mi è piaciuta subito.

    Seduti al tavolino all’aperto di un bar in piazza Vittorio, abbiamo bevuto e scherzato parecchio. Il sole stava sparendo. Oltre il Po, la chiesa e le colline avevano come sfondo un cielo dalle nuvole in fiamme e l’afa estiva era mitigata da una brezza inusuale.

    A metà serata Antonella ha ricevuto una telefonata e con una smorfia ha annunciato che il suo ragazzo ci avrebbe raggiunto: era stato a guardare con gli amici una partita amichevole della sua squadra del cuore. Giusto il tempo di fumare una sigaretta e le carte in tavola sono cambiate.

    Pochi minuti dopo, infatti, è arrivato Angelo, con una maglia a strisce bianche e nere e la dentatura perfetta che ostentava in ripetuti sorrisi. Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto fargli i denti come la maglia, dipingendo delle caselle nere su quel sorriso bianchissimo. Si muoveva in continuazione, saltellava col culo come se la sedia scottasse, sembrava un cane cui si mostra una pallina da tennis. Insomma, così al volo non l’ho trovato molto simpatico.

    Ha alzato un braccio e schioccato le dita per ordinare un whisky con ghiaccio alla cameriera. Poi, con un gesto effeminato, ha cominciato ad aggiustarsi i capelli dietro la nuca, ripetutamente, e quelli ricadevano ogni volta nello stesso punto, sul bordo del colletto.

    «Dovrebbe tagliarli…» mi ha sussurrato Sarah all’orecchio, «li vuole lunghi ma non li sopporta.»

    «Io avevo lo stesso problema da ragazzino», ho bisbigliato a mia volta, «ma un barbiere lo risolse con il doppio taglio, hai presente?»

    Sarah ha scosso la testa.

    «Un po’ lunghi davanti ma rasati sopra le orecchie e dietro il collo. È anche conosciuto come scalino o, più volgarmente, alla cazzo di cane!»

    Sarah è scoppiata a ridere e io ne ho approfittato per appoggiarle una mano sulla coscia. Il quarto rum mi aveva scaldato.

    «Il vero nome, però, è doppio taglio», ho continuato, disinvolto, «e quel barbiere mi disse che risolve tutti i problemi, mette d’accordo tutti!»

     «Doppio taglio un corno», mi ha sussurrato all’orecchio. «Lui dovrebbe tagliarsi i capelli e tu la mano. Così risolviamo tutti i problemi, no?»

    Mi aveva congelato e ho dovuto ricompormi. Ho ritirato il braccio come un serpente che rientra nella tana.

    Angelo si è acceso una sigaretta e ha rotto quel momento di silenzio.

    «Allora, qualcuno di voi ha visto la partita? Sarà stata anche un’amichevole, ma che spettacolo… Tre a zero abbiamo vinto», e ha alzato le braccia al cielo.

    «Sì, campioni del mondo», ho risposto con aria scontrosa, e quelle sono state le uniche parole che gli ho rivolto.

    Per mia fortuna Claudio è sempre stato un grande appassionato di calcio e non si è dovuto sforzare più di tanto per assecondare la conversazione sportiva. Con lui e Angelo che discutevano animati e Antonella risucchiata dallo schermo del proprio cellulare, io, mantenendo le dovute distanze, ho parlato a lungo con Sarah.

    È stato facile come andare in bici lungo una leggera discesa, il vento in faccia col mento basso sul manubrio. Ogni tanto lei, improvvisamente, svoltava, deviava su strade sterrate, ma io la seguivo docile. Decideva lei il ritmo e l’itinerario e alla fine di ogni sentiero c’era sempre una nuova discesa. Poco prima che si esaurisse l’interesse saltava senza preavviso a un altro argomento.

    Nel frattempo, i bicchierini vuoti di rum si sono accumulati e il posacenere si è riempito di mozziconi schiacciati. La luce delle candele sfarfallava sui tavolini e le casse nebulizzavano la voce di Chet Baker.

    A un certo punto, mi sono accorto dell’enorme quadrante dell’orologio di Angelo. Ubriaco e di nuovo audace, ho accostato la mia sedia a quella di Sarah e le ho appoggiato la mano sul ginocchio.

    «Che cazzo ha sul polso, una pizza?» le ho detto all’orecchio.

    Lei ha lanciato uno sguardo dall’altro lato del tavolo e ha cominciato a sghignazzare, prima piano, poi sempre più forte. Proprio in quel momento Angelo ha alzato il braccio per guardare l’ora e Sarah, fuori controllo, ha urlato: «Una quattro stagioni al due.»

    Ha battuto la mano sul tavolino rivoltando il posacenere e facendo cadere due bicchieri. A quel punto ho rotto anch’io gli argini e ho riso fino alle lacrime, con Claudio che chiedeva: «Che cazzo ridete? Ma siete fuori?» e il belloccio che ci fissava serio e spaesato, con una punta di sospetto nello sguardo.

    Erano le due passate quando ho proposto di ordinare un ultimo rum. Sarah ha immediatamente sollevato il suo bicchierino mentre gli altri tre hanno colto l’occasione per salutare e incamminarsi verso le auto.

    Claudio mi ha appoggiato entrambe le mani sulle spalle, riducendo gli occhi a due fessure.

    «Buona nottata…» ha mormorato, e ha inclinato la testa in maniera plateale in direzione di Sarah.

    Quando il locale stava ormai per chiudere, mi sono offerto di accompagnarla a casa. Lei mi ha guardato con l’aria spavalda, come a dirmi Falla finita!, così ho immediatamente ritrattato.

    «Casa mia è a cinque minuti da qui.»

    Sarah si è messa a ridere e ha estratto l’ennesima sigaretta dal pacchetto.

    «Si può fumare, sulla tua macchina?»

    «Se aspetti giusto il tempo di arrivare, a quella sigaretta aggiungiamo un ingrediente segreto che ho a casa.»

    Sarah mi ha guardato sorpresa, a bocca aperta.

    «Scusa, Matteo, ma non mi avevi detto di essere un poliziotto?»

    2. Risvegli diversi

    Domenica pomeriggio.

    Ricostruito il puzzle di ieri sera, mi alzo a fatica dalla sedia per andare in bagno. Non ricordo esattamente quando alzarsi da una sedia ha cominciato a rappresentare uno sforzo; non da molto, comunque.

    Mi lavo i denti con scrupolo, ogni lato della bocca, con gli occhi fissi sull’orologio da parete: tre minuti. Mi sciacquo la faccia e pulisco con estrema cura le parti intime.

    Torno in camera, accendo il ventilatore al minimo e lo punto sul letto, mi infilo sotto le lenzuola e mi sdraio su un fianco, dietro a Sarah. La mia mano scorre sui suoi fianchi, passa vicino all’incavo dell’ascella e striscia davanti, stringe il seno sodo e liscio come seta.

    Le appoggio le labbra sul collo che sa di buono, di fragole e vaniglia. Lei si muove appena e sospira; sistemo il pene dritto nel solco tra i suoi glutei e lo sento gonfiarsi mentre lo strofino lento tra le natiche. Diventa così caldo che con un pugno di paglia potrei accendere un fuoco.

    Dal seno, scivolo con la mano più in basso, sul ventre soffice che ha un fremito. Sarah scosta lentamente una gamba, si volta e con gli occhi chiusi accoglie le mie dita.

    Sarah e io ci siamo riaddormentati.

    Mi sveglia il suono del cellulare; una volta in piedi, disorientato, seguo il trillo che arriva dal tavolo in cucina.

    È Anna. Cazzo.

    «Pronto?»

    «Finalmente… Buongiorno! Che fine hai fatto? Sono le quattro del pomeriggio e ti ho già chiamato un paio di volte, ti ho anche lasciato un messaggio in segreteria. Non dirmi che eri ancora a letto…»

    Respiro profondo, calmo, innocente; chiudo la porta della cucina e sforzo una risata che mi riesce malissimo.

    «Sono già le quattro? Davvero? Dio mio, allora la serata con Claudio è stata più dura di quanto pensassi!»

    «Vi siete ubriacati, vero? E spaccati di canne!»

    «Diciamo che è una buona sintesi», rispondo, ignorando il tono di rimprovero.

    «Eravate solo tu e lui?»

    Fingo uno sbadiglio cercando di camuffare una qualsiasi indecisione nella voce. Questa volta ci sono, il tono è giusto.

    «Sì, io e Claudio, poi ci ha raggiunto un suo collega e s’è fatto tardi. Verso mezzogiorno mi sono alzato per prendere due aspirine ma poi mi sono buttato di nuovo a letto e sono svenuto. Tu, piuttosto? La cena con le amiche?»

    «Bene, bene… Pettegolezzi, fashion e i racconti delle single», dice divertita.

    «Che spasso!»

    «Sì! Invece ridursi come un mollusco e passare la domenica a letto è da fighi.»

    «Non credo di avere la forza per ribattere, Anna…»

    «Vabbè senti, che programmi hai? Ci vediamo stasera? Mangiamo insieme?»

    Resto in silenzio per qualche secondo e costruisco un castello di carte, non mi ferma più nessuno.

    «Matteo? Ci sei?»

    «Sì, è che pensare al cibo mi dà la nausea. Penso che farò una cena a base di brodo di pollo e a letto presto con un film, ti arrabbi se ci vediamo domani?»

    «Intendi al lavoro?»

    «Anche, ci vediamo in commissariato, ma intendo domani sera, magari ceniamo insieme.»

    «Domani a cena ci sono Dario e Rossella… Hai fatto i salti mortali per non esserci, ricordi?»

    «Ah! L’avevo dimenticato…»

    Sembra un vicolo cieco ma vedo la combinazione, unisco i puntini, ristabilisco l’equilibrio. Baratto il sacrificio di una cena noiosa in cambio del resto della domenica libero. Cilindro, coniglio, applausi.

    «No, no, a cena ci sono, mi piacciono Dario e Rossella, è solo che non so mai di che parlare con loro. Ci sono, così cucino io.»

    «Bene», risponde Anna con tono materno. «Ti ricordi anche di portare due bottiglie di vino bianco? Facciamo il salmone.»

    «Sicuro! Dai, ci vediamo domani in commissariato, poi lascio la macchina lì e torno a casa con te, e dopo cena mi fermo a dormire, d’accordo?»

    Anna smussa gli spigoli della voce: «Sì, ma riposati e almeno per stasera non bere.»

    Tutto è improvvisamente

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