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Libia: Da colonia italiana a colonia globale
Libia: Da colonia italiana a colonia globale
Libia: Da colonia italiana a colonia globale
E-book301 pagine5 ore

Libia: Da colonia italiana a colonia globale

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Info su questo ebook

Nei primi mesi del 2011, a cent’anni esatti dall’impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest’attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l’Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale. Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l’ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all’entrata in guerra della nato contro Mu’ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell’operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria. Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos’è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l’autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita8 mag 2021
ISBN9788816801639
Libia: Da colonia italiana a colonia globale
Autore

Paolo Sensini

Storico ed esperto di geopolitica, per Jaca Book ha pubblicato i volumi Siria (2017), Libia (2017) e curato (con S. Rapetti) Il terrore rosso in Russia di Sergej Mel'gunov (2010) e Nel paese della grande menzogna di Ante Ciliga (2007).

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    Anteprima del libro

    Libia - Paolo Sensini

    PARTE PRIMA

    «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza»

    «Queste contraddizioni non sono casuali, né si originano dalla semplice ipocrisia: sono meditati esercizi di bipensiero. È infatti solo conciliando gli opposti che diviene possibile conservare il potere all’infinito»

    George Orwell, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, in 1984 (parte II, capitolo IX)

    1

    1911-2011: IL PRIMO CENTENARIO DELLA GUERRA CONTRO LA LIBIA

    Ed eccoci nuovamente a celebrare un centenario inciso a caratteri di fuoco nella nostra storia nazionale: la prima guerra che l’Italia mosse contro la Libia nell’ottobre 1911. Una ricorrenza che, per ironia della sorte, cade proprio nell’anno in cui lo Stato italiano ha «deciso» di intraprendere una seconda guerra coloniale contro la Libia.

    La prima invasione di Tripoli, bel suol d’amore, come intonava la più popolare colonna sonora dell’epoca, era il culmine di un lavorio diplomatico, di intelligence e politico con le grandi potenze europee durato quasi un trentennio¹, e che alla fine sfociò nell’aggressione militare di quello che, con felice espressione, Francesco Saverio Nitti definì uno «scatolone di sabbia»².

    Nel primo cinquantenario dell’unità d’Italia, il quarto governo Giolitti, con una spiccata fisionomia di sinistra, voleva collocare stabilmente il Paese nel novero delle compagini europee con un «posto al sole», accanto alla Francia che esercitava già un protettorato su Tunisia e Marocco, mentre l’Inghilterra controllava le sorti del Paese chiave del Mediterraneo, ossia l’Egitto, che però faceva sempre parte dell’impero ottomano.

    Nel frattempo il Banco di Roma aveva iniziato una «penetrazione pacifica» in Tripolitania e Cirenaica alla fine del XIX secolo, espandendo gradualmente il proprio controllo sull’industria leggera, l’agricoltura, la navigazione e i commerci del territorio, con l’apertura di agenzie a Tripoli, Bengasi, Zlitan, al-Khums e Misurata. Di fatto, presunte ingerenze ottomane nelle iniziative commerciali italiane avrebbero costituito una delle giustificazioni per l’intervento militare del 1911.

    In un clima sempre più surriscaldato prese forma la campagna italiana per reclamare la Libia³ – la lirica Quarta sponda di Gabriele D’Annunzio – a cui parteciparono, pur con tonalità differenti, le più importanti testate nazionali. Da «La Stampa» di Frassati a «La Tribuna» di Olindo Malagodi, entrambe filo giolittiane e dietro cui si stagliavano gli interessi della FIAT e della Banca Commerciale; da «Il Giornale d’Italia», «L’Idea Nazionale» e «Il Resto del Carlino», che rappresentavano gli interessi della borghesia e dei latifondisti emiliano-romagnoli; da «Il Messaggero» alla stampa cattolica legata al Banco di Roma, come «Il Corriere d’Italia», «L’Avvenire d’Italia», «Il Corriere di Sicilia» e la «Rassegna Nazionale»; da «La Gazzetta di Venezia» a «Il Mattino» di Napoli, a «L’Ora» di Palermo. Non si unirono invece alla campagna due grandi testate milanesi: «Il Corriere della Sera» e «Il Secolo». Ma «Il Corriere della Sera», il giornale di Luigi Albertini, si aggiunse al coro il 14 settembre, venti giorni prima dello sbarco⁴.

    Per persuadere l’opinione pubblica italiana, la massima parte degli organi di stampa dava grande risalto alla «straordinaria opportunità» rappresentata dalla Libia in termini di «ricchezza» e di possibile risoluzione dell’annoso problema dell’emigrazione italiana, oltre che presentarla come elemento di sicurezza per le proprie coste. Una sorta di «Terra promessa», insomma, che però bisognava «occupare quanto prima» poiché oggetto da qualche lustro delle mire occhiute di Francia e Germania. Si sottolineava inoltre la relativa facilità dell’impresa, visto che i sultani di Costantinopoli che regnavano nuovamente sul territorio libico dal 1835 erano male armati, mentre gli arabi, secondo le informazioni disponibili, attendevano trepidanti di essere «liberati» dall’«atroce giogo ottomano», il cui impero si stava lentamente ma in maniera inesorabile sgretolando sotto l’urto di svariate forze centrifughe.

    A quindici anni dalla pesante sconfitta di Adua, mentre già le squadre navali degli ammiragli Faravelli e Borea Ricci stavano bombardando Tripoli⁵, Giolitti rifiutava il 3 ottobre 1911 una proposta di compromesso offerta dalla Sublime Porta che avrebbe forse evitato una guerra di cui non si poteva prevedere né la durata, né tantomeno le successive ripercussioni sia in Italia che in Europa⁶. Una guerra che aveva per posta in gioco, come faceva notare Gaetano Salvemini, «una enorme voragine di sabbia»⁷ e che durerà, quasi senza interruzione, fino al 1932.

    ¹Per le fonti e i resoconti diplomatici cfr. The Middle East and North Africa in World Politics, a cura di J.C. Hurewitz, 2 voll., Yale University Press, New Haven & London 1975-1979, vol. I, pp. 552-553.

    ²F.S. Nitti, Scritti politici, 16 voll., Laterza, Roma-Bari 1959-1980, vol. I, p. 73.

    ³Il nome Libia viene da Libu, una tribù berbera di antichissima origine nota ai Greci, che qualche volta usavano «Libya» come sinonimo di quella che noi oggi chiamiamo Africa. Con l’invasione araba del Nordafrica nel VII secolo il termine fu quasi dimenticato. Fu risuscitato agli inizi del XX secolo dal geografo italiano Federico Minutilli (1846-1906), i cui lavori influirono sulla decisione del primo ministro italiano Giovanni Giolitti di chiamare nel 1911 «Libia» le due province ottomane, Tripolitania e Cirenaica.

    ⁴Il più tenace oppositore dell’avventura libica fu senz’altro Gaetano Salvemini, il quale prima su «La Voce» di Prezzolini, poi su «l’Unità», da lui fondata e diretta a far data dal dicembre 1911, condusse una tenace campagna contro i «libicisti» per confutare tutta la propaganda diffusa a favore dell’impresa. Collaboravano insieme a lui sulla questione libica Corrado Barbagallo, Leone Caetani, Giovanni Cena, Carmelo Colamonico, Giustino Fortunato, Giovanni Gabrieli, Edoardo Giretti, Gino Luzzato, Carlo Maranelli, Cesare Spellanzon, Augusto Torre, Eugenio Vaina, Davide Santillana.

    ⁵Nel tardo pomeriggio del 29 settembre 1911 l’Agenzia Stefani dirama il seguente comunicato ufficiale: «Non avendo il Governo ottomano accolto le domande contenute nell’ultimatum italiano, l’Italia e la Turchia sono da oggi, 29 settembre 1911, alle ore 14.30, in istato di guerra».

    ⁶Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, 11 voll., Feltrinelli, Milano 1956-1986, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana: 1896-1914, p. 318.

    ⁷G. Salvemini, La politica estera dell’Italia (1871-1914), Barbèra, Firenze 1944, p. 178.

    2

    L’ITALIA «LIBERALE» SI PREPARA ALLA GUERRA

    L’apertura di questa nuova fase del colonialismo italiano causa subito un movimento tellurico nel sistema politico italiano, di cui il Partito socialista subisce le maggiori conseguenze. Poco prima dell’impresa libica, nel PSI si evidenziano ben tre atteggiamenti diversi: il primo è quello del leader storico Turati e dell’«Avanti!», che si dichiarano ostili alla guerra di conquista ma si mostrano incapaci di dotarsi di mezzi per opporsi all’impresa; c’è poi la sinistra interna e la federazione giovanile, in cui si distingue la figura del giovane barricadiero predappiese Benito Mussolini¹, che saranno nettamente contrarie alla guerra invitando a «famigliarizzare gli operai coll’arma del sabotaggio […], ch’essi intendono tutta la portata rivoluzionaria dello sciopero generale»²; e infine vi sono i riformisti di destra, capeggiati da Ivanoe Bonomi, Angelo Cabrini e Leonida Bissolati, i quali trovano l’impresa libica «non incompatibile con gli ideali del socialismo», e in questo stabiliscono un punto di contatto con la componente dei sindacalisti rivoluzionari capeggiata da Angelo Oliviero Olivetti, Arturo Labriola e Paolo Orano. Sindacalisti rivoluzionari che anzi ritenevano che l’espansione coloniale della «Grande proletaria» cantata da Giovanni Pascoli sarebbe stata addirittura benefica per l’avvenire dei lavoratori italiani e della «rivoluzione sociale»³.

    Il corpo di spedizione italiano è composto inizialmente da trentaquattromila militari, seimilatrecento quadrupedi, diecimilacinquanta carri, quarantotto cannoni da campagna, ventiquattro pezzi da montagna, quattro stazioni da campo⁴. Ma alla fine del 1911 la cifra salirà a ben centotremila uomini con ventiquattro generali. Un esercito imponente. Comanda le operazioni l’attempato tenente generale Carlo Caneva, che già aveva partecipato alla campagna d’Africa del 1896-97 e i cui ricordi funesti finiranno per incidere fortemente su tutto il suo operato in Libia⁵.

    Al momento dell’attacco le forze ottomane sono invece costituite da una sola divisione, peraltro non completa, perché quattro battaglioni di fanteria sono stati trasferiti nello Yemen per mettere fine a una rivolta. Si tratta dunque di poco più di quattromila uomini, di cui tremila in Tripolitania, dove gli abitanti ammontano a cinquecentoventitremila centosettantasei unità, e milleduecento militari in Cirenaica, dove vivono centonovantottomila trecentoquarantacinque persone; la popolazione del Fezzan viene stimata all’epoca intorno alle ventimila unità. Per quanto riguarda invece l’armamento da guerra di cui possono disporre i turchi, si tratta in gran parte di equipaggiamenti vecchi rispetto alle dotazioni che hanno a disposizione i militari italiani.

    A queste forze debbono poi aggiungersi millecinquecento uomini della gendarmeria e tremila della milizia indigena⁶. Il governo ottomano conta poi di armare dai venticinquemila ai trentamila aderenti alla confraternita religiosa musulmana della Senussiya, un movimento religioso che si sarebbe rivelato di grande importanza per il prosieguo della guerra e, cosa ancor più importante, per il futuro politico della Libia unificata⁷. Proprio per tali ragioni, le pagine a seguire rappresentano un inciso nel testo, volto a definire i tratti salienti di tale movimento così significativo per leggere nella giusta luce uno degli scorci più recenti della storia libica.

    ¹Le azioni più eclatanti si avranno proprio nel forlivese con il sabotaggio della linea tranviaria Forlì-Meldola, il danneggiamento della linea ferroviaria e telegrafica tra Forlì e Forlimpopoli, e inoltre il tentativo di impedire ai richiamati di presentarsi al distretto militare. Accanto al giovane Mussolini si distingueranno come organizzatori della protesta anticoloniale anche il repubblicano Pietro Nenni, Armando Casalini e Umberto Bianchi. Arrestato il 14 ottobre, il futuro duce viene processato e quindi condannato per gli atti di sabotaggio insieme a Nenni, con cui condividerà la cella nella Rocca di Forlì. Una volta uscito dal carcere nel marzo 1912 Mussolini non è più un semplice sovversivo di provincia, ma è già proiettato verso la conquista del congresso socialista di Reggio Emilia (7-10 luglio 1912) e poi alla direzione dell’«Avanti!».

    ²B. Mussolini, Lo sciopero generale di protesta contro l’impresa di Tripoli, in «La Lotta di classe», n. 88, 30 settembre 1911, in Id., Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voll., La Fenice-Volpe, Firenze-Roma 1951-1980, vol. IV, pp. 72-73.

    ³A.O. Olivetti, Sindacalismo e nazionalismo, in «Pagine Libere», 15 febbraio 1911. L’impresa libica, tra le molteplici altre cose, riuscì a unire letterati tanto diversi come Marinetti e D’Annunzio, Corradini e Pascoli, Ada Negri, Giuseppe Villaroel, Umberto Saba, Armando Perotti, Riccardo Pitteri, Giuseppe Lipparini, Gea della Garisenda ed Elvira Donnarumma, queste ultime autrici della popolarissima canzonetta Tripoli, bel suol d’amore, vera e propria hit di quegli anni, tutti tesi nell’epico sforzo di esaltare e glorificare le gesta dei nostri eroi impegnati in un’epopea civilizzatrice.

    ⁴A. Carteny, Il 1911 e l’intervento italiano in Libia: dalla relazione breve dello Stato Maggiore Esercito Italiano, in A. Biagini (a cura di), C’era una volta la Libia, Miraggi Edizioni, Torino 2011, p. 23.

    ⁵Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Libia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986-1988, vol. I, Tripoli bel suol d’amore, pp. 98, 126.

    ⁶G. Pesenti, Le guerre coloniali, Zanichelli, Bologna 1947, pp. 261-264.

    ⁷L’opera classica sulla Senussiya resta quella di E.E. Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica, Clarendon Press, London-Oxford 1949 (trad. it. Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale. I Senussi di Cirenaica, Edizioni del Prisma, Catania 1979). Cfr. anche N. Ziadeh, Sanusiyah. A Study of a Revivalist Movement in Islam, Brill, Leiden 1958; K.S. Vikør, Sufi and Scholar of the Desert Edge. Muhammad b. Ali al-Sanusi and His Brotherhood, Hurst & Co., London 1995.

    3

    LA SENUSSIYA

    La Senussiya è una confraternita (tarikha) mistico-missionario-militante dell’Islam sunnita, di «scuola» malikita¹, che venne fondata nel 1837 sul monte Abū Qubais (nella Penisola arabica, in prossimità della città di Mecca), da un berbero della tribù algerina dei Walad Sidi Abdallah di nome Sayyid Muhammad bin ‘Ali al-Sanūsi (1787?-1859), noto in Libia col nome al-Sanūsi al-Kabir («il gran Senusso»), e la cui famiglia pretendeva di discendere dal Profeta dell’Islam attraverso sua figlia Fatima. Le dottrine e i riti di questo movimento islamico di purificazione consistevano nel «ricordare agli indifferenti, insegnare agli ignari e guidare chi si è smarrito»².

    Tale confraternita, infatti, a differenza di molte altre dello stesso genere o filone, non preconizza soltanto – come ad esempio i Wahhābiti³ o forse gli Zaiditi⁴ – il ritorno dei fedeli al Corano (al-Qur’ān) e alla Sunna, la tradizione che si riferisce alla vita e all’insegnamento del Profeta Muhammad. Essa annuncia, proclama e pretende il rifiuto della semplice taqlid («imitazione») delle vie tracciate dai principali e tradizionali Saggi dell’Islam, e la sistematica e puntuale riapertura della «porta dell’ijtihād» (lo «sforzo di riflessione») che, secondo la maggior parte degli storici delle consuetudini e della prassi di questa religione, sarebbe stata definitivamente chiusa nel IV secolo dell’Egira (il nostro X secolo)⁵.

    Dopo lunghe peregrinazioni Muhammad bin ‘Ali al-Sanūsi, che aveva studiato a Fes e alla Mecca, creò la prima zāwiya (luogo di insegnamento coranico, di sosta per le carovane e di scambio commerciale) con l’obiettivo di attrarre le tribù locali alla causa della sua tarikha. Successivamente si spostò in Egitto e, al momento dell’occupazione ottomana di Ghadames del 1843, il Gran Senusso si era stabilito in Cirenaica. In quello stesso anno aveva fondato la al-zāwiya al-bayda («convento bianco») nella regione del Gebel al Akhdar.

    Facendo affidamento sui seguaci, che venivano chiamati ikhwan («fratelli»), per diffondere la visione del fondatore il movimento della Senussiya creò rapidamente una serie di zāwiye in Cirenaica, la principale delle quali divenne quella nell’Oasi di Giarabub (Jaghbub).

    Pur senza titolo ufficiale di regno o principato, il movimento costituì velocemente in Cirenaica uno Stato territoriale vastissimo con capitale Giarabub, in cui tutta la vita pubblica e privata si svolgeva rigorosamente secondo i precetti dell’Islam e l’esempio di Maometto.

    Non deve sorprendere il fatto che la dottrina della Senussiya, che dava rilievo a una pratica dell’Islam ascetica e purificatrice, promettendo solidarietà e sostegno, colpisse le corde dello spirito tribale della Cirenaica, che in quel tempo era ancora un Paese isolato, attraversato solo da tribù nomadi o seminomadi di discendenza araba⁶. Fu a queste tribù che Muhammad bin ‘Ali al-Sanūsi diede una rudimentale struttura di governo, tramite la riscossione delle tasse, la fornitura di servizi sociali e il mantenimento della pace, insieme alla coscienza di una identità. La confraternita incontrò una debole resistenza da parte degli ottomani, i quali erano impegnati nella riconquista della Tripolitania e del Fezzan e guardavano con favore all’opposizione della Senussiya ai francesi.

    Sin dall’inizio della sua attività in Libia, la conduzione politico-culturale-religiosa di questa setta assunse un carattere prettamente dinastico e gerarchico. Caratteristica che sarà successivamente e invariabilmente confermata da tutti i naturali discendenti del primo fondatore.

    Così, dopo la morte di quest’ultimo gli successe il figlio Sayyid Muhammad al-Mahdi (1844-1902), che accrebbe l’importanza della confraternita estendendone l’influenza nella parte occidentale dell’Egitto e del Sudan, ma anche in Fezzan, Algeria, Tunisia, Marocco, Arabia, nel Nord del Ciad, nel Niger e persino nel lontano Senegal, ma attirò significativamente pochi seguaci fra i più cosmopoliti abitanti della Tripolitania. Nel 1894 egli lasciò Giarabub e si spostò a Cufra e poi ancora più a sud, a Dar Guran, nel Ciad, per cercare di contrastare l’avanzata dei francesi.

    Alla sua morte, nel 1902, subentrò alla guida della Senussiya il fratello Sayyid Ahmad al-Sharif, poiché i figli di al-Mahdi (fra cui il futuro re della Libia Idris al-Sanūsi) erano ancora minorenni. Grazie alla fitta rete di zāwiye sparse in tutta l’Africa settentrionale, la confraternita esercitava, oltre all’influenza propriamente religiosa, un potere politico-economico di cui gli italiani, all’inizio, non avevano minimamente compreso la reale estensione.

    Al vertice della Senussiya vi è lo shaikh al-kabir (o grande sceicco, detentore della Santa Barakah, la «saggezza» o «benedizione» inviata da Allah). Carica e responsabilità che sono sempre state rivestite dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del primo fondatore. Subito dopo si trovano tre principali alti dignitari: il Gran Khalifa (vicario dello sceicco supremo), il Wakil (amministratore-tesoriere) e il responsabile centrale dell’insieme dei tolba (gli studenti coranici)⁷ delle zāwiye della setta.

    In una posizione di grado leggermente inferiore troviamo una serie di Shuyukh el-zāwiya, che altro non sono che responsabili ufficiali e qualificati dei diversi centri religiosi regionali della confraternita. Seguono a ruota una miriade di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o sovrintendenti) che, in genere, sono permanentemente impiantati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse di questa Congregazione, oppure hanno l’incarico speciale di missionari itineranti.

    L’insieme dei succitati dignitari necessitano il possesso di quello che viene chiamato Ijéza («diploma mistico»). E per riuscire a conseguirlo devono avere seguito le lunghe trafile teologico-religiose all’interno delle principali madaariss (le scuole coraniche) della loro congregazione. Infine, al più basso gradino dell’ordine gerarchico interno, si trova l’insieme degli affiliati. I quali, a loro volta, sono distinti e differenziati in responsabili di cellula, militanti o semplici simpatizzanti.

    Insomma, l’immagine che tende ad emergere da questa peculiare comunità di fedeli è quella di un’organizzazione di iniziati (ikhwan) particolarmente ordinata, affiatata e strutturata. Una specie di corpus gerarchico che è disciplinatamente programmato a obbedire fanaticamente (Jung definì il fanatismo un «dubbio ipercompensato») alla particolare dottrina dell’Islam nella quale ogni suo membro si identifica, nonché a cercare di realizzare con ogni mezzo l’insieme degli scopi perseguiti dai vertici della loro confraternita⁸.

    ¹Vale a dire, quella «scuola» che tende a riconoscersi negli insegnamenti religiosi del teologo arabo Mālik ibn Anas (711-795). Le altre «scuole» di rito sunnita sono quella hanafita, del teologo arabo-persiano Abu Hanifa (699-765); quella shafi‘ita, del teologo palestinese-egiziano Muhammad ibn Idris al-Shafi‘i (767-820); quella hanbalita, che fa riferimento al teologo arabo Ahmad ibn Hanbal (780-855).

    ²A.M. Hassanein Bey, The Lost Oases, Thornton Butterworth, London 1925.

    ³Il Wahhābismo è una dottrina che è nata in seno alla «scuola» hanbalita. È stato fondato (1745) e guidato inizialmente da Muhammad ibn Abd al-Wahhāb (1703-1792), uno sceicco arabo della tribù dei Banū Tamim, e futuro alleato del principe Muhammad bin Sau‘d, detto Ibn Saud (1710-1765), il capostipite dell’attuale monarchia saudita. Da cui il fatto che il Wahhābismo è stato, e continua ad essere, la tendenza religiosa ufficiale dell’attuale Arabia Saudita.

    ⁴Seguaci di Zaid ibn ‘Ali (riformatore religioso musulmano dell’VIII secolo, pronipote di al-Husayn – uno dei figli del quarto Califfo ‘Ali e, dunque, parente del Profeta) e costituenti una delle più importanti correnti Shi‘ite. Gli affiliati a questa confraternita continuano a possedere alcuni centri di influenza politico-religiosa sulle montagne a sud del Caspio e nello Yemen, con qualche propaggine in Africa.

    ⁵Lo «sforzo», cioè, che originariamente fu compiuto dai primi ‘ulama (Teologi), dai primi Mufti (Responsabili che sono in grado dare risposte decisive su delle controversie o di fare conoscere la verità attraverso una risposta giuridica) e dai primi Fuqaha (Giuristi) musulmani, per cercare di interpretare il più oggettivamente possibile i testi fondatori dell’Islam e poterne dedurre la Sharī‘ah (il Diritto musulmano). Questo al solo fine di potere correttamente informare i fedeli di tale religione, a proposito di ciò che, per loro, è lecito, illecito o vietato.

    ⁶Cfr. E. De Agostini, Le popolazioni della Cirenaica. Notizie etniche e storiche raccolte dal colonnello Enrico De Agostini, 2 voll., Azienda tipo-litografica della Scuola d’arti e mestieri, Bengasi 1922-1923.

    ⁷In arabo: taleb o t‘aleb, che significa «studente» (tolba è il plurale). Da cui l’appellativo forzatamente occidentalizzato di «talebani» che è stato diffuso, dai media, nel contesto di un altro scenario di «guerra per la pace»: quello che conosciamo dal 2001, da quando è iniziata la guerra in Afghanistan.

    ⁸Cfr. A.B. Mariantoni, Libia: evviva i «buoni»!, in «Civium Libertas», 21 marzo 2011.

    4

    INIZIA LO SBARCO MILITARE NELLE CITTÀ COSTIERE

    Il bombardamento di Tripoli, sotto i comandi del vice-ammiraglio Luigi Faravelli, inizia alle 15.30 del 3 ottobre 1911 e dura fino al tardo pomeriggio, per riprendere la mattina seguente. Dopo aver smantellato i forti turchi a suon di bombe, lo sbarco dalle navi comincia nel primo pomeriggio del 5 ottobre e si conclude, senza particolari difficoltà o incidenti, due ore dopo. L’accoglienza, fin da quei primi momenti, sembra festosa e la popolazione ben disposta verso i «boni ’taliani»¹. Nelle due successive settimane la situazione permane tranquilla e pacifica, senza che si registrino turbolenze o atti violenti nei confronti dei soldati italiani².

    Ma ecco che il 23 ottobre si ebbe una feroce anteprima di quello che covava sotto il manto di un’apparente tranquillità: un violento attacco dei turchi ma soprattutto di orde di arabi che, avventatisi sui militari italiani nella località di Sciara Sciat, in piena oasi di Tripoli, ne massacrarono un gran numero³. È un primo assaggio dell’odio e un’orgia di violenza che gli arabi, sia pure mal armati e ancor peggio equipaggiati, riservano agli occupanti, ma soprattutto di ciò che attende le truppe italiane nell’immediato futuro. Una nuova incursione si ripeterà tre giorni dopo, questa volta tra Bu Meliana, Sidi Messri e l’altura di Henni, ma, dopo scontri concitati e l’incalzare del bombardamento congiunto dei cannoni delle navi e di quelli di terra, le forze al comando di Nesciat Bey sono costrette a ripiegare.

    Tuttavia, come accade in tutte le guerre di conquista, le informazioni fornite all’opinione pubblica italiana saranno rigorosamente purgate dal comando centrale di Tripoli e a Roma; mentre in Cirenaica, dove la «guerra diventò sempre di più un conflitto italo-senusso piuttosto che italo-turco, e finì con una lotta dei beduini sotto la guida della Senussiya»⁴,

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