Il cinema di Moretti, da Michele a Nanni
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Anteprima del libro
Il cinema di Moretti, da Michele a Nanni - Mariella Cruciani
Mariella Cruciani
Il cinema di Moretti, da Michele a Nanni
Immagine di copertina tratta dalla locandina del film: Caos Calmo
Prefazione
Due o tre cose su Nanni
Quest’anno Nanni Moretti compierà sessant’anni ma sembra non dimostrarli proprio, almeno a seguire i tradizionali metri di giudizio. Anzi vale il contrario, è sempre attuale: ci sono degli Autori come lui o come Marco Bellocchio rispetto a cui il tempo gioca a favore, anche se il cinema nel suo complesso – compreso quello italiano sempre così restio ad affrontare rinnovamenti e novità – è cambiato in modo profondo rispetto a poco fa, all’altro ieri. Senza aspirare a poter fare qui dei grandi bilanci storici, ormai alla distanza di tempo, alcuni aspetti salienti del problema sono però evidenti. Ad esempio il fatto che il cinema di Moretti ha marcato a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in modo decisivo quel processo di rinnovamento (o di adeguamento alle altre cinematografie europee di tendenza) che è arrivato forse troppo tardi pur se estremamente necessario. L’onda lunga, la straordinaria ombra lunga del Neorealismo si era già spezzata con Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio e le loro prime opere, un decennio prima ma nonostante questi segnali evidenti il cinema italiano non era cambiato nella sostanza, né voleva cambiare. Proseguiva nelle proprie sicurezze (produttive e autoriali) che solo l’irruzione devastante per la produzione cinematografica della liberalizzazione dell’etere, ha nel giro di pochissimo tempo annichilito, portandolo ad una crisi profonda. E qui si inserisce l’importanza decisiva di Nanni Moretti che anche tramite una straordinaria capacità di polarizzare e sfruttare l’interesse dei media – mai regista italiano è stato abile quanto lui a far parlare di sé e del proprio lavoro – ha però insegnato a tutta una generazione (e alla successiva) dei principi cinematografici estremamente semplici quanto negletti nel nostro paese. Ad esempio il fatto che si può entrare nel cinema da una via che non sia quella tradizionale dell’industria e della professione con tutte le sue trafile e lungaggini. Il filmmaker romano (anche se per caso nato a Brunico ai confini con l’Austria) infatti inizia con dei Super8 autoprodotti, non ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, non ha voluto imparare il mestiere dal basso (aiuto-regista, ecc.), né ha cercato di imporsi, se non saltuariamente (con una piccola esperienza presso i Fratelli Taviani), nel mondo della professione. Il suo cinema per un certo tempo è stato fatto in Super8 e 16 mm, inoltre egli proviene dalla cinefilia creata delle varie Nouvelle Vague
europee e covata nell’istruzione universitaria (il pioneristico Dams di Bologna). Il che ha finalmente aperto la strada al fatto – oggi quasi scontato – che fare cinema con le tecniche leggere e in maniera antitradizione non è tanto una eccezione quanto la regola per chi batte sentieri lontani dalla produzione standardizzata e mainstream, sia nella commedia sia nel cinema drammatico. Inoltre, dato che è diventato a ragione o torto il cineasta di riferimento di tutta la generazione post sessantottina con la sua Sacher-Factory allargata (sala, distribuzione, premi e soprattutto produzione), ha dato un impulso decisivo, in modo diretto o indiretto, ad una serie di opere di impegno civile, di generi negletti (il documentario) ma anche di nuovi registi (ad esempio Daniele Luchetti, Carlo Mazzacurati, Mimmo Calopresti o Matteo Garrone) che poi si sono contraddistinti nel cinema italiano contemporaneo.
Sono queste delle brevi considerazioni storiche sull’importanza del cinema di Nanni Moretti, quel cinema divertente ma che fa soffrire
rimasto quasi invariato nel corso dei decenni che non si troveranno nell’analisi compiuta da Mariella Cruciani. Il cui lavoro analitico si interessa di tutt’altro ed è quasi all’opposto di quello tradizionale di un Castoro dove la trattazione è linearmente organizzata secondo moduli generativi, dall’opera prima d’esordio all’ultimo film. Qui invece, utilizzando, scacchisticamente parlando, una inconsueta Mossa del Cavallo
alla Victor Šklovskij, si parte da Palombella rossa (1989) per tornare indietro e poi andare avanti nel tempo; in ciò seguendo un dettato esplicitato nell’Introduzione dalla stessa autrice secondo cui ciascuno dei film di Moretti, pur essendo autonomo, costituisce, tuttavia, la prosecuzione e lo sviluppo di situazioni, stati d’animo, relazioni e tematiche già presenti nel film precedente
e con al centro la figura Alter Ego di Michele/Nanni. Pur non disdegnando l’ermeneutica dei singoli film, l’autrice procede quindi in una serrata lettura antropocentrica dell’opera cinematografica di Moretti, abbandonando vie cinefilistiche o considerazioni di natura storico-critica, per nutrirsi soprattutto di intelligenti suggestioni tratte dalla psicanalisi e/o dalla letteratura (e critica) teatrale. Una lettura tagliata
questa non certo astrusa o sovrapposta a forza all’opera morettiana quanto invece utile e avvincente, che consente così una chiave diversa e suggestiva di approccio alla filmografia del regista romano.
Giovanni Spagnoletti
Introduzione
All’origine di questo spettacolo c’è il teatro di Beckett...
: così Fabio, alter ego di Michele, introduce in Io sono un autarchico
il suo progetto di teatro sperimentale. Se si leggono con attenzione anche solo alcune opere dello scrittore irlandese, si rimane stupiti dai punti di contatto che si possono individuare con i film di Nanni Moretti. Presentando il volume Teatro di Samuel Beckett
, Roberto Rebora utilizza delle espressioni che possono essere applicate agevolmente all’universo filmico morettiano. Scrive, infatti: Tutti personaggi, costoro, toccati da una drammaticità composta di grottesco, di comico e di assurdo, di vuoto, di silenzio, di ostinazione, di attesa, di parole (…), personaggi distrutti o drammaticamente protetti dalle loro stesse mutilazioni o costrizioni nei limiti materiali, emblematici (…), pensiamo al loro comportamento di esseri che sembrano fingere altre dimensioni di esistenza contrastanti, in qualche modo, con lo zero che li circonda (…). E’ un gioco, il loro, in quanto risulta una rappresentazione, un tentativo di movimento che commenta, in qualche modo, l’immobilità. Ma è il gioco assurdo di chi istintivamente ripete qualche cosa che non avrà nessuna conseguenza anche per una sorta di compiacimento dell’esperienza che si conferma (nulla è e nulla cambia) e mostra anche di saper ironizzare tale comportamento. Un gioco che, in non pochi momenti, provoca il riso, infatti l’umorismo è una misura di questi dialoghi e di queste situazioni fra persone che si rendono ridicole agendo come se fosse possibile stabilire dei rapporti. Che non sono possibili perché l’altra parte non c’è (…) Anche l’umorismo, il ridere, diventano allora ridicoli, tragici, perché manca l’identificazione di ciò che deve essere colpito dal contrasto comico. Allora, tutto è come è e non c’è niente altro da aggiungere
. E ancora: Siamo continuamente di fronte alla non azione. Anzi: all’impossibilità dell’azione concepita al massimo come proposito (dobbiamo aspettare Godot, dobbiamo andarcene, non ce ne andiamo) e il non andare è l’immediata conseguenza della decisione di andar via, ma neppure è conseguenza della decisione di andar via, perché tutto risulta uguale al di là della parola. La parola così amata e sospettata...
.
L’immobilità, l’istrionismo, l’umorismo sono, dunque, i tratti salienti dei protagonisti beckettiani: essi costituiscono, altresì, le chiavi per accedere alla comprensione della realtà messa in scena da Moretti, soprattutto in Io sono un autarchico
ed Ecce bombo
. Analogamente, lo sfruttamento delle proprie mutilazioni o dei propri limiti a mò di difesa è riscontrabile, oltre che nei personaggi di Beckett, nel professor Apicella di Bianca
. Per altro, non bisogna dimenticare – afferma Rebora – l’aspetto positivo che caratterizza, comunque, i personaggi scenici di Beckett: I personaggi beckettiani non sono soltanto emblemi ridicoli e drammatici di una visione negativa dell’esistenza, sono anche degli esseri umani che, in qualche modo, cercano di vivere e di continuare (…). E proprio dove la loro volontà di vivere (come? perché? non lo sanno) diventa possibilità comica che si trasforma in ridicolo per mancanza di dimensioni nel mondo rappresentato, sentiamo anche la possibilità di difesa di questi esseri
. Quest’ultima citazione descrive perfettamente il dissidio di Don Giulio, protagonista di La Messa è finita
: il conflitto tra l’incessante sforzo di vivere e la vanità, forse, della vita stessa. Un dissidio, questo, già all’opera nel regista di Sogni d’Oro
. Infine ci limiteremo a notare come anche queste parole di Rebora su Beckett possano essere riferite allo stesso Moretti: (…) lui che appare come ossessionato dalla conseguenza delle parole che pure i suoi personaggi non cessano mai di prediligere, identificandosi nella parola stessa che pronunciano, ripetendola più volte, magari giocandoci sopra e riuscendo, in tal modo, a riempire, per un attimo, il vuoto di cui sono emblemi e testimoni
.¹
Nello spettacolo messo in scena da Fabio e dai suoi compagni in Io sono un autarchico
, vengono citate, quasi alla lettera, diverse battute di un testo teatrale beckettiano. Finale di partita
. La ragazza della compagnia, per ben tre volte, ripete un passo del dramma: Uno! Silenzio. Dov’ero rimasta? S’è rotto il filo, siamo rotti noi. Fra poco si rompe tutto. Non ci sarà più voce. Una goccia d’acqua nella testa, dall’età della fontanella. Picchia sempre nello stesso punto.
² Lo stesso Michele, piazzato dentro una vasca, ( e come non pensare alle assurde prigioni – ampolle, otri, bidoni, ecc – nelle quali Beckett chiude i propri personaggi per separarli dalle minacce esterne, dall’indecifrabile vita?), durante le prove dello spettacolo, legge la seguente battuta: Un miliardo di chicchi!Silenzio!
. Nel testo beckettiano, la frase corrispondente suona in questo modo: I chicchi si aggiungono ai chicchi a uno a uno, e un giorno, all’improvviso, c’è il mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio
³. Oppure, così: Un istante dopo l’altro, pluf, pluf, come i chicchi di miglio di... quel vecchio greco, e tutta la vita uno aspetta che questo gli formi una vita. Ah esserci, esserci!
⁴. A questo punto, va notato un fatto singolare: le battute riguardanti i chicchi e parafrasate da Michele appartengono, non ad uno, ma a due diversi personaggi di Finale di partita
: la prima è pronunciata da Clov, la seconda da Hamm. Moretti vuole, forse, comunicarci l’idea che Michele impersoni Hamm e Clov contemporaneamente?
Per provare a rispondere a questa domanda, è necessario dire qualcosa riguardo ai personaggi di Beckett e al loro dramma. Tutto si svolge in un interno senza mobili, in cui spiccano due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro, dove sono rinchiusi i genitori di Hamm: Nagg e Nell. Hamm, a sua volta, è immobilizzato su una sedia a rotelle e coperto da un vecchio lenzuolo. L’unico che può muoversi è Clov, adottato, quando era piccolo, da Hamm e ora suo devoto servitore. Hamm, oltre ad essere paralizzato, è cieco: non vede, non si muove ma parla e dà ordini a Clov che deve guardare, in continuazione, dalla finestra per informarlo di ciò che succede fuori: nulla, assolutamente nulla. Il mondo esterno è morto: una grande catastrofe, forse atomica, ha distrutto ogni essere vivente. I rapporti tra Hamm e Clov sono ambigui e carichi di tensione: il primo sa che, per vedere e per essere nutrito, ha bisogno del secondo ma, proprio per questo, nega la curiosità che nutre nei confronti dell’esterno e ostenta autosufficienza. Clov, da parte sua, ammira Hamm e dipende da lui (non c’è nessun altro al mondo e le provviste di Hamm sono le ultime rimaste) ma avverte anche l’esigenza di uscire, finalmente, nello spazio aperto. Il dramma non