Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il giro di Genova in 501 luoghi
Il giro di Genova in 501 luoghi
Il giro di Genova in 501 luoghi
E-book1.228 pagine14 ore

Il giro di Genova in 501 luoghi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La città come non l'avete mai vista

Una città incantevole al primo sguardo e che sorprende ad ogni visita. Un viaggio nei luoghi più magici e rappresentativi

Genova e la sua “grande bellezza”: i colori, le luci, le suggestioni e la storia, i suoi vicoli così vivi e pulsanti. Genova e le sue anime: una città di mare, di cultura, arte e innovazione, unica e autentica. Il turismo nella città ligure aumenta di anno in anno, e i luoghi da scoprire sono molti e spesso poco conosciuti. Questo percorso insolito, un giro attraverso 501 luoghi, è rivolto anche a chi Genova la vive e la conosce, a chi ogni giorno cammina per le sue strade e che ora potrà farlo magari nei weekend con questa guida in mano. La città antica, il porto, il centro, le alture, la Val Bisagno, il Levante, il Ponente, la Valpolcevera; Aldo Padovano, da esperto conoscitore della città, accompagna il lettore sulla promenade, la domenica pomeriggio o al tramonto. Verso le case in stile liberty, e poi di colpo tra caruggi e piazzette poco più grandi di un foulard. Catturati e resi per sempre poesia nelle canzoni di Fabrizio De André.

Vico dei caprettari e la sua barberia
San Siro, la prima cattedrale
San Carlo e la madonna della fortuna
La stazione Genova Principe e il monumento a Colombo
I magazzini del cotone
La Sala Sivori: dalla musica al cinema
L’ex ristorante San Pietro alla foce
Il parco urbano delle mura
Boccadasse tra barche, gatti e cantautori
Villa Serra: da zoo a museo d’arte moderna
Aldo Padovano
è nato a Genova. Storico, scrittore, regista, straordinario conoscitore dei caruggi che attraversa come un flâneur baudelairiano, ha scritto per la Newton Compton Storia insolita di Genova, Forse non tutti sanno che a Genova… e Il giro di Genova in 501 luoghi ed è autore di numerose altre pubblicazioni sulla storia della città.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2016
ISBN9788854199552
Il giro di Genova in 501 luoghi

Leggi altro di Aldo Padovano

Correlato a Il giro di Genova in 501 luoghi

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Viaggi in Europa per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il giro di Genova in 501 luoghi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il giro di Genova in 501 luoghi - Aldo Padovano

    365

    Illustrazioni di Eva Villa

    Prima edizione ebook: dicembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9955-2

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Aldo Padovano

    Il giro di Genova in 501 luoghi

    La città come non l’avete mai vista

    Newton Compton editori

    Presentazione

    Quando la Newton Compton mi ha offerto di scrivere un libro sul giro di Genova in 501 luoghi, mi è subito venuto in mente il duplice significato che questa parola ha nella storia e nel dialetto genovese. I Luoghi ( Loca ), dal 1407 in poi, erano le quote (del valore di 100 lire genovesi) in cui era diviso il capitale della Casa delle Compere e dei Banchi di San Giorgio, una delle prime banche pubbliche in Europa, un istituto che, fondato appunto in quell’anno, gestiva la fiscalità e il debito pubblico della Repubblica di Genova. I titolari di questi Luoghi, cioè i soci della casa nonché creditori nei confronti dello Stato, erano chiamati locatari. Il Banco di San Giorgio accumulò un ingentissimo capitale e venne soppresso solo nel 1805, con l’annessione della Liguria all’Impero napoleonico.

    Nicolò Machiavelli – passato per Genova nel 1518 – asseriva che «i cittadini hanno levato lo amore dal Comune e postolo a San Giorgio, come parte bene e ugualmente amministrata», per cui la Repubblica cambiava spesso governo (che in certi periodi fu anche straniero), ma il Banco di San Giorgio rimaneva immutato. Tale istituto ebbe un ruolo non secondario anche nei viaggi di Colombo, poiché sia il grande navigatore genovese (come si evince da una sua lettera inviata ai governatori del Banco nel 1502), sia Ferdinando ii d’Aragona e Isabella di Castiglia possedevano delle azioni (si direbbe oggi) della banca genovese. Chi non aveva una grande stima del Banco di San Giorgio era Ezra Pound il quale, in un suo appunto del 1937, scrive: «Banco S. Giorgio, groviglio di strozzini, determinati a succhiare il sangue di Genova, fin che la città rimase a secco».

    Passando dall’economia alla vita quotidiana, è curioso osservare come la parola luogo nel dialetto genovese abbia anche un altro significato, sicuramente molto più prosaico. Basta aprire il Dizionario genovese-italiano – compilato da Giovanni Casaccia ed edito per la prima volta nel 1875 – al lemma "lêugo", dove si legge: «Comodo, luogo comodo, luogo comune, cesso, camerino, stanzino, privato, necessario, agiamento, ritirata, luogo ove deporre il soverchio peso del ventre». Questo bizzarro accostamento avvalorerebbe la celeberrima massima di Martin Lutero (al quale però l’oro – soprattutto quello ricavato dai beni ecclesiastici – non faceva proprio schifo) secondo cui il denaro sarebbe lo sterco del diavolo.

    Per passare invece ai luoghi veri e propri, è necessario dire che fino alla seconda parte dell’Ottocento non era ravvisabile nell’area genovese il concetto di centro e di periferia come lo intendiamo oggi. La città era stretta entro le sue mura seicentesche e il territorio intorno (quello che attualmente fa amministrativamente parte del Comune), almeno fino alla caduta dell’antica Repubblica, era diviso in quattro Podestarie suburbane: il Capitaneato di Voltri, il Governo della Polcevera, il Governo di Bisagno (comprendente anche Albaro e la Foce; si estendeva fino a Sori) e, dopo il 1609, il Governo di Sestri Ponente. Con la Repubblica Ligure di ispirazione giacobina (che dal 1797 durerà fino al 1805, quando la Liguria, come s’è detto sopra, sarà inglobata nell’Impero francese) il territorio della città e della regione vengono divisi in Dipartimenti: del Centro (Genova), della Cerusa (capoluogo Voltri), della Polcevera (capoluogo Rivarolo), del Bisagno (capoluogo San Martino d’Albaro). Da quel momento le località circostanti e limitrofe a Genova cominciano a usufruire, se non di indipendenza, sicuramente di una certa autonomia.

    Nel 1815 la Liguria passa sotto i Savoia e Genova – diventata Ducato del Regno sardo – è inserita nella vii Divisione di Genova, comprendente le Province di Genova, Albenga, Bobbio, Chiavari, Levante, Novi e Savona. Mentre durante i dieci anni di dominazione napoleonica Genova – Bonne ville de France – era governata da un "maire" e gli atti ufficiali erano stilati in due lingue, con l’annessione al Regno sardo è un governatore a gestire l’amministrazione cittadina. Come quell’Ettore Veuillet marchese d’Yenne il cui nome, latinizzato, è presente sul frontone del Teatro Carlo Felice, in quanto promotore della sua costruzione.

    Nel 1847 tutti i territori del Regno di Sardegna – il Piemonte, la Savoia, Nizza, l’isola di Sardegna e il Ducato di Genova – vengono uniti politicamente e amministrativamente in un’operazione denominata fusione perfetta, e le città ubicate in questi territori diventano Comuni con a capo un sindaco.

    Genova, dopo l’Unità d’Italia, dal punto di vista urbanistico cerca nuovi spazi soprattutto verso levante, oltre il torrente Bisagno, che è sempre stato il suo confine naturale, delimitato dalle cosiddette Fronti Basse, i potenti contrafforti seicenteschi che proteggono la città dal lato orientale.

    Così nel 1873 avviene la prima annessione alla città storica dei Comuni limitrofi, a quel tempo piccoli borghi rurali della Val Bisagno (come la Foce, San Fruttuoso, San Francesco e San Martino d’Albaro, Marassi e Staglieno).

    Tuttavia il grande problema rimane il porto, al quale però tre anni più tardi il ricchissimo imprenditore nonché aristocratico Raffaele De Ferrari, pochi mesi prima della sua morte, attua una sontuosa donazione di venti milioni d’oro per l’ampliamento e l’adeguamento tecnologico agli standard dell’epoca. Alla fine di ottobre del 1905, il re d’Italia Vittorio Emanuele iii giunge a Genova per partecipare alla cerimonia inaugurale dei lavori per un ulteriore allargamento del porto verso Sampierdarena, il Comune limitrofo, nonché centro industriale di primaria importanza (era soprannominato la Manchester italiana). A questo punto viene presa la decisione di trasformare definitivamente il porto emporio in porto industriale. Subito dopo la prima guerra mondiale, nel maggio del 1919, sulla stampa cittadina appare il progetto dettagliato dei nuovi moli che dovranno essere costruiti a ponente di Genova. La cosa veramente impressionante, nel bene e nel male, è che il progetto – un enorme riempimento della costa da Sampierdarena a Voltri, con esclusione della spiaggia di Pegli – è proseguito senza soste attraverso i decenni, esattamente nelle modalità in cui è esposto e visualizzato sui giornali del 1919. Affinché nessuna delle località che si vedevano interrare il proprio litorale potesse esprimere una qualche contestazione, era indispensabile eliminare sotto l’aspetto amministrativo i vari Comuni interessati nell’operazione e accorparli in un unico ente, in modo da centralizzare le decisioni. L’andata al potere di un regime autoritario come quello fascista fu l’occasione giusta per riunire d’ufficio le località non solo della costa di ponente, ma anche quella di levante, della Val Polcevera e della Val Bisagno. Nel 1926 i Comuni di Apparizione, Bavari, Bolzaneto, Borzoli, Cornigliano Ligure, Molassana, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Prà, Quarto dei Mille, Quinto al Mare, Rivarolo Ligure, Sampierdarena, San Quirico, Sant’Ilario Ligure, Sestri Ponente, Struppa e Voltri vengono così riuniti insieme alla città storica, in un unico Comune, che sarà la Grande Genova. Il fatto positivo è che, nonostante la non troppo malcelata intenzione di trasformare tutto in una grande periferia urbana e nonostante gli stravolgimenti urbanistici effettuati in tutti questi decenni – in taluni casi veramente raccapriccianti, soprattutto nel Dopoguerra – ciascuno dei centri sopra citati ha tuttora mantenuto una precisa identità e delle caratteristiche storiche proprie, distribuite nelle 501 stazioni da cui sono complessivamente composti questi 12 percorsi.

    Aldo Padovano

    nota dell’autore

    Le voci seguite da (v.) sono trattate più diffusamente in altre parti del testo.

    ringraziamenti

    L’autore ringrazia per i preziosi suggerimenti e per l’aiuto prestatogli Roberto Beccaria, Enzo D’Amore, Davide De Bernardi, Saverio Fera, Stefano Fera, Giancarlo Morettini, Claudio Risso, i dipendenti della Civica Biblioteca Berio, della Biblioteca della Società Ligure di Storia Patria, della Biblioteca Universitaria di Genova e del Museo Biblioteca dell’Attore. Un ringraziamento particolare va ad Antonio Figari, per l’utilizzo della descrizione della Torre dei Maruffo presente nel suo sito internet, e a Manlio Todeschini, una vera e propria miniera di informazioni e notizie sul quartiere di Castelletto.

    I.

    La città medievale

    1.

    La Porta Soprana

    Nel nome di Dio onnipotente, Padre Figlio e Spirito Santo. Amen / Sono difesa da uomini, circondata da mirabili mura / e con il mio valore scaccio lontano i dardi nemici. / Se porti pace, puoi toccare pure queste porte, / se mi muovi guerra, triste e battuto ti ritirerai. / Il Meridione e il Ponente, il Settentrione e l’Oriente sanno / su quali enormi moti di guerra io Genova ho sostenuto vittoriosa. / Nel consolato del Comune di Guglielmo Porco, Oberto Cancelliere, Giovanni Maluccelli, e Guglielmo Lusio, e dei placiti [ovvero dei giudici, n.d.a.] Boemondo di Odone, Bonvassallo di Castro, Guglielmo Stangone, Guglielmo Cigala, Nicola Roca e Oberto Recalcati.

    Così la città di Genova – parlando al visitatore in prima persona – lo ammoniva circa le sue intenzioni. Questa iscrizione si trova su una lapide attergata a una delle due torri di Porta Soprana. Era questo l’ingresso principale da Levante della cinta muraria edificata intorno al 1155, in previsione dell’attacco dell’imperatore Federico Barbarossa. Il sovrano tedesco sceso in Italia, dopo nove settimane d’assedio, aveva raso al suolo Tortona. Tutti i Comuni decisero allora di pagare il tributo al Barbarossa. «Ma i consoli genovesi – scrive l’annalista Caffaro, coevo alle vicende narrate – benché spesso s’avesser da molti consigli e incitamenti a pagargli pur essi un tributo, pur non gli voller dare o promettere il valore di un solo obolo». Insomma, neppure il timore di una feroce conquista può far scucire la benché minima imposta ai genovesi. Così ci si prepara alla guerra. I castelli intorno si muniscono di armi e guerrieri, la città rafforza le proprie difese. «Frattanto uomini e donne tutti, – continua l’annalista – in Genova, non ristando, dì e notte, di portar pietre e arena, avean le mura a tal punto avanzate in soli otto giorni, che qualsiasi città d’Italia pur con lode non sarebbe riuscita altrettanto. Laddove poi il giro delle mura non si congiungeva, e dove sufficiente altezza non lo assicurava, così in tre giorni lo rafforzarono di castelli altissimi, costruiti con gli alberi delle navi, di frequenti bertesche, di spaziosi e robustissimi spalti, che l’impeto di tutta Italia e Alemagna, purché non fosse contrario Iddio, non vi avrebbe dischiuso un passo».

    Pur di non darla vinta al Barbarossa i consoli e i consiglieri della città, distribuirono i soldati, i balestrieri, gli arcieri per tutte le fortificazioni all’interno come all’esterno delle mura che «solo per la loro vettovaglia – sottolinea sempre il Caffaro – spendea ogni dì un cento marchi d’argento».

    Quando nel xiv secolo la cinta muraria venne allargata, il nuovo ingresso orientale era ormai rappresentato dalla Porta di Santo Stefano. Porta Soprana (una deformazione dell’espressione originale di Superana, cioè che sta sopra, in posizione elevata) fu inglobata all’interno del quartiere di Ponticello, soffocata quasi dai palazzi intorno, mentre nell’arco tra le due torri venne costruita una casa a un piano, poi raddoppiato nell’Ottocento.

    In occasione del quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America, si decise il restauro della porta, che fu affidato all’architetto portoghese Alfredo D’Andrade, allievo di Viollet-le-Duc, l’inventore del Medioevo, il quale asseriva che «…restaurare un edificio, non è solo mantenerlo, ripararlo, o ricostruirlo, è riportarlo a una condizione completa che potrebbe non essere mai esistita». Così fu per la Porta Soprana, non solo liberata dalle superfetazioni che l’avevano soffocata nel corso dei secoli, ma ricostruita in gran parte, merli compresi. Dopo la demolizione nei primi dell’Ottocento della collina della Coêulia alla sua sinistra, e del quartiere di Ponticello negli anni Trenta, ora si erge imponente in una breve salita che immette nella piazza Dante, attaccata alla sua epoca solo dalle mura cosiddette del Barbarossa che, miracolosamente intatte, per lo meno nel tratto alla sua destra, si dirigono verso la collina di Sarzano.

    2.

    Piazza delle Erbe

    Piazza delle Erbe è il fulcro della vita notturna giovanile della città, della Movida, della Erasmus Generation. Ma ovviamente il toponimo parla chiaro: sin dal xvii secolo – in questo luogo denominato piazza Nuova la Nuova o piazza Nuova da Basso (per distinguerla dalla vicina piazza Nuova di fronte a Palazzo Ducale) – era la sede del mercato degli ortaggi e delle verdure. Nel 1628 nell’odierna piazza Matteotti il barchile (cioè la fontana ivi esistente) per motivi di viabilità venne spostato nell’adiacente piazza San Domenico (oggi De Ferrari, nell’area attualmente prospiciente al Teatro Carlo Felice), troppo lontana tuttavia per poter soddisfare le necessità idriche dei venditori di piazza delle Erbe. Viste le proteste di quest’ultimi, il 5 novembre 1694 i Padri del Comune emisero la seguente disposizione: «Sia concessa facoltà all’Illustrissimo Paolo De Marini di far condurre l’acqua che serva alle case di via Sellai [oggi via Boetto, De Ferrari, di fianco al Palazzo Ducale, n.d.a .] e che il notaro Gio. Batta Fabbiani ha condotto recentemente nell’abitazione dell’Illustrissimo Magistrato alla piazza delle Erbe, con facoltà data allo stesso Illustrissimo Paolo di farvi costruire una fontana barchile con piramide o senza o come parrà meglio a lui».

    Sei mesi dopo questa delibera, però, la fontana non era ancora stata costruita. Fu allora incaricato Marc’Antonio Doria di occuparsi della faccenda, come si evince dal testo del decreto ufficiale datato 6 aprile 1695. Qualche mese dopo il barchile era stato collocato nella piazza: un grosso cubo che gettava acqua da due lati. Ma un altro decreto ne deliberava il miglioramento, per lo meno dal punto di vista estetico. Lo scultore Giovanni Tomaso Orsolino realizzò un putto in marmo a cavalcioni di un grosso pesce, che fu inaugurato il 5 agosto 1699. Ma la storia non era ancora terminata. Due anni più tardi la statua fu ruotata verso la parte inferiore della piazza ovvero – come scrissero le cronache del tempo – «verso il maggior passaggio della gente».

    Da allora, per fortuna, il barchile non si è più mosso, anche se corroso dal tempo e probabilmente dai sassi lanciati dai batusi (cioè i monelli, in dialetto genovese) nel corso di tutti questi secoli, divenendo elemento di caratterizzazione della piazza.

    E a proposito di estetica, da qualche anno, nell’area che delimita la piazza dove le case furono abbattute dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, è sorto un edificio destinato a ospitare una nuova scuola. È un informe, invasivo, incombente e soffocante casermone, composto di più volumi accatastati l’uno sull’altro, completamente avulso dalla scenografia circostante. Insomma, un vero e proprio eco-mostro, che va ad aggiungersi alle perle della ricostruzione del Dopoguerra nel tessuto della città antica, tra le quali spiccano il palazzo dei portici nuovi di Sottoripa del 1951 e l’edificio della Cassa di Risparmio del 1966. Il nuovo istituto scolastico copre pressoché in modo definitivo la vista della duecentesca chiesa di Sant’Agostino e stravolge un paesaggio che, seppur deturpato in parte da costruzioni recenti in un’area turistica e caratteristica come piazza delle Erbe, era ormai consolidato da quasi settant’anni.

    3.

    La chiesa di San Donato

    «…La chiesa di San Donato, una delle chiese più antiche di Genova, così antica e così nera che nessun documento ne tramanda la fondazione…». Non è sbagliata questa osservazione fatta dal viaggiatore francese Aubert-Henry nel suo saggio Villes et gens d’Italie , pubblicato a Parigi nel 1923. Si presume che sia costruita su una preesistente cappella longobarda nel cuore della Genova compresa nella cinta muraria del nono secolo, lungo il carrubeus rectus usque in Ponticellum ovvero il vicolo dritto che conduce alla Porta Soprana. Non è chiaro il motivo per cui sia stata intitolata a San Donato martire e vescovo di Arezzo: forse per la presenza in questo rione di una comunità di mercanti provenienti da quella città.

    La testimonianza più antica che abbiamo è l’iscrizione su una lapide sullo stipite destro del portale sulla facciata: In nome di Nostro Signore Gesù Cristo, 1109 anni dopo la sua incarnazione, durante la settima indizione, al tempo di Giovanni, prevosto di San Donato. Ma poiché il prevosto Giovanni è citato in alcuni documenti dell’anno 1158, non è improbabile che lo scalpellino abbia commesso un errore di trascrizione incidendo mcix invece di mclx.

    La facciata venne in parte ristrutturata da Alfredo D’Andrade nel 1888: il rosone, le monofore, il protiro a fasce bianche e nere sono opera sua. L’architetto portoghese mise le mani anche sulla torre nolare ottagonale, in pietra di taglio del xii secolo, a tre ordini di colonne sovrapposte, con bifore, trifore, e quadrifore. Quest’ultimo ordine difatti fu aggiunto da lui.

    Quella torre colpì l’immaginazione del poeta francese André Frenaud il quale ne parla nella sua lirica Il silenzio di Genova del 1961: «…Fra i topi che sgusciano, gli occhietti lustri, / in vico dei Tre Re Magi, il campanile dagli otto profili stupisce / il cumulo dei calcinacci».

    In quel campanile nel 1650 si asserragliò con un gruppo di suoi uomini armati Stefano Raggio, accusato di cospirare contro il governo della Repubblica, sparando agli sbirri che erano accorsi per arrestarlo. Il Raggio, che aveva le case in questa piazzetta, fu poi arrestato per alto tradimento (reato peraltro mai provato), e si suicidò con una lama contenuta all’interno di un crocifisso, nel carcere della Torre di Palazzo Ducale.

    In San Donato furono battezzati tre artisti genovesi che si distinsero in altrettanti diversi campi: il pittore Alessandro Magnasco, che visse tra il xvii e il xviii secolo, il poeta dialettale Martin Piaggio, attivo tra il Settecento e l’Ottocento, e il violinista Camillo Sivori, allievo di Niccolò Paganini, trascorse la sua vita nel xix secolo.

    All’interno della chiesa, a metà della navata sinistra, si apre un’ampia cappella, un tempo oratorio della corporazione dei falegnami, dedicata a san Giuseppe, il loro patrono. Al di sopra di un altare marmoreo è collocata la pala del pittore seicentesco Domenico Piola, raffigurante il Bambino Gesù tenuto insolitamente in braccio da san Giuseppe anziché dalla Madonna. Tuttavia il dipinto più prezioso qui custodito è l’Adorazione dei Magi, un trittico dipinto nel 1515 dal pittore fiammingo Joos Van Cleve. Nel comparto di sinistra il ritratto del committente inginocchiato, Stefano Raggi (antenato dello Stefano citato poco sopra), con alle spalle il suo protettore celeste, santo Stefano. Nello scomparto a destra, Maddalena Raggi – la moglie defunta – è ritratta anch’ella inginocchiata e, come il marito, protetta dalla santa di cui portava il nome, Maddalena.

    3. La chiesa di San Donato

    4.

    La chiesa di Sant’Agostino

    La chiesa di Sant’Agostino è l’unica delle grandi chiese genovesi degli ordini mendicanti a essere sopravvissuta miracolosamente alla furia distruttiva del governo giacobino e a quella altrettanto nefasta degli speculatori. Se ne sta lì, in cima alla piazza un tempo intitolata al santo di Tagaste, nel Dopoguerra dedicata a Renato Negri, un partigiano carrarese morto nel corso di un mitragliamento aereo vicino a Pavia. La facciata a fasce di marmo bianco e pietra nera di promontorio, tripartita da lesene e con due bifore laterali, ha un portale strombato a sesto acuto. Nella lunetta un dipinto raffigurante Sant’Agostino tra gli angeli , un affresco di Giovanni Battista Merano, ha resistito agli oltraggi del tempo. Il rosone, sotto un fregio di archetti pensili, è stato ricostruito recentemente in vetro e metallo. Sul lato destro del transetto insiste la svettante torre campanaria, composta da ordini sovrapposti di bifore e quadrifore e terminante con un’alta cuspide rivestita da piastrelle policrome (frutto di un restauro degli anni Venti) e quattro guglie laterali.

    La chiesa venne fatta edificare intorno al 1260 dagli eremitani di sant’Agostino e in origine fu dedicata a santa Tecla. Nel Medioevo e oltre, intorno alla chiesa e al convento, si insediarono numerose consorterie come quelle dei tintori, bottai, setaioli, lanternai, coltellieri e calzolai. Nel xv secolo, infatti, a Genova abbiamo notizie dell’esistenza, non lontano dall’ingresso del convento della chiesa di Santa Tecla, dell’hospitale dedicato ai santi Crispino e Crispiniano, alle cui spese contribuiva la corporazione dei calegarii o cerdones o sochalarii, in una parola sola i calzolai. Nell’oratorio adiacente si trovava la cappella dell’Arte ovviamente anch’essa dedicata ai due santi patroni di tale professione. Nel 1447 la titolazione del complesso conventuale mutò ufficialmente e divenne quella attuale.

    In epoca napoleonica la chiesa, allontanati gli agostiniani, fu sconsacrata e depredata delle opere d’arte in essa contenute, altari compresi. L’edificio fu allora adibito alle attività più svariate: dalla fucina di un fabbro ferraio a deposito di carbon fossile, da magazzino del mobilio del Comune a teatro per burattini. Nel 1932, parzialmente restaurata, diventò il deposito del Museo di Architettura e Scultura Ligure.

    I bombardamenti della seconda guerra mondiale non risparmiarono la chiesa ma soprattutto il convento e i due chiostri, quello triangolare del basso Medioevo, quello quadrato del xvii secolo.

    Gli architetti Franco Albini e Franca Helg negli anni Settanta ristrutturarono completamente il complesso, inserendovi delle massicce strutture in acciaio a vista, compresi i solai e le scale d’accesso. Così il materiale un tempo depositato nella chiesa – le sculture e frammenti di chiese e palazzi demoliti in seguito ai vari piani urbanistici degli ultimi due secoli – è visibile negli ambienti ricavati all’interno dell’antico convento. La chiesa, invece, è utilizzata saltuariamente come auditorium per spettacoli teatrali e di intrattenimento o come sala per mostre ed esposizioni.

    5.

    Il Teatro di Sant’Agostino

    Oggi si chiama Teatro della Tosse, sino alla fine gli anni Settanta era il Cinema-Teatro Aliseo, fino alla seconda guerra mondiale il Teatro Nazionale, e infine nel Settecento il Sant’Agostino, dal nome della chiesa che si trova nella stessa piazza.

    Il Teatro di Sant’Agostino fu fondato nel 1701 dal nobile Nicolò Maria Pallavicino. Questi infatti acquistò dalla famiglia Durazzo alcune proprietà tra le chiese di San Donato e di Sant’Agostino, un’area che aveva subito pesanti danneggiamenti durante i bombardamenti della flotta del Re Sole nel 1684. L’edificio fu costruito nel 1702 secondo i canoni del teatro all’italiana: la sala a ferro di cavallo e cinque ordini di palchi. In seguito il teatro fu acquisito dalla famiglia Durazzo, che aggiunse due palchi in più per ogni fila e un sesto ordine sopraelevato, per il pubblico meno abbiente, la cosiddetta piccionaia. I Durazzo erano proprietari anche dell’altra sala operistica di Genova, il Teatro del Falcone. Così le stagioni liriche erano organizzate in modo che i due teatri non si facessero concorrenza.

    Nell’autunno del 1760, Gian Giacomo Casanova al Sant’Agostino mise in scena – in qualità di regista – una commedia. «Avevo finita la traduzione della Scozzese», ricorda il celebre seduttore veneziano nelle sue Memorie, che scrisse in francese. «La feci copiare da Costa, e quindi la portai a (Pietro) Rossi, direttore della compagnia il quale, quando seppe che gliene volevo far dono, mi offerse di farla rappresentare senza indugio… Fissammo il giorno della prova generale al teatro, e gli attori, per eccitare la curiosità, annunziarono la prima rappresentazione, otto giorni prima, in questi termini: "Rappresenteremo La Scozzese di Voltaire, tradotta da un ignoto e reciteremo senza suggeritore". La commedia fu portata alle stelle. Il teatro, grandissimo, era rigurgitante di pubblico scelto. Gli attori senza suggeritore, superarono loro stessi e furono vivamente applauditi. La commedia ebbe cinque repliche con il teatro esaurito».

    In questo teatro, Niccolò Paganini, «giovinetto già noto alla sua Patria per la sua abilità nel maneggio del violino», il 31 luglio 1795 tenne la sua prima accademia pubblica. Tra i brani in repertorio fu eseguita forse per la prima volta la Carmagnola con variazioni. Il ricavato del concerto consentì al giovane Paganini di proseguire gli studi a Parma, per perfezionarsi sotto la guida dell’allora celebre violinista Alessandro Rolla.

    Tra gli ospiti illustri del Teatro Sant’Agostino vi furono Carlo iv re di Spagna alla fine del xviii secolo e Napoleone Bonaparte nel 1805.

    Con l’apertura del nuovo Teatro lirico Carlo Felice, la fortuna del Sant’Agostino e del Falcone iniziò a decadere. Nel 1903 il teatro divenne proprietà dell’Accademia Filodrammatica Italiana con cui si esibì anche un giovane Gilberto Govi.

    6.

    La facoltà di architettura in San Silvestro

    In alto svetta l’antico campanile dagli ampi finestroni e dalla lanterna dal tetto ottagonale. Le rovine del convento di San Silvestro – sulle pendici del Castrum, dove in epoca medievale si innalzava anche il castello Arcivescovile – dopo i bombardamenti dell’ultima guerra erano diventate una delle aree archeologicamente più interessanti della città. Una descrizione di questa zona alla fine degli anni Sessanta ce la fornisce Mario Soldati.

    Sulla carta topografica, alle zone distrutte corrispondono perimetri spezzati e figure geometriche, rettangoli, trapezi, absidi colorate di un pallido verde, la stessa tinta dei parchi pubblici. Ma nessuno osa controllare. Nessuno ci va. Si contano forse sulle dita di una sola mano i turisti stranieri che provano, ogni estate, a valicare l’invisibile sipario che divide Genova viva da questo suo cuore morto. Il silenzio, la solitudine, lo spettacolo dello sfacelo respingono, persuadono subito ad arretrare. Nei vicoli e nelle salite, tra le commessure dei ciottoli, o tra i mattoni delle guide, cresce l’erba: tra il grigio o il rosso, il verde. Crescono i rovi sulle macerie. E macerie e vicoli sembrano stabilmente occupati da moltitudini di gatti. A gruppi o a individui, indisturbati, acquattati, torpidi, enormi, inselvatichiti, levano appena verso di noi la grinta combattente e segnata da cicatrici: si scansano con un gran balzo e una breve fuga, ma solo all’ultimo momento.

    Le rovine e le macerie di San Silvestro – in parte, come il campanile, ricostruite in uno studio cinematografico – furono utilizzate nel 1948 dal regista francese René Clement come principale ambientazione del film Le Mura di Malapaga, con Jean Gabin e Isa Miranda.

    Il monumentale marmoreo portale d’ingresso del convento si è miracolosamente salvato in mezzo a tanta distruzione. La trabeazione è retta ai due lati da altrettanti angeli-telamoni. Sopra l’architrave, tra due volute barocche, in un ovale sovrastato dal trigramma jhs, si affaccia la figura del santo. Un altro angelo vi si appoggia, un secondo regge un libro aperto affinché il sant’uomo possa indicare una frase sulla pagina. Subito dopo il bombardamento è stato traslocato e ricomposto nel cortile di Palazzo Rosso, in via Garibaldi, dove si trova tutt’ora.

    Negli anni Novanta questi ruderi – in buona parte restaurati – furono inglobati in edifici moderni, come quel lungo casermone rosso con le finestre costrette entro una teoria di pilastri. Ciò che si è salvato dal bombardamento in realtà non si abbina un gran che con quello che gli è stato costruito attorno. In ogni caso – poiché nel complesso dell’ex convento fu collocata la sede della Facoltà di Architettura – questo ha permesso di rivitalizzare il quartiere.

    7.

    Sarzano, l’antica piazza dei tornei

    A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare: L’aria pura è appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate.Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle risa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera che cela una campana: mentre, accanto, una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua e acqua senza fretta, nella vetta con il busto di un savio imperatore: acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano… Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza accesa sul corroso mattone su a capo dei vicoli gonfi cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata e torbida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza.

    Questo brano è tratto dalla breve lirica in prosa di Dino Campana intitolato Piazza Sarzano . La descrizione del luogo corrisponde più o meno ancora oggi, anche se è trascorso circa un secolo dalla composizione della poesia.

    La piazza – la cui etimologia più accreditata le attribuisce un significato mitologico (arx o saltus Jani: la fortezza o il salto di Giano) – aveva nel passato una duplice funzione. Nel quotidiano serviva per stendere le corde durante la lavorazione di tali oggetti. Nei giorni di festa veniva utilizzata – come ben scrive Dino Campana – come piazza dei tornei e delle giostre di cavalieri. Spesso era anche un campo di battaglia tra le fazioni cittadine, e in qualche occasione speciale ospitava eventi straordinari. Come quando nel novembre del 1311, proprio qui, davanti alle porte della basilica di San Salvatore, ebbe luogo il giuramento di fedeltà all’imperatore Enrico vii di Lussemburgo da parte dei maggiorenti della Repubblica.

    A proposito della chiesa di San Salvatore – dove fu battezzato Niccolò Paganini e che oggi è utilizzata come aula magna della Facoltà di Architettura – fino a qualche tempo fa esisteva non lontano dall’abside un tondo raffigurante il volto di Giuseppe Garibaldi. E questo a memoria di una drammatica vicenda accaduta all’eroe dei due mondi in questa piazza. Nel 1834, la besagnina (cioè fruttivendola) Natalina Pozzo, nascondendolo nel suo negozio, lo salvò dalle grinfie della polizia sabauda.

    Sotto il suolo della piazza esistevano due grandi cisterne fatte scavare dai Padri del Comune, in previsione di un eventuale assedio. Sopra il pozzo scoperto fu edificato un tempietto esagonale, realizzato su progetto di Bartolomeo Bianco nel xvii secolo. Sopra le sei colonne lisce una cupola sostiene il busto alto circa un metro, non di un savio imperatore romano – come immagina Dino Campana – ma di Giano Bifronte, il patrono pagano della città. Era opera cinquecentesca di uno dei fratelli Della Porta, una schiatta di eccellenti scultori. Come molti altri elementi architettonici cittadini, vagò in diversi luoghi e sopra varie fontane, fino a trovare pace sulla cupoletta che getta acqua senza fretta. A dire il vero il busto di Giano, dal 2001, la pace l’ha trovata qualche decina di metri più lontano, all’interno del Museo di Scultura Ligure di Sant’Agostino. Il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti che vediamo sul tetto del pozzo è una copia in resina e polvere di marmo, identica all’originale.

    8.

    Campo Pisano, il lager dei prigionieri pisani dopo la battaglia della Meloria

    L’ ampio declivio che, alle spalle delle mura del Barbarossa, si estende dalle ultime propaggini delle case di piazza Sarzano, e che in quell’epoca arrivava tramite un’erta scogliera fino al mare, fino al 1276 era chiamato Campus Sarzanni . Il 1284 è l’anno della battaglia della Meloria in cui Genova e Pisa si fronteggiano in uno scontro navale che si rivelerà decisivo per la supremazia sul Tirreno. La resa dei conti avvenne sulle secche che si trovano al largo di Livorno. Il numero maggiore di navi che Pisa può schierare (72 galee) non le garantirà il successo. Il 31 luglio il tentativo del podestà straniero (il veneziano Albertino Morosini) di attaccare il porto di Genova era fallito per l’arrivo di due possenti armate navali genovesi. Così Oberto Doria, comandante della flotta della Superba, insegue le navi nemiche nella zona tra le foci dell’Arno e il Porto Pisano. Lo scontro è inevitabile. Siamo al 15 agosto, giorno di San Sisto. Mentre le due armate navali si stanno affrontando in una battaglia durissima, all’improvviso arrivano le galee di Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova. I Pisani sono sopraffatti. Lo stesso Morosini è ferito e la sua galea catturata. Il conte Ugolino della Gherardesca (che Dante farà morire di inedia in prigione) dà il segnale della ritirata a Porto Pisano dove i resti dell’armata navale toscana trovano rifugio. I dati sono pesantissimi: 47 navi perse, 5000 caduti, 9000 prigionieri. Anche le perdite dei vincitori furono significative, nonostante il cronista locale Jacopo Doria minimizzi i danni ricevuti. Il cronista parmense Salimbene de Adam, infatti afferma: «Non ho voluto scrivere il numero dei prigionieri e degli uccisi di entrambe le città, perché era riferito in modo differente. L’arcivescovo di Pisa ne scrisse il numero preciso in una lettera al vescovo di Bologna, che è suo fratello germano, ma non ho voluto annotare questo numero perché aspettavo frati Minori di Genova e Pisa che me lo dicessero con più precisione».

    Lo stesso Salimbene, contemporaneo all’avvenimento, così descrive le condizioni dei prigionieri Pisani in quell’area che da allora in poi sarebbe stata denominata Campo Pisano.

    Ancora, nello stesso anno sopra notato (1284), dopo la guerra che i Pisani avevano avuto con i Genovesi, molte donne pisane, belle dame, nobili, ricche e potenti, si radunavano insieme, ora in trenta, ora in quaranta, e andavano da Pisa fino a Genova per fare ricerca dei loro uomini e visitarli. Infatti una aveva là il marito, un’altra il figlio o il fratello o un parente, e Iddio non «aveva fatto trovar loro misericordia presso quelli che li tenevano schiavi». E domandavano alle guardie delle carceri dei loro prigionieri. E le guardie rispondevano: «Ieri ne sono morti trenta e oggi quaranta. E li abbiamo buttati in mare. E facciamo ogni giorno così coi Pisani». Quelle signore, sentendo parlare in questo modo dei loro cari e non trovandoli più, per la troppa angoscia cadevano costernate a terra; e tanta era l’angoscia e il dolore del cuore che potevano appena respirare. E dopo un po’, riprendendo fiato, si laceravano il viso con le unghie e si strappavano i capelli. E ad alta voce piangevano urlando fino a tanto che avevano le lacrime…. Infatti nelle carceri i Pisani morivano per inedia e fame, per gli stenti e la miseria, per l’angoscia e la malinconia; perché li tenevano in loro potere quelli che li odiavano. E i loro nemici li trattarono duramente e furono umiliati sotto la loro mano. Non furono ritenuti degni nemmeno del sepolcro dei loro padri, ma furono privati della sepoltura. E quando queste donne pisane ritornavano a casa, trovavano altri morti: persone che avevano lasciate a casa sane.

    9.

    Santa Maria in Passione

    … [l’amico Borzini, n.d.a.] mi conduce ad ammirare il campanile di Santa Maria in Passione, svettante su una montagna di rovine e macerie, sgretolato e sublime, bello di una bellezza misteriosa, che nessuna fantasia di architetti potrebbe mai eguagliare. E la nostra contemplazione, a questo punto, è interrotta da una domanda angosciosa: che cosa dobbiamo fare? che cosa può suggerire «Italia Nostra»? che cosa sarebbe bene che decidesse, un giorno, l’amministrazione del Comune? Lasciare tutto come sta, che se ne vada a poco a poco in polvere? Oppure riparare, riattare, restaurare, recuperare alla vita e allo sfruttamento civile un quartiere così immenso, così centrale, così prezioso?

    Così si chiedeva Mario Soldati nel 1969 quando tornò a Genova a visitare la città antica dopo molti anni che non aveva più avuto occasione di aggirarvisi.

    La chiesa di Santa Maria in Passione è ancora lì, sventrata dai bombardamenti del 1942, aperta da un lato che crollò nel 1947 a causa di una pioggia torrenziale, con quell’occhio vuoto sopra il portone d’ingresso che conteneva un medaglione con Gesù assiso alla mensa, con – sulla facciata – le tracce della loggia di un edificio precedente al xvi secolo, l’epoca della sua ultima ricostruzione, con una improbabile copertura a cupola inserita qualche lustro fa, ma soprattutto quel campanile con cinque piccole cuspidi che svetta ancora oggi sulle rovine, ma non più sulle macerie.

    Sulla piazza – che il fanatismo giacobino aveva ribattezzato dell’Uguaglianza – alla sinistra guardando la chiesa, si affaccia un imponente edificio, di recente restauro che ha provveduto anche alla ridipintura della facciata secondo i disegni originali. È l’antica chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova. Edificata dopo la metà del xv secolo sui resti di due torri medievali appartenute alla famiglia Embriaci e sui ruderi delle mura preromane, per ospitare le monache agostiniane, venne interamente ricostruita nel xvii secolo.

    In questo monastero, in cui entrò giovanissima, Battistina Vernazza trascorse tutta la sua lunga vita, diventandone per due volte anche badessa.

    Oltre ad alcuni trattati spirituali, scrisse «…leggiadrissime rime» e, secondo lo storico ottocentesco Federico Donaver, «molte lettere in purissima lingua. Era così rinomata per la sua virtù ed il suo senno che il padre, eminenti personaggi e lo stesso pontefice la richiedevano di consiglio ed istruzioni. Benefica quanto mai, cooperò al padre suo [Ettore Vernazza, il fondatore dell’Ospedale degli Incurabili o dei Cronici, n.d.a.] nelle opere di beneficenza da lui create, e tutta la vita, finita il 9 maggio del 1587, dedicò alle pratiche religiose e al soccorso dei poveri». La sua causa di canonizzazione non fu mai portata a termine, non oltrepassando lo stadio di beatificazione.

    Scacciate le monache in epoca napoleonica, a seguito della legge sugli espropri dei beni ecclesiastici, l’edificio conobbe un paio di secoli di abbandono e di degrado.

    Acquistato nel 1987 dall’Università di Genova, grazie a un accordo tra la stessa Università e altre istituzioni, tra il 2003 e il 2004 il complesso fu oggetto di un completo restauro.

    Oggi l’ex convento – denominato Casa Paganini – ospita un auditorium da 230 posti, con un palco rialzato che può contenere un’orchestra da camera e un centro di studi sul genio del violino nato non molto distante da qui.

    10.

    Giordano Bruno a Santa Maria di Castello

    Al culmine di una salita di mattoni rossi che si inerpica su per il Castrum e che vi arriva frontalmente, oppure di una scalinatella che conduce all’ingresso laterale, si staglia la chiesa di Santa Maria di Castello.

    La chiesa – conosciuta da sempre come Sancta Maria de Castro – secondo la tradizione venne fondata dal re longobardo Ariperto nel 658, in ringraziamento alla Beatae Mariae Virginis sacrum per la vittoria sull’eresia ariana. Questa zona, a partire dal castellaro preromano, per passare alle fortificazioni romane e bizantine poi, e quindi al palazzo vescovile (tra il ix e il x secolo), è stata per diversi secoli il centro del potere politico-religioso cittadino. Nel primo quarto del xii secolo i canonici della chiesa in questo territorio favorirono una notevolissima crescita immobiliare. In seguito a tale politica anche il tempio primitivo fu ricostruito secondo le forme attuali. Il 3 maggio 1237 la chiesa – opera dei Magistri Antelami provenienti dalla valle d’Intelvi, dei quali straordinaria è la capacità di utilizzare materiale romano di reimpiego, come i capitelli a foglia d’acanto o l’architrave del iii secolo del portale centrale – fu consacrata alla Virgo gloriosa dal patriarca di Gerusalemme Giraldo e dall’arcivescovo Ottone di Genova.

    Nel 1442 Santa Maria di Castello passò definitivamente ai domenicani, i quali acquisirono nuovi spazi, demolendo edifici preesistenti. Il campanile, inserito sul braccio sinistro del transetto, venne realizzato riutilizzando una preesistente torre già appartenuta alla famiglia Embriaci, che in quella zona aveva diverse proprietà.

    Il complesso conventuale possiede ben tre chiostri, tutti edificati nel xv secolo o poco oltre. Tra gli affreschi della volta del loggiato superiore spicca l’Annunciazione di Giusto di Ravensburg, dipinto nel 1451. Nel convento un’intera sala è dedicata alla conservazione e all’esposizione di un gran numero di reliquie di santi: teschi, ossa, arti, frammenti ossei spesso decorati con perle e altre pietre preziose. A proposito di reliquie, Giordano Bruno arrivò a Genova qualche giorno prima della domenica delle Palme del 1576, che in quell’anno cadeva probabilmente il 15 aprile. Non tutti gli storici sono d’accordo sul suo soggiorno nella Superba. Ma in due sue opere egli fa riferimento a una curiosa vicenda avvenuta a Santa Maria di Castello. In un passo del Candelaio uno dei protagonisti entrando in scena giura sulla «benedetta coda dell’asino che adorano i Genovesi». E nello Spaccio della bestia trionfante, lo stesso Bruno afferma: «Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: Non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolima. Adoratela, baciatela, porgete limosina: centum accipietis, et vita aeternam possidebitis». La preziosa seppur insolita reliquia veniva mostrata in occasione della commemorazione dell’entrata di Cristo in Gerusalemme a cavallo di un’asina, appunto in quella che è chiamata domenica delle Palme.

    Tra le altre curiosità, a Santa Maria di Castello, si trovano il sepolcro di Lorenzo Maggiolo, il maestro di filosofia di Pico della Mirandola, e il cenotafio di Demetrio Canevari, archiatra di papa Urbano vii.

    11.

    La Torre di Guglielmo Embriaco

    Guglielmo Embriaco, console, mercante, guerriero, corsaro e diplomatico, è una figura carismatica della Genova tra l’ xi e il xii secolo. Il suo nome – e il suo soprannome, Caput Mallei, Testa di Maglio – è legato alla prima Crociata, poiché nel 1099 partecipa a diversi assalti alle mura di Gerusalemme. Anzi il suo apporto sarà determinante per l’esercito cristiano alla conquista della città. I genovesi, arrivati nel porto di Giaffa, smantellarono le due galee con le quali erano giunti in Terra Santa e su carri trainati da buoi portarono il legname ricavato sotto le mura di Gerusalemme. Qui l’Embriaco e i suoi uomini allestirono due o tre torri d’assedio (le fonti storiche sono discordanti), ciascuna composta da tre piani, dotata di ruote per poterla avvicinare alla cinta muraria e ricoperta di cuoio imbevuto d’aceto affinché gli assediati non la potessero incendiare. Il 15 luglio di quell’anno la città è conquistata dai crociati di Goffredo di Buglione, che danno inizio a una vera e propria carneficina. La vigilia di Natale, Guglielmo, con la sua nuova flotta e un cospicuo bottino, fa ritorno in patria che, tenute per un momento in disparte le lotte intestine, lo accoglie come un trionfatore.

    Guglielmo Embriaco sarà ricordato anche da alcuni poeti, di non secondaria importanza. Come Torquato Tasso che nel canto xviii della Gerusalemme Liberata così lo descrive:

    Pur artefice illustre a questa volta

    è colui ch’alle travi i vinchi intesse;

    Guglielmo, il Duce Ligure, che pria

    signor del mare corseggiar solía…

    Costui non solo incominciò a comporre

    catapulte, baliste, ed arieti;

    onde alle mura le difese torre

    possa, e spezzar le sode alte pareti;

    ma fece opra maggior: mirabil torre,

    ch’entro di pin tessuta era, e d’abeti;

    e nelle cuoja avvolto ha quel di fuore,

    per ischermirsi da lanciato ardore.

    E Gabriele D’Annunzio, nella sua Canzone del Sangue, rincara la dose:

    Tornò Guglielmo Embrìaco recando

    ai consoli giurati, in sul cuscino,

    tra la sesta e il bastone di comando,

    tra la coltella e il regolo, il catino

    ove Giuseppe e Nicodemo accolto

    aveano il sangue dell’Amor divino.

    Era desso, l’Embrìaco, figliuolto,

    quei che fece al Buglione il battifredo

    onde il vóto santissimo fu sciolto.

    Con le mani che diedero a Goffredo

    la scala invitta, sopra il popol misto

    levò la tazza. E il popol disse: «Credo».

    Infatti nel 1101, da un’altra spedizione in Terra Santa, Guglielmo ritorna con un bottino ancora più pingue, e tra questo spicca un verde catino esagonale allora ritenuto di smeraldo, in cui, secondo la tradizione, fu raccolto il sangue di Cristo sotto la Croce da Giuseppe d’Arimatea o da Nicodemo. Un’altra leggenda sostiene che quel vaso fosse stato utilizzato dal Salvatore nell’Ultima cena. Oggi è conservato nel tesoro della cattedrale.

    La nobile famiglia degli Embriaci, una delle più importanti a Genova nei primi due secoli dopo il Mille, aveva molte proprietà sulle pendici della collina del Castrum. Il loro nome è ricordato da una piazza e da una torre alta ottanta palmi (circa 41 metri) in conci bugnati di pietra a vista, terminante con tre ordini di archetti pensili aggettanti, con un’elegante merlatura guelfa ricostruita dopo un restauro del 1927. La torre degli Embriaci fu in seguito parzialmente inglobata in un palazzo edificato dalla stessa famiglia e quindi acquisito da Pagano Giustiniano.

    Nel 1196 il podestà milanese Drudo Marcellino, come provvedimento di ordine pubblico, onde limitare le lotte intestine tra le varie fazioni cittadine, fece abbassare a 80 piedi l’altezza delle torri. L’unica a essere esentata da tale provvedimento fu quella di Guglielmo Embriaco, in riconoscenza delle sue grandi imprese condotte in Terra Santa.

    12.

    Émile Bernard nella Torre degli Embriaci

    «L a prima volta che la vidi [nel 1893, n.d.a. ] l’impressione fu così forte che sempre l’ebbi nel mio pensiero e sempre vi ritornai, ad ogni mio viaggio in Italia». Così scrisse il pittore neo-impressionista francese Émile Henri Bernard al sovrintendente delle Belle Arti del Comune di Genova Orlando Grosso nel 1922, in occasione della terza visita dell’artista di Lille nella Superba.

    Col tipico cappello nero, a cono e a larghe falde, degli artisti di Montmartre, alla cui ombra brillavano gli occhi grigi, vivaci, indagatori, resi più lucenti dagli occhiali a stanghetta, il suo volto appariva, per i capelli lunghi e bianchi, per il pizzo candido al mento e le labbra lineari, soffuso di un’austera nobiltà. Un lungo mantello nero con due fermagli d’argento avviluppava la sua piccola persona e nascondeva l’abito di velluto, dai calzoni stretti alla caviglia, per lasciare in bella mostra i piedi eleganti, minuscoli, ben calzati.

    Questa la descrizione che ci fornisce di lui proprio Orlando Grosso che lo andò a trovare nell’appartamento del Palazzo Brignole in piazza Embriaci, che il pittore aveva preso in affitto. Bernard – che era venuto a Genova per studiare i dipinti e i disegni di Luca Cambiaso – abitava proprio in un locale ricavato nella torre cosiddetta di Guglielmo Embriaco. «L’inverno (del 1922) era molto rigido», continua Orlando Grosso, «e la gelida camera nella Torre: Émile Bernard fu colpito da una brutta bronchite. Lo trovai nella squallida cameretta, con il devoto Maire [André, suo genero, anch’egli pittore, n.d.a.] mutato in amoroso infermiere, seduto sul modesto lettuccio di ferro, eretto, con gli occhi scintillanti, sempre dominatore, fra numerosi disegni cambiaseschi, sparsi sulle coltri e sul pavimento. I lunghi capelli candidi, il pizzo alla Guido Reni, la nivea camicia da notte dal colletto rovesciato, e chiuso da cordoncini, le ampie maniche – le mani ne risultavano più delicate, fini, aristocratiche – mi richiamarono serrate ai polsi certe figure della pittura ottocentesca».

    In quei giorni attendeva anche alla stampa dei sonetti Figurations Eternelles.

    Se al suo arrivo l’avevano colto la neve e il gelo, il giorno della sua partenza era una limpida giornata di primavera. Un nugolo di rondini svolazzava nel cielo sopra piazza Embriaci.

    «Cercherò di ricordare Genova così, – confidò Bernard all’amico genovese Carlo Otto Guglielmino che lo accompagnava – come mi ha salutato, con questo girotondo di ali attorno alle vecchie pietre, ma non dimenticherò neppure il mio primo incontro con Genova che ho conosciuto di notte, tra turbini di neve. Genova è bella sempre».

    13.

    Le Mura della Marina e l’oratorio Sant’Antonio Abate

    Le Mura della Marina – il tratto delle fortificazioni a mare che dalla foce del rivo Torbido (in dialetto chiamata appunto Mænn-a ovvero Marina) proseguono fino al successivo tratto fortificato denominato Mura delle Grazie – erano costruite a strapiombo sul mare e sopra gli scogli su cui s’infrangevano le onde. A partire dal 1880 – con la costruzione della Circonvallazione a Mare e il relativo riempimento – da mura di difesa si trasformarono in muri di sostegno per l’arteria di traffico sottostante.

    Sopra uno di quegli scogli che sparirono inghiottiti dalla terra di risulta, sin da tempo immemore si trovava una cappella chiamata Madonna della Stella, assai venerata dai marinai genovesi. Una copia di quell’immagine votiva oggi si trova sopra un altare all’interno dell’Oratorio di Sant’Antonio Abate detto appunto della Marina.

    Sin dal 1232 esisteva una compagnia di disciplinanti o dei battuti – perché si flagellavano come penitenza dei peccati – appartenenti all’Ordine di sant’Antonio Abate. A Genova – avevano la loro casaccia ovvero sede, nella chiesa di San Domenico (sulla cui area – oggi piazza De Ferrari – nel 1827 fu edificato il Teatro Carlo Felice) o, secondo altre fonti in San Silvestro sul colle di Sarzano.

    Della pietosa devozione che fanno ogni anno i fratelli Disciplinanti, dei venti Oratori, ossia venti Confraternite, che sono in la città, non si potrebbe dir troppo; comecchè la notte del venere [venerdì, n.d.a.] santo si vestano di sacco circa cinquemila persone: e così qualche altra fiata quando la città implora il divino aiuto, e scalzi discorrono per le chiese, con bellissime cerimonie; e con sommo silenzio si battono le spalle con cordicelle e con rosette d’argento pungenti con tanta effusione di sangue che muovono a compassione non solamente i buoni devoti, ma eziandio i cattivi e ostinati.

    Questa era la descrizione dell’attività dei disciplinanti a Genova fornitaci dall’annalista dell’inizio del Cinquecento Agostino Giustiniani.

    Intorno al 1460 i membri della confraternita – nel punto in cui si trovava la Madonna della Stella poi chiamato Miradore – edificarono un oratorio.

    Quello che vediamo oggi non è l’edificio originario, bensì una ricostruzione avvenuta nel 1706 dopo che l’antico oratorio venne demolito dalle bombe della flotta del Re Sole del 1684. La facciata piuttosto semplice, presenta nella parte in alto un finestrone lunettato. Nella nicchia sopra il portale d’ingresso – che si apre su una discesa digradante verso la sottostante è collocata la statua seicentesca di sant’Antonio Abate, alla sua destra un’effigie della Madonna, sotto la quale è incastonata una piccola iscrizione marmorea che recita: Posuerunt Me Custodem (Mi hanno posto qui a protezione).

    14.

    Le Mura delle Grazie e l’oratorio di San Giacomo della Marina

    Un tempo le onde si frangevano sugli scogli su cui si ergevano le possenti mura che qui si innalzavano probabilmente sin dai tempi della prima cinta carolingia del ix secolo. Quelle mura in cui però nel 935 i Saraceni comandati dall’ammiraglio Ya qub ibn Ishàq riuscirono ad aprire una breccia. «Sfondarono le mura di Genova», racconta lo storico siriano due-trecentesco al-Dhahabi , «entrarono e percorrendo in armi la città, fecero una grande strage di uomini. Una volta impadronitisi della città, catturarono mille donne. Quindi raggiunsero Mahdyah [capitale fatimida a sud dell’odierna Tunisi, n.d.a. ] con le prede».

    Le mura attuali risalgono invece alla metà del xvi secolo quando si decise di fortificare il tratto che dalla Marina di Sarzano arrivava fino alla erigenda Porta del Molo dell’Alessi.

    Da una lettera datata 18 settembre 1553 veniamo a sapere che su richiesta del governo della Repubblica, anche papa Giulio iii aveva concesso che per dieci anni anche il clero, come tutti gli altri cittadini, pagasse la tassa per i finanziamenti della costruzione delle mura a mare, tassa che ammontava a due soldi per merzarola di vino. La concessione fu prorogata di cinque anni, poi di ventidue, ma nel 1590 qualcuno non aveva pagato ancora la prima rata.

    Nel camminamento al di sopra di queste mura, che oggi fiancheggiano in modo irregolare corso Aurelio Saffi, – l’importante direttrice di traffico veicolare sorta alla fine del xix secolo dal riempimento della costa sottostante – tra i palazzi che lo contornano è innestato l’oratorio di San Giacomo della Marina. Quasi non si noterebbe se non fosse per quei cinque finestroni di forma barocca e dal forse eccessivo colore rossastro del recente intonaco. Nel 1403 alcuni membri della Casaccia dei Santi Giacomo e Leonardo di Pré, resisi autonomi, fondarono un’altra confraternita che intitolarono a san Giacomo e un oratorio come propria sede. Verso la fine del Cinquecento il numero dei confratelli aumentò a tal punto che si rese necessario l’ampliamento dell’oratorio. L’edificio fu ricostruito in forme barocche tra il 1589 e il 1650, grazie a un prestito di 4000 lire di un tal Nicolò Canepi. Adornato con nuove decorazioni nel 1788, chiuso in epoca napoleonica (1811) e riaperto quattro anni dopo, fu l’unico oratorio genovese i cui beni non andarono dispersi. Per fortuna, perché l’Oratorio di San Giacomo della Marina è considerato uno dei musei dell’arte genovese del Seicento, con opere dipinte da alcuni dei maggiori artisti liguri del tempo, come Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, Orazio De Ferrari, Giovanni Battista Carlone, Valerio Castello e altri.

    L’interno, costituito da un’unica navata, presenta alle pareti una successione di lesene che si alternano a riquadri decorati a stucchi, con dodici grandi dipinti.

    La confraternita di San Giacomo della Marina nel 1712 fu la prima a Genova a usare le cappe di seta nel corso delle processioni. Fino al 1891 qui era custodita la cassa processionale realizzata da Anton Domenico Parodi con un gruppo ligneo raffigurante la Beata Vergine e san Giacomo. In quell’anno fu venduta alla parrocchia di San Giacomo di Cornigliano, dove è tuttora conservata.

    15.

    Il santuario della Madonna delle Grazie al Molo

    Sulla piazza delle Grazie, nel quartiere del Molo, si innalza un monumento marmoreo. Sorretto da una base cilindrica innestata su di un tronco di cono, un gruppo statuario è così composto: in alto, un frate – la classica lunga barba, il saio, una mantellina, il cordone, la sporta e il rosario – con la mano destra indica il cielo. Lo sguardo è rivolto verso le persone che, inginocchiate ai suoi piedi, lo stanno implorando: un marinaio, un uomo a torso nudo, una donna che stringe tra le mani una fanciulla morente. Si tratta del monumento dedicato al frate cappuccino vissuto nel xix secolo – Francesco Maria da Camporosso, conosciuto come Padre Santo – realizzato dallo scultore Guido Galletti in occasione della canonizzazione del frate, fino a poco tempo fa popolarissimo a Genova, avvenuta nel 1962. Nel sottosuolo di quella piazzetta, che è collocata sopra le antiche mura a mare, che prima della costruzione della strada a Circonvallazione a Mare giungeva fino qui sotto, si trova una grande cisterna quattrocentesca in cui venivano convogliate le acque dell’acquedotto.

    Di fianco alla statua sorge un edificio ecclesiastico dall’aspetto non eccelso: la facciata, ricostruita nel Dopoguerra in seguito a un bombardamento, e la struttura esterna sono settecentesche, ma la cripta all’interno – una piccolo vano semicircolare, sorretto da colonne dai capitelli arcaici di varia forma – risalirebbe addirittura al iv o al v secolo. La piccola cappella venne dedicata ai Santi Nazario e Celso i quali, secondo un’antichissima tradizione, nel 66 sarebbero sbarcati in quel luogo per evangelizzare la Liguria. Probabilmente però il culto dei due santi fu introdotto dal clero milanese che nel vi secolo si trasferì a Genova per sfuggire ai Longobardi di Rotari, mentre altre fonti daterebbero quella cappella al 658 quando il re longobardo Ariperto i avrebbe fatto edificare il tempietto sulla scogliera nei pressi dell’insenatura dove erano sbarcati a Genova i due santi, le cui reliquie, dal 1966, sono conservate nella cavità dell’altare maggiore. Nel xii secolo, quando la chiesa fu innalzata a parrocchia (1183), ebbero luogo una nuova ricostruzione e nuova intitolazione, questa volta alla Madonna delle Grazie. E questo perché una statua lignea policroma, raffigurante appunto la Vergine con il Bambino benedicente in braccio, venne portata a Genova dall’Armenia per salvarla dai Turchi, e fu collocata nella chiesa. L’avvenimento è sicuramente anteriore al 1298, poiché era presente un ex voto lapideo per la protezione delle galere alla battaglia della Curzola, vinta in quell’anno dai genovesi contro i veneziani. In questa chiesa nel Natale del 1495 fu allestito il primo presepio genovese.

    Negli archivi parrocchiali si trova la registrazione del battesimo di Felice Romani, nato nel quartiere del Molo il 31 gennaio del 1788. Romani – librettista, poeta e critico musicale fra i più noti e prolifici del suo tempo – fu autore di poco meno di cento di libretti, scritti per le opere dei più grandi musicisti – italiani e stranieri – del suo tempo, ovvero nella prima metà dell’Ottocento: Gaetano Donizetti, Saverio Mercadante, Giacomo Meyerbeer, Giovanni Pacini, Gioachino Rossini e Giuseppe Verdi (per il dramma giocoso Un giorno di Regno). Lo stesso Vincenzo Bellini – di cui Romani scrisse i libretti per sette opere – nutriva per lui una grande ammirazione e lo considerava il più grande librettista della propria epoca.

    16.

    San Marco al Molo

    «P oiché la naturale insenatura del porto non è molto ampia, i nostri avi e i contemporanei hanno fatto e fanno un lavoro, che è oggetto di meraviglia, e che è chiamato Molo per favorire il porto stesso, fu edificato sulla marina con pietre, malta e con calce che, in verità, costa di più di un’intera città».

    Il grande investimento finanziario che i genovesi impiegarono per la realizzazione del Molo, la più importante struttura portuale del tempo – cantata nel dialetto locale nella lirica del cosiddetto Anonimo genovese alla fine del xiii secolo di cui abbiamo proposto un brano – non sfuggì neanche a Francesco Petrarca, il quale nel 1358 ribadì il concetto nel suo Itinerarium Siriacum.

    Vedrai dunque una città potente sul fianco di un colle pietroso, orgogliosa degli uomini e delle mura, che l’aspetto stesso indica come signora del mare. In essa potrai ora vedere i costumi della popolazione, la posizione dei luoghi, lo splendore degli edifici e soprattutto la flotta, terribile e temibile per tutte le coste, cosa che fu scritta a proposito della flotta di Tiro. Lì ammirerai il molo posto di fronte al mare e il porto artificiale, spesa inestimabile e opera colossale, che ogni giorno invano le tempeste colpiscono.

    Nel 1173 in questo luogo – l’attuale via del Molo – fu fondata la chiesa di San Marco. Nel gennaio del 1173 il Comune di Genova vende 48 piedi di terreno, ovvero circa 200 mq per 50 lire (sito et licentia) ai fratelli Streggiaporco per l’edificazione di una chiesa – che in seguito intitolata a San Marco – sulla penisola del Molo, un’area protetta per le arti della navigazione e strategica per la conduzione del porto. Non a caso, tra la fine del xiii secolo e l’inizio del successivo, sarà rettore della chiesa Giovanni da Carignano, il primo cartografo genovese di cui ci sia giunta notizia. L’edificio venne completato nel 1177, dopo la morte dello Striggiaporco che fu sepolto all’interno. La chiesa ha l’abside rivolta a est, ma alla fine del xvi secolo, proprio lì sarà aperto il nuovo ingresso principale, e il tempio orientato verso occidente.

    All’esterno nel muro della chiesa è inserito un bassorilievo marmoreo raffigurante il Leone di San Marco, sottratto alla città di Pola, dopo la conquista della città da parte dei genovesi nel 1380. Nel 1923 alla municipalità di Pola fu offerta una riproduzione in marmo del Leone veneto ma l’epigrafe che ricorda la vittoria dei genovesi, venne sostituita con un’iscrizione che inneggia al fraterno animo di Genova nella restituzione ideale dell’antico trofeo.

    La chiesa rappresentava l’ultima sosta del condannato a morte, prima di essere giustiziato. Il rettore di San Marco gli impartiva l’ultima benedizione prima che il corteo della Confraternita di San Giovanni Battista – proveniente dal carcere di Sant’Andrea, nei pressi della Porta Soprana e composto oltre che dai confratelli, dal condannato, dal boia e dai suoi aiutanti – riprendesse il suo lugubre cammino fino alla cosiddetta Piattaforma del Molo, oltre la porta Siberia. L’ultima esecuzione ebbe luogo il 13 settembre 1852.

    Lungo la via del Molo, dalla parte opposta alla chiesa, si trovano i Magazzini dell’abbondanza, un edificio costruito alla fine del Cinquecento per l’immagazzinamento delle granaglie, mentre nell’adiacente vico Palla, sorge il Magazzino del Sale, da tempo abbandonato, utilizzato come deposito del sale.

    17.

    Il festone dei Giustiniani

    Dalla piazza San Giorgio partono due strade entrambe dette de’ Giustiniani. La prima che passa a destra di questa chiesa in mezzo alla fila raddoppiata di palazzi conduce a Piazza Giustiniani. La strada poi Giustiniani lunga, che ha principio da quella che da San Giorgio va a San Cosma, è ugualmente ricca di palazzi a portico e fabbricati di bell’aspetto all’esterno e di commoda abitazione all’interiore. Primieramente ne è uno a sinistra, su di una piazzetta, già della nobil famiglia Cattaneo [oggi piazza Grillo Cattaneo, in cui si trova uno straordinario portale scolpito da Antonio della Porta, n.d.a.]… Ne son quindi altri sulle due file, come quello del q. Gio. Luca Giustiniani, nel quale havvi una volta spiritosamente colorita da Valerio Castello con Galatea fra le onde…

    Questa è la descrizione che un anonimo viaggiatore faceva nel 1818 della zona che comprende le due antiche strade Giustiniani, dedicate alla nobile famiglia genovese. Oggi, Giustiniani lunga si chiama via San Bernardo, dal nome della chiesa che esisteva nella strada, in cui in passato

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1