Altri femminismi: Corpi#Violenza#Riproduzione#Culture#Lavoro
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Altri femminismi - AA. VV.
Esplorazioni
Parola di Donna
Altri femminismi
corpi#violenza#riproduzione#culture#lavoro
a cura di
Teresa Bertilotti, Cristina Galasso
Alessandra Gissi, Francesca Lagorio
Nuova Edizione
manifestolibri
Società italiana delle storiche
COMITATO SCIENTIFICO
Luciana Castellina; Rino Genovese;
Massimo Ilardi; Enzo Scandurra
REDAZIONE
Carmelo Albanese; Marco Grispigni,
Paolo Vernaglione
PROMOZIONE
Monia Cappuccini
PROGETTO
Le donne parlano
Simona Bonsignori
Nuova edizione aggiornata degli atti del convegno organizzato dalla SIS: Nuovi femminismi, nuove ricerche, Roma, Casa Internazionale delle donne, 19/04/2005
© 2006 manifestolibri
© 2018 manifestolibri
La Talpa srl
Via della Torricella 46
Castel San Pietro Romano (RM)
ISBN 979-12-8012-412-8
www.manifestolibri.it
book@manifestolibri.it
ufficiostampa@manifestolibri.it
in copertina: immagine da Shutterstock Inc.
Nota alla nuova edizione
Quando, su sollecitazione dell’editore, abbiamo cominciato a pensare a una nuova edizione di Altri femminismi ci siamo subito rese conto che non potevamo pubblicare la semplice ristampa di un volume, che pure ha rappresentato un punto di riferimento e uno stimolo per gli studi sui femminismi.
Abbiamo perciò chiesto alle autrici di aggiornare i loro contributi con una bibliografia che portasse ai giorni nostri la ricerca sui singoli temi affrontati. Il saggio sul femminismo islamico è stato arricchito da un’ampia rassegna bibliografica curata da Sara Borrillo.
Gli aggiornamenti che pubblichiamo in questa seconda edizione non possono e non vogliono essere l’ultima parola su questi temi che proprio in anni recenti sono divenuti più ampi, più complessi, spesso più intricati e controversi. Tuttavia, ci sembra utile riproporre questi contributi per affrontare la fitta trama del presente, proprio in un momento in cui le pratiche femministe si rinnovano e si costruiscono su basi transnazionali, come nel caso del movimento Non Una Di Meno/Ni Una Menos.
La prima edizione di questo libro, uscita ormai un decennio fa, metteva a fuoco nuove rilevanti questioni enucleate nell’introduzione. Questioni che attraversavano tanto le pratiche femministe quanto la ricerca nei diversi settori disciplinari.
Partendo da questa impostazione, abbiamo pensato fosse opportuno inserire due nuovi contributi su temi oggi all’ordine del giorno tanto nel dibattito pubblico quanto in quello accademico. Si tratta dei saggi di Laura Schettini sulla violenza contro le donne e di Chiara Lalli sulla fecondazione assistita e la gestazione per altri. I due contributi affrontano infatti questioni non ancora pienamente tematizzate dieci anni fa, ma che perseguono l’obiettivo che anche questa seconda edizione si prefigge: analizzare le problematiche dei femminismi contemporanei che ci appaiono più urgenti e cogliere le sfide che tutte e tutti noi abbiamo davanti.
Roma-Livorno, gennaio 2018
Introduzione
T. Bertilotti, C. Galasso,
A. Gissi, F. Lagorio
Con l’organizzazione del convegno Nuovi femminismi, nuove ricerche¹ la Società italiana delle storiche tentava, nell’aprile 2005, di avviare «una riflessione sul femminismo, sia sul piano storico che su quello concettuale», ritenendo che fosse giunto «il momento di confrontarsi con un tema certamente spinoso per le implicazioni teoriche e metodologiche che la Società non poteva più eludere»². L’intenzione era, innanzitutto, di soddisfare due esigenze: promuovere una riflessione sul femminismo «storico» in un’ottica che non fosse più esclusivamente quella della memoria, ma cercando di avviare una valutazione storica, come era già avvenuto durante la scuola estiva promossa dalla SIS nel 2004 dedicata al tema La sfida del femminismo ai movimenti degli anni Settanta³. La seconda esigenza era quella «di tenere presente la prospettiva attuale di un pensiero che non si è fermato negli anni Settanta, che ha seguito percorsi, suggestioni, binari forse diversi, forse convergenti ma tutti da esplorare», nella convinzione che la ricerca e la riflessione contemporanea «possano dare alle storiche spunti, categorie, concetti in base ai quali interrogare in maniera nuovaanche il passato».
Inoltre, il convegno voleva «essere anche una risposta a chi aveva, in maniera più o meno argomentata, ritenuto che la SIS volesse rimanere estranea ai temi della riflessione contemporanea o non volesse confrontarsi con la riflessione politico-filosofica»⁴.
L’idea di mettere al centro la tematica dei «femminismi», ovvero i sistemi di pensiero e le pratiche politiche che ha assunto via via il femminismo, ha rappresentato, in seguito, il filo conduttore dell’intero convegno e ora di questo volume. I contributi hanno, dunque, il compito di fornire indicazioni su come il paradigma politico e culturale del femminismo «storico» (occidentale, bianco, cristiano, eterosessuale, borghese) sia stato declinato da nuovi soggetti (trans) o sia stato trasformato dall’incontro con ulteriori movimenti e categorie di analisi (lesbismo/queer), dal sorgere di campi di ricerca (studi post-coloniali) e temi nuovi (biotecnologie, fondamentalismo religioso, immigrazione) e, infine, come quel paradigma possa modificarsi allorché i «vecchi» temi vengono affrontati alla luce di «nuove» ottiche e prospettive (lavoro sessuale). Altri soggetti, altri movimenti, altri rapporti tra donne, altri modi di dirsi e farsi donna – e anche femminista –, altri percorsi di autodeterminazione e liberazione, altri corpi e desideri. È in particolare dalla riflessione su queste ultime tematiche – corpo e desiderio – che il convegno e questo volume prendono avvio, perché corpo e desiderio rappresentano due dei principali nodi irrisolti del femminismo e perché da essi, come osservava Laura Schettini, una delle discussant del convegno, si dipanano altri fili, primo fra tutti quello della relazione genere-sesso-sessualità che, a sua volta, apre una questione ‘antica’: il rapporto tra lesbismo e femminismo.
«Le lesbiche rivendicano la loro presenza autonoma nell’ambito del movimento [femminista], perché tutte le donne sono coinvolte dalla questione del lesbismo. I rapporti fra donne, fuori dalla tutela/sorveglianza maschile, non sono una faccenda privata delle lesbiche, ma un nodo – il nodo – del femminismo»⁵, affermava una donna del gruppo lesbico Phoenix di Milano a uno dei primi convegni lesbici d’Italia. E ancora:
Io, lesbica, non sento di tradire l’Altra quando rivendico e costruisco un mio spazio: è, questa, una tappa essenziale del mio ‘venir fuori’, il luogo e lo strumento di una mia possibile felicità. Non è né vuole essere una contrapposizione; ma, piuttosto, la pietra di fondazione di un rapporto tra donne senza ambiguità, senza paure, senza reciproche deprivazioni. Io, lesbica, condivido con le eterofemministe le battaglie contro ciò che ci colpisce insieme: la violenza sul nostro corpo, l’oppressione del patriarcato. Ma non posso dimenticare che la mia cultura, la mia alternativa di vita, è schiacciata da un silenzio di ventiquattro secoli: è stata uccisa a Mitilene. [...] Io, lesbica, non mi riconosco nell’omosessualità maschile né sono disposta a schierarmi con i maschi, qualunque sia la loro scelta sessuale, in nome di una comune oppressione che viene, comunque, da loro. Io, lesbica, scelgo le altre donne a tutti i livelli: psicologicamente, sessualmente, economicamente e politicamente. A loro riferisco la mia vita, confrontando senza angoscia le diversità dentro la diversità⁶.
Come spiega Liana Borghi il rapporto tra lesbiche e femministe è antico e ancora oggi tormentato, ma «se il lesbismo funziona come ‘altro’ del femminismo, come suo rimosso, suo impensabile, suo non-simbolizzato, proprio per questo l’uno non si muove senza l’altro, per quanto disgiunto possa apparire il percorso della loro ridefinizione, come ad esempio nel cyberfemminismo e nel queer».
E proprio nella categoria genere e nel binomio genere-sessualità che Borghi individua una prima criticità in quelle che chiama le «intramature di lesbismo e femminismo». Se l’assunzione del genere come categoria di analisi politica ha segnato profondamente femminismo e lesbo-femminismo, oggi il genere – e con esso l’allineamento sesso biologico-genere e il significante donna – sembra avere «ormai perso parte del suo monopolio prospettico». Sotto la spinta del queer, del terzo femminismo e delle teorizzazioni postmoderne, il genere «almeno in teoria è diventato una performance: qualcosa che si fa, e che facendo si riproduce». Tuttavia, avverte Liana Borghi, «resta sempre quel nodo spinoso della materialità dei corpi».
Un nodo che Porpora Marcasciano stringe, allenta e quindi attraversa raccontandoci di corpi costretti, liberati, desiderati, manipolati, decostruiti e quindi ricostruiti, punti di partenza e punti di arrivo, sostanza e identità. Corpi che giocano con gli stereotipi sessuali, che ‘esagerano’ modelli e rappresentazioni per essere finalmente se stessi, visibili e riconosciuti.
Con i loro tacchi a spillo, con la loro esagerata femminilità le trans si presentavano al mondo: così è se vi pare! Se fossero entrate in scarpe da ginnastica, con i camicioni o le gonne lunghe fiorate delle compagne femministe di loro non si sarebbe accorto nessuno... neppure le stesse femministe.
Porpora Marcasciano racconta come le trans con i loro tacchi a spillo siano entrate in collisione con le femministe e i loro zoccoli, ma anche con gay e lesbiche, e come si possa essere un soggetto liberato senza passare dalla lettura di Non credere di avere diritti⁷ ma partendo «dalla scrittura sul proprio corpo del diritto a essere se stesso». Ripercorrendo i momenti più salienti della storia del movimento transessuale, il saggio s’interroga anche sulle sue trasformazioni interne, ad esempio l’ingresso sulla scena pubblica dei trans FtM {Female to Male) che, rispetto alle MtF {Male to Female), «focalizzano l’attenzione su questioni diverse e, da un certo punto di vista, più delicate».
Il tema del corpo resta primario. Filo rosso che lega tra loro i diversi contributi, punto di partenza delle narrazioni e delle riflessioni teoriche; ben individuabile, ad esempio, nei «discorsi» sul lavoro – in particolare quello dell’era postfordista – dove, pure, il corpo sembra comparire in dissolvenza dal momento che, nell’organizzazione del lavoro, il linguaggio e i processi di comunicazione non sono soltanto rilevanti, ma costituiscono un elemento direttamente incluso nel processo produttivo, «perché il processo produttivo ha per ‘materia prima’ il sapere, l’informazione, la cultura, le relazioni sociali»⁸. Negli ultimi vent’anni la quota delle donne occupate a livello mondiale è salita dal 36 al 40%,
ma la crescita va di pari passo con una generale informalizzazione dei rapporti di lavoro che riguarda sia i paesi industrializzati, sia i paesi soglia, sia i paesi in via di sviluppo: aumento del lavoro a tempo parziale, passaggio fluido tra il settore informale e quello formale, lavoro a domicilio, rapporti di lavoro non regolati giuridicamente⁹.
Nei paesi occidentali, i caratteri di precarietà e flessibilità che caratterizzano il mercato del lavoro si accompagnano a trasformazioni demografiche e all’affermarsi di nuovi modelli familiari, che
ripropongono la questione del rapporto tra mutamenti economici e ruoli tradizionali delle donne. Nel momento, cioè, in cui cambiano i due fondamenti (il lavoro e la famiglia) sui quali – pure in modi e tempi diversi in diverse realtà nazionali e in virtù di diverse ideologie sociali – si era formato il welfare novecentesco e la sua organizzazione, si mantengono, e anzi aumentano i tradizionali compiti di cura affidati alle donne¹⁰.
Parallelamente, la ridefinizione del welfare conduce a una messa in discussione dei diritti di cittadinanza sociale, a cominciare dal diritto a mantenere il posto di lavoro in caso di maternità.
Come si pone il pensiero femminista di fronte a questi mutamenti?
Accusato di aver tradito alcuni ideali, e fra questi in primo luogo proprio il carattere emancipatorio del lavoro¹¹, per anni nascosto dalla costruzione della categoria «postfemminismo»¹², il pensiero femminista sembra esprimere al contempo una profonda rottura e alcuni aspetti di continuità con le riflessioni e le pratiche del femminismo degli anni Settanta.
Come scrive il gruppo Sconvegno,
se allora avere un’occupazione retribuita era sinonimo di emancipazione, oggi – quantomeno per noi – questo non vale più. Lavorare non è più una conquista, ma un dato acquisito una necessità. Se allora si trattava di emanciparsi con il lavoro, oggi per noi diviene centrale emanciparci dal lavoro!¹³.
Come spiega Adriana Nannicini, infatti, si è affermato «il desiderio di innovare la prospettiva», di mettere al centro non il mercato del lavoro ma il mondo del lavoro, cioè le «condizioni dell’esistenza», il cui spazio e il cui valore «si misurano in una pluralità di relazioni e di intrecci, non investiamo di eros la relazione con il lavoro, non ci domandiamo più se sia un piacere negato, come dicemmo alcuni anni fa».
Una prospettiva che si è venuta definendo all’interno di gruppi di donne dalle «forme fluide, fluttuanti, flessibili» animati da una «passione conoscitiva [che] ha strutturato pratiche politiche, ha dato corpo a desideri di riconoscimento, e sempre più spesso comincia a misurare l’articolazione di un lessico e di un linguaggio». Una «passione conoscitiva» che diventa una pratica, come ha osservato Iaia Vantaggiato, «pressoché coincidente con quel ‘partire da sé’ messo letteralmente in parola dal pensiero della differenza sessuale ma che nei ‘discorsi’ sul lavoro – in particolare sul lavoro che cambia – assume particolare pregnanza»¹⁴.
Una pratica fatta propria anche dal gruppo Precarias a la deriva, un laboratorio di «narrazione cartografica e collettiva» sulle trasformazioni del lavoro, dalla cui esperienza prende avvio la riflessione di Beatrice Busi sul «nesso tra lavoro sessuale e lavoro di riproduzione, femminilizzazione globalizzata del lavoro e globalizzazione del lavoro di riproduzione». Con il postfordismo la realtà della forza-lavoro combacia pienamente con l’originario concetto marxiano: il «corpo vivente» è diventato
l’oggetto privilegiato della governamentalità perché è H sostrato delle diverse facoltà umane: non solo la potenza di parlare di pensare, di ricordare, di agire, ma anche di fare l’amore di costruire reti di relazioni, di prendersi cura dell’altro.
La «plausibilità di quest’ipotesi biopolitica» è indagata da Busi attraverso un’analisi del recente dibattito sulla femminilizzione del lavoro, condotta a partire dagli studi e dal dibattito sul lavoro domestico degli anni Settanta. Una prospettiva che permette all’autrice di sfuggire alle «pastoie dell’opposizione tra il paradigma ‘liberazionista’ e quello ‘vittimizzante’», nelle quali era rimasto bloccato il dibattito femminista su pornografia e prostituzione, e di affrontare il tema del lavoro sessuale portandone alla luce numerosi nessi e molteplici implicazioni.
Come si è detto, l’organizzazione del convegno muoveva anche dalla convinzione che la ricerca e la riflessione contemporanea potessero fornire a noi storiche utili sollecitazioni.
E stato di recente sottolineato che
grazie alla categoria del genere è stato possibile abbandonare ‘il punto di vista endogeno’ in base al quale il lavoro veniva isolato rispetto alle altre traiettorie esistenziali, in modo tale che le attività, i bisogni, gli interessi, le culture degli uomini e delle donne finivano per essere declinati esclusivamente a partire dalla figura del lavoratore e della lavoratrice, col rischio di smarrire la complessità della vita degli individui¹⁵.
Le pagine di Francesca Decimo ci mettono di fronte a nuove piste di indagine che, partendo da queste acquisizioni della ricerca femminista e intrecciandole a una critica degli studi sull’emigrazione femminile che mettono al centro il lavoro, offrono un’originale lettura dell’emigrazione «come riarticolazione delle sfere produttive e riproduttive del gruppo familiare», che consente di individuare le «cruciali trasformazioni sociali inerenti i ruoli femminili e i sistemi della trasmissione familiare. Trasformazioni sociali che hanno modo di realizzarsi anche attraverso traiettorie femminili apparentemente più tradizionali, conservative».
Una direzione di ricerca, quella percorsa da Decimo, attraverso la quale
giungiamo finalmente a riconoscere nella divisione di genere del lavoro materiale e morale necessario a nutrire la continuità sociale tra i luoghi e le generazioni, l’effettivo nodo problematico di un approccio femminista allo studio dei processi migratori che voglia essere intelligibile e significativo per le migranti stesse.
Il convegno, e ora questo volume, intendono contribuire alla rivisitazione di una – ormai riconosciuta – impostazione eurocentrica del femminismo. Noircir le féminisme è il suggerimento che Sueli Carneiro offre in un numero della rivista internazionale Nouvelles Questions Féministes¹⁶ nel senso di dare significato e legittimare le esperienze – diverse storicamente – delle donne, valutare come il sessismo si combina con il razzismo, gli stereotipi di genere con quelli culturalmente assegnati in tutte le società. Nel nostro caso, ancora più che colorare di nero sembra appropriato il tentativo di complicare il pensiero femminista.
D’altro canto, quanto l’elaborazione teorica femminista sia stata fondamentale per gli studi postcoloniali è ormai un elemento consolidato tanto è vero che il dominio patriarcale è uno dei temi essenziali del discorso postcoloniale¹⁷. Le lotte di emancipazione dalla dominazione coloniale, di fatto, sono state declinate al maschile, i movimenti anticoloniali hanno spesso mutuato gli strumenti retorici e istituzionali dei nazionalismi europei con l’inevitabile portato di una standardizzazione culturale. Il femminismo postcoloniale, in seguito, è stato quanto mai prolifico avendo esercitato necessariamente la critica della riproduzione dei rapporti di dominio di genere all’interno dei movimenti di emancipazione anticoloniale¹⁸.
Si è cercato dunque di fornire una serie di spunti che aiutino ad attualizzare discorsi e pratiche femministe secondo il mondo che abitiamo, le trame parallele e taciute che lo attraversano, i paradossi, le ambivalenze, le tensioni e i conflitti che lo caratterizzano. Può essere preso ad esempio l’acceso dibattito suscitato dalla proposta di praticare una «sunna soft» del medico somalo Omar Hussen Abdulcadir, responsabile del Centro di riferimento regionale per la prevenzione e cura delle complicanze delle mutilazioni genitali femminili (Mgf) dell’Ospedale Careggi di Firenze.
Elena Laurenzi ripercorre quel dibattito sottolineando che
la questione delle Mgf viene posta esclusivamente in termini culturali, sia da parte di chi si schiera a favore del rispetto delle differenze e delle pratiche simboliche, credenze e habitus che fanno parte delle culture di altri gruppi, sia da chi le bolla come il portato di una tradizione insensata e disumana o addirittura barbara [...]. Da questa rappresentazione tetragona viene eliminata qualsiasi considerazione riguardo alle relazioni sociali interne ai gruppi minoritari, e alle trasformazioni determinate dalla migrazione.
La vicenda fiorentina fa emergere la tensione dinamica tra diritti individuali e diritti culturali specifici e ci porta nel cuore di quello che è stato definito il paradox of multicultural vulnerability¹⁹. Politiche multiculturali, come il riconoscimento di autonomia per i gruppi minoritari, possono operare sistematicamente a svantaggio di certi membri del gruppo, fino alla violazione di diritti e libertà soggettive.
In quest’ultimo decennio, segnato da un rapporto drammatico tra nord e sud del mondo e da migrazioni massicce e stabili, il dibattito teorico e politico sui problemi dell’identità (sessuale, razziale, religiosa, generazionale...) e sull’identity politics è assai acceso. I contributi femministi sul multiculturalismo sono stati numerosi, diversificati, e provenienti da ambiti disciplinari molto diversi. Sulle questioni poste dal tentativo di superare un’unica epistemologia femminista per avviare una nuova concezione del femminismo, che sia in grado di cogliere le specificità culturali all’interno delle quali una molteplicità di movimenti femminili in diverse società avanzano richieste di diritti e di riconoscimento, si interroga Ruba Salih:
il presupposto è che mai come ora è necessario trovare delle concettualizzazioni di femminismo che si pongano in un’ottica di superamento nei confronti di quell’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico.
È in questa ottica che si è scelto di affrontare un tema come quello dei rapporti fra femminismo e Islam che per lungo tempo sono apparsi come pratiche e discorsi incompatibili. Nel corso dell’ultimo ventennio, come illustra nel suo saggio Ruba Salili, il cosiddetto femminismo islamico ha guadagnato
una crescente legittimità, sia in Europa che nel mondo musulmano, come terreno attraverso cui le donne musulmane aspirano a rivendicare i propri diritti, senza deviare da quello che è considerato il proprio retaggio culturale e religioso, seppur soggetto a negoziazioni e rinegoziazioni spaziali e temporali inevitabili e continue.
Il contributo di Salih si muove all’interno di un tema complesso: l’emergere delle donne come testimoni della nascita di una nuova moderna soggettività musulmana in opposizione a un femminismo di stampo laico, occidentale, elitario, composto prevalentemente da donne delle classi medio alte, e «che ha fatto sua la retorica occidentale e coloniale della modernizzazione, concepita come acquisizione di un modello di società occidentale».
Il saggio si propone di mostrare alcuni tratti di questo complesso dibattito e soprattutto di render conto di tutta una serie di posizioni intermedie le quali, affrontando il tema da un punto di vista storico-antropologico, si collocano tra due atteggiamenti mentali contrapposti ma che spesso hanno in comune un’inclinazione a privilegiare un registro ideologico nella discussione sulla compatibilità tra Islam e femminismo.
Come afferma Salih, queste posizioni intermedie
condividono una impostazione che vede la produzione di ‘discorsi’ e ‘pratiche’ come il femminismo e lo stesso islamismo non tanto come ‘dati’ ma piuttosto come frutto di quell’interminabile flusso di prestiti, di intrecci tra culture e società a cui, pur in un contesto di totale asimmetria di potere, la modernità (e lo stesso colonialismo che ne è un aspetto centrale) ha dato luogo. Il femminismo islamico non né visto semplicemente come un percorso più culturalmente autentico e incontaminato attraverso cui rivendicare determinati diritti, ma come frutto di una dinamica post-coloniale.
Certamente non possiamo più ritenerci distanti da simili questioni. Per di più, il potenziale generativo e relazionale di cui molte donne immigrate sono portatrici custodisce il futuro italiano multiculturale e pluriconfessionale²⁰ che pone in agenda quotidianamente continui ripensamenti, nuove valutazioni, ripropone tematiche che il femminismo nostrano sembrava aver archiviato che necessitano invece di uno sguardo rinnovato.
Di nuovo, si tratta di osare, impostare analisi inedite. Proprio Francesca Decimo suggerisce di avviare «uno spazio di riflessione in cui le diverse dimensioni dell’analisi – economica e giuridica, sociale e culturale, storica e territoriale – si rinnovano e si combinano in tempi brevi e in maniera significativa, sollecitando una re-integrazione del piano teorico con quello analitico descrittivo». Dando così spazio ad alcune domande oltremodo significative, ad esempio,
come articolare e arricchire la nostra capacità interpretativa in modo da cogliere la complessità fenomenologica che viene a delinearsi con migranti diverse per provenienza e età, estrazione e condizione sociale, cultura e religione, progetti e esperienze vissute? Come leggere le molteplici forme che la mobilità territoriale delle donne assume senza necessariamente dipendere da paradigmi che troppo spesso, ancorando la ricerca sulla casistica più drammatica, rappresentano le straniere univocamente nei termini dell’oppressione e dell’esclusione?
Il tema della mobilità femminile, riconcettualizzata come componente strutturale delle economie contemporanee, ha portato a una generale revisione dei tradizionali paradigmi interpretativi delle migrazioni femminili.
Le analisi che ne discendono, infatti, non si attengono semplicemente a tematizzare entro quali forme di produzione di reddito le migranti saranno costrette a conformare le loro esistenze. Più specificatamente, ricostruendo in che modo le straniere subentrano alle native in quell’ampia gamma di ruoli che esse hanno abbandonato, osservano come sono di fatto rianimate antiche mansioni, sofisticati desueti lavori, riassunte asservite posture spostando il fuoco dell’analisi dalle traiettorie sociali che le migranti percorrono alle asimmetrie di genere che il loro lavoro incorpora. Mantenendo come centrale ambito di riflessione il complesso di assetti relazionali e costrizioni societarie che subordina il lavoro delle donne, queste studiose ‘adottano’ le migranti come soggetti delle loro indagini fintantoché queste, con le loro gesta e i loro ruoli, inconsapevolmente perpetuano quei sistemi di relazioni e costrizioni oggetto di critica. Ciò che interessa quindi e l’anello