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La versione del Popi: Il '68 e le sue prigioni
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E-book96 pagine1 ora

La versione del Popi: Il '68 e le sue prigioni

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Le memorie di un protagonista del ’68 italiano che, da acclamato leader, viene travolto dal fango e da un linciaggio morale che gli spezza la vita in due. Accusato di stupro, finisce in prigione e subisce svariati processi, per essere infine assolto con formula piena e da un giudice donna. Il fatto non costituisce reato.Intanto, però, la tragedia gli stravolge l’esistenza. E mentre gli altri, finiti gli anni gloriosi, smarriscono la rotta o si preparano sul serio a diventare la futura classe dirigente, lui cerca di riagguantare la vita da un’altra parte. Dall’insegnamento militante passa con successo alla finanza, con qualche breve ritorno alla politica.Un racconto rapsodico e febbrile, dove la vita personale del protagonista e i suoi affari, di cuore e di business, si intrecciano indissolubilmente con un’importante pagina della recente storia del nostro paese. E nell’atmosfera nebbiosa e onirica della memoria, personaggi realmente esistiti noti e meno noti si susseguono a fatti realmente accaduti in un impietoso racconto, dove il sarcasmo fa da laica sponda a una profonda amarezza.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2014
ISBN9788898475940
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    Anteprima del libro

    La versione del Popi - Giuseppe Saracino

    1

    Vigilia

    Alberto era lui. Intanto si chiamava Scherillo, non Pirelli o Jucker. Un terrone. Come me. Anche lui con gli occhi azzurri e, fa male dirlo, più alto e più biondo di me. Portava con disinvoltura, direi meglio, con convinzione, una nasa impressionante. Se proprio facciamo a consolarci, si può parlare di spalle sfuggenti, ma è l’invidia che parla.

    Aveva degli scatti di lucidità che ti lasciavano lì, talvolta applicava la stessa potenza nella direzione opposta al senso della corsa e tu ti chiedevi se era un genio o un matto. Disponeva di un mensile di 80.000 lire per le sue fatiche universitarie, essendo morto il padre, uomo di Mattei e fondatore della Snam progetti, ed essendo la madre, ex segretaria del defunto, incapace di dire di no al cadetto tanto amato e spesso incompreso. Io disponevo di 70.000, avendo saputo abilmente sfruttare le contraddizioni di una coppia molto separata di genitori sempre in guerra.

    Alberto guidava, a volte, una Jaguar bianca decappottabile, già allora d’epoca, non sua ma di Barbara, l’interessante ereditiera con cui si accompagnava. Entrambi erano iscritti al circolo Banfi, che poi era la cellula comunista dell’università, piena di nomi illustri quali: Nappi, Nuvoletti, Nogara ecc.

    Io no. Anch’io ero un giovane comunista ma la cellula era di strada, segno di un’affiliazione precedente, anche meno snob.

    Simpatico era simpatico Alberto, e, a differenza di me, era anche intonato. Vantava trascorsi da chitarrista nel complessino che non c’era più.

    Il conflitto per Barbara esplose subito. Lo vinse lui. Io fui così ingenuo da andare a chiedergli spiegazioni: in fondo lui l’aveva mollata. Mi rispose che se la mettevo su quel piano allora era una questione di potere.

    Così stavano le cose nel lontano ’67.

    Gabriella fu la prima, intendo la prima di cui mi ero innamorato. Tanto bella quanto fredda. Ma è più probabile che fossi io che non ci sapevo fare, di questo almeno lei era convinta ed era riuscita a convincere anche me: il Vincenzo Monti della scopata. Son cose che bruciano, altroché.

    Così quando passò Nannì – che oltre a lavorare, e favorire quindi un avvicinamento al popolo, sgranava orgasmi come una beghina il rosario – mi imbarcai per la mia salute mentale e la miglior gloria del mio ego finalmente rappacificato. Ed ero anche fedele.

    Eravamo moralisti, bisognava fare la rivoluzione, mica cazzi. Sembrava lì. La Francia era in bilico. In Viet-Nam si dilagava. Gli studenti tedeschi picchiavano duro. La Francia però aveva de Gaulle. Quando si mossero gli operai italiani la cosa si fece interessante, sennonché quelli miravano al grano. Del potere non gliene poteva fregare di meno. Per non parlare dei russi, che facevano proprio schifo – si facevano le gite a Praga.

    Insomma, le cose andavano per le lunghe. Io ormai ero un generale. Alberto no. Lui era stato davanti a me finché si era in Falcemartello,1 ma poi non stava in piedi: o trotzkisti o marxisti-leninisti. Meglio m-l. Così bruciai tutta la vecchia guardia. Poi, quando si capì che anche gli m-l giravano a vuoto, misi insieme tutti i pezzi della diaspora e facemmo il Movimento Studentesco, Emme Esse.2 DOC. Così si tirava un altro anno.

    Fummo da subito nostalgici. Volavano già le bombe. Lotta Continua e tanti altri erano impazziti. Forse era meglio metter giù un bello schieramento difensivo, che in giro c’erano anche la Grecia e il Cile. Modestamente fu un capolavoro. Provarci ci avevano provato, e Andreotti gli teneva anche bordone. Meno male che c’era Moro e che c’eravamo noi.3 Del resto Rudy4 l’aveva detto chiaro: lunga marcia nelle istituzioni. Poi gli spararono, in Germania.

    Ed è qui che entra in scena Luisina. L’uso del diminutivo è un esorcismo. Contro la paura. Ancora adesso, che sono in vista della tomba, il nome intero così nudo, LUISA, mi fa venire la tremarella.

    Comunque, per riprendere il discorso, bisogna pur dire che in realtà non mi si era concessa, la verità è che mi aveva espugnato lei. Aveva, come si dice in Borsa, comprato alto: ero nel Gotha, ero figo e, diciamola tutta, in qualche modo puzzavo di borghesia. Lei era giovane, debuttante, ed era la più seduttiva di tutta la Statale, ma, per essere più chiaro, ti tirava scemo con quell’aria seriosa: siamo qui per fare la rivoluzione vero? Non lo so se era vero, certo è che eravamo tutti usciti di testa. Antonello restò indietro di un’incollatura e del resto era anche una questione di gradi. La prima volta a casa mia, mentre Nannì sbiadiva e svaporava nel nulla, feci clamorosamente – per la prima (e ultima) volta in vita mia – cilecca. Ero paralizzato dal terrore. Troppo bella, troppo sicura di sé, niente da fare. Poi lei disse: andiamo a fare una doccia.

    Nella doccia e poi di nuovo in camera rimediai qualche cosa, e quando poi nel bel mezzo di una prestazione mediocre lei disse: «Sei inesauribile», non credo che scherzasse, ma io mi sentii preso per il culo.

    Rimediammo, certo che rimediammo: eravamo giovani e innamorati. Aveva tutto. Lei. Non puzzava di borghesia lei, ne era la quintessenza. Tirava su le gambe sui divani con una naturalezza che ti ammutoliva. Lei era altolocata ma democratica. Lei era ricca ma lavorava. Lei, in quanto a orgasmi, non aveva niente da imparare. E poi c’era quella stronzata dell’amore libero, che avrebbe dovuto tener vivo il rapporto, invece distrusse prima lei e poi me. C’era che ci amavamo troppo, un po’ come quei due fratelli deficienti di Musil, per cui in fondo il sesso che contava? E c’era la fottuta convivenza fra un ex leader, ogni giorno più ex, e quella che a volte, spento l’interruttore della seduzione, sembrava la maestrina dalla penna rossa. Le chiesi di separare le abitazioni, mi convinsi che era per tener vivo il nostro amore, ma lei non me lo perdonò mai, e direi che aveva ragione. Chiacchiere contro fatti.

    2

    Origini

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