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Il Nostro Novecento
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E-book353 pagine5 ore

Il Nostro Novecento

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Info su questo ebook

Un padre e un figlio nel periodo saliente della loro vita.
“Il nostro novecento” è una biografia incrociata sulle vicende personali e politiche di Pietro: il padre e Tito: il figlio che è anche l’autore.
Il primo socialismo fino alla marcia su Roma è il percorso di Pietro, il decennio dei mitici anni sessanta quello di Tito.
L’autore ha romanzato la biografia del padre nella cui vita reale sono entrati personaggi che l’hanno fortemente influenzata: Mario Gioda il giornalista tipografo, prima anarchico poi interventista ed infine fondatore del Fascio torinese. Mussolini conosciuto nel periodo in cui era socialista massimalista, Gramsci, Togliatti e su tutti: Camillo Olivetti che gli cambierà la vita e che per lui sarà sempre il padre mai conosciuto.
Di se, riporta con fedeltà e crudezza avvenimenti, personaggi, soprattutto comportamenti umani durante l’arco di un decennio che lo vede: operaio, sindacalista e dirigente di partito a Torino.
Un libro che l’autore ha inizialmente scritto per i figli cercando di spiegare perché al crepuscolo dell’esistenza potendo trarre un bilancio delle esperienze del Novecento si possano prendere posizioni politiche apparentemente moderate, comunque anticonformiste rispetto al mondo della sinistra cui ha appartenuto.
LinguaItaliano
Editoreapple
Data di uscita18 set 2020
ISBN9788835896760
Il Nostro Novecento

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    Anteprima del libro

    Il Nostro Novecento - Tito Giraudo

    bibliografia

    Un breve sguardo al libro

    " Definire la categoria di appartenenza di questo mio lavoro non è facile neppure per me: romanzo?, biografia?, saggio storico? Potrei dare una sola risposta: di tutto un po’" (l’autore)

    Un padre e un figlio nel periodo saliente della loro vita.

    Il nostro novecento è una biografia incrociata sulle vicende personali e politiche di Pietro: il padre e Tito: il figlio che è anche l’autore.

    Il primo socialismo fino alla marcia su Roma è il percorso di Pietro, il decennio dei mitici anni sessanta quello di Tito.

    L’autore ha romanzato la biografia del padre nella cui vita reale sono entrati personaggi che l’hanno fortemente influenzata: Mario Gioda il giornalista tipografo, prima anarchico poi interventista ed infine fondatore del Fascio torinese. Mussolini conosciuto nel periodo in cui era socialista massimalista, Gramsci, Togliatti e su tutti: Camillo Olivetti che gli cambierà la vita e che per lui sarà sempre il padre mai conosciuto.

    Di se, riporta con fedeltà e crudezza avvenimenti, personaggi, soprattutto comportamenti umani durante l’arco di un decennio che lo vede: operaio, sindacalista e dirigente di partito a Torino.

    Un libro che l’autore ha inizialmente scritto per i figli cercando di spiegare perché al crepuscolo dell’esistenza potendo trarre un bilancio delle esperienze del Novecento si possano prendere posizioni politiche apparentemente moderate, comunque anticonformiste rispetto al mondo della sinistra cui ha appartenuto.

    Introibo

    È vero che invecchiando si scordano i fatti recenti e alla memoria riaffiora il passato. Già, il mio passato.

    Il tempo crea strani legami. Quasi la nostra vita fosse il proseguimento di altre, quelle di chi, mettendoci al mondo, ha dato il via a una sorta di reincarnazione logica e incontrovertibile.

    Nel caso specifico, mio padre e mia madre che hanno avuto in me un figlio distante e deludente. Forse queste pagine sono un inconscio esame di riparazione.

    I miei primi ricordi sono legati alla guerra. Sono nato nel 1941 in pieno conflitto mondiale ; a llora abitavamo in affitto in una villetta condominiale al 54 di via Giacomo Medici.

    Le prime immagini impresse nella mia mente di bambino riguardano i bombardamenti: io e la mia famiglia in quel rifugio nella cantina di casa a filo strada, quindi del tutto inutile. Papà non aveva la minima fiducia nel potenziale bellico alleato, era convinto che bastasse quell’inferno sotto la palazzina e che il nemico nulla avrebbe potuto contro la potenza del Duce. Quando però gli Alleati mostrarono di fare sul serio, corremmo nei rifugi pubblici, gallerie scavate sotto corso Lecce e p iazza Risorgimento.

    Gli aerei arrivavano sempre di notte. Vestiti alla bell’e meglio, io piccolissimo avvolto in una coperta, attendevamo la sirena che avvisasse lo scampato pericolo. Quei pellegrinaggi notturni furono la causa probabile di una broncopolmonite che, accompagnata dalla carenza di cibo, mi fece crescere gracile.

    Ricordo ancora quando attraversammo a piedi piazza Statuto il 25 aprile del 1945. Mia madre, normalmente svagata, aveva capito perfettamente che eravamo la famiglia di un gerarca fascista e quindi, in assenza di mio padre, peraltro giustificata , come spiegherò più avanti, prese me e mia sorella e ci portò a piedi dalle zie, presenze importanti negli anni della giovinezza.

    In quella piazza sparavano: erano i partigiani che facevano giustizia e, talora, vendetta sommaria ; forse alcuni meritavano il trattamento loro riservato, altri sicuramente morivano senza colpa: come avrei imparato anni dopo, le masse sono imprevedibili! Seguono logiche schizofreniche, talvolta danno il meglio, ma spesso il peggio, i repressi trovano così modo di esprimersi, l’avrei capito più tardi da sindacalista.

    Quel giorno, però, il bambino che ero registrava solo spari, urla e la paura di mia madre e di mia sorella Edda. Edda era stata battezzata così in onore della figlia del Duce, mio padre aveva un’adorazione per il dittatore. Conosciuto da socialista , l’aveva seguito in tutte le sue scelte, fino al fascismo. Sempre critico nei confronti dei fascisti era per contro totalmente acritico e adorante nei riguardi di Mussolini.

    Il mio primo ricordo del gerarca è a guerra finita quando papà tornò da Pino Torinese , un paese della collina che delimita Torino ad Est .

    Pino era anche il nome che la mamma aveva dato alle Nuove, le carceri torinesi , quando andava a trovare Papà per non dire a noi bambini che era in carcere. Mio padre, tornato dalla mattanza canavesana, fu incarcerato insieme ai fascisti che l’avevano messo in galera negli anni del consenso , in qualità di sovversivo pericoloso per lo Stato. Il suo ingresso nel camerone penitenziario sollevò l’ilarità di molti ex gerarchi , che ricordavano come quel rompiballe di fascista della prima ora veniva regolarmente arrestato e rinchiuso ad ogni visita torinese del Duce.

    Papà tornò da Pin o Torinese magro e macilento, magro per la dieta a pane e sòma d’aj (oggi si chiama bruschetta); macilento per le disavventure canavesane ; per tre giorni fu legato a un albero, picchiato e pugnalato dai partigiani della Brigat a del comandante Piero.

    La causa di tutto questo fu la Rosi, una donna di Campo, paese d’origine di un ramo della famiglia di mia madre. I fascisti le avevano fucilato il marito; il poveretto, come quasi tutti i contadini della zona , faceva la borsa nera , fermato dai fascisti e dai tedeschi era stato giustiziato. Tuttavia papà non c’entrava nulla, se non per gli strali patriottici che lanciava abitualmente contro i borsaneristi.

    Per permettervi di comprendere, vi spiego l’antefatto: la mamma, più pratica e realistica come tutte le donne, convinse papà della necessità di sfollare e in quale posto, se non quello dove c’erano i suoi cugini, ma dove soprattutto gli alleati non avrebbero mai sognato di sganciare bombe. Campo era allora un piccolissimo comune montano a cinquecento metri di altezza, oggi è una frazione di Castellamonte.

    Tornando alle disavventure paterne, accadde probabilmente che mio padre, venuto a trovarci da Torino, lanciasse qualche urlo di troppo verso l’antipatriottismo contadino. Ciò fu sufficiente perché la gentildonna in questione , la Rosi, vendicasse la morte del marito, coinvolgendo qualcuno di sua conoscenza che sapeva di fede fascista.

    Venne organizzata una spedizione a Torino, papà fu catturato e portato in valle Sacra dove era stanziata una brigata partigiana appartenente alle formazioni socialiste Matteotti : probabilmente quei tre giorni furono i più lunghi della sua avventurosa vita.

    Non è chiaro come abbia portato a casa la pelle.

    Dal momento che non aveva nulla da confessare, non confessò. Pare che per farlo parlare un finto prete avesse inscenato una confessione prima dell’ipotetica fucilazione. Convinti infine di avere tra le mani solo un fascista chiacchierone, lo rimandarono a Torino.

    Visti i tempi, il fatto fu sicuramente bizzarro. Sono propenso a credere che si sia salvato , o grazie all’intervento di qualche paesano , che sapeva bene come erano andate le cose, oppure , qualche compagno del CLN piemontes e, protetto a suo tempo da papà , ci mise una buona parola per sdebitarsi, in quei periodi si giustiziava per accuse ben meno gravi di quelle che gli vennero rivolte.

    Papà arrivò a Torino proprio quel 25 aprile, anche lui dalle zie.

    La nostra casa non era certamente abitabile, depredata da sedicenti partigiani, o meglio, dai vicini di casa convertiti all’antifascismo dell’ultima ora.

    Non so se a quattro anni fossi particolarmente contento di rivedere quel signore , ai miei occhi già anziano; quando sono nato aveva 51 anni, una folta testa di capelli bianchissimi, spessi occhiali e una voce tonante.

    Anche per causa sua fummo costretti a una fuga precipitosa, trovandoci senza quattrini ed epurati; ma si sa, i bambini non drammatizzano nulla e quindi per me quello è un ricordo neutro, un flash della memoria, il primo dove l’immagine di mio padre è chiara e definita.

    1. Il bastardo

    Non so quale sia stato l’ospedale in cui Pietro nacque, né tanto meno l’orfanotrofio torinese dove la mamma Teresa lo scaricò. La storia non è ben chiara, ci tornerò più avanti quando Pietro cercherà sua madre.

    È certo che Teresa, una montanara cuneese calata in città per fare la serva nella famiglia di un avvocato, rimase incinta, venne cacciata, partorì e di lei si persero le tracce. Non erano tempi felici per i trovatelli, il più delle volte chiamati bastardi dal popolo e figli di ignoti dalla legge.

    Oggi si fa la coda per adottare un bambino, spesso in quell’epoca i trovatelli venivano adottati per aumentare la forza lavoro famigliare. Come credo dicesse un ebreo di nome Carlo e di cognome Marx: «i proletari sono quelli che hanno come unica ricchezza la prole». Quindi aumentarla artificialmente poteva essere un affare.

    Prima di finire a Corio Canavese, Pietro fu adottato (si fa per dire) da alcune famiglie che cercavano prole. Certo non si sapeva cosa ne facessero, tanto che anche una giustizia approssimativa verso i poveri come quella dell’epoca, ogni volta rimandava Pietro in orfanotrofio.

    Ci fu anche una famiglia per bene che cercò di adottarlo. Nel frattempo Pietro si era affezionato a una suora identificandola con la madre che ormai si apprestava a dare la luce ad una seconda figlia. Quando capì che quei signori lo volevano portare via, piantò un casino tale da indurre gli aspiranti genitori a scegliere un altro bambino segno prematuro dello scarso affarismo paterno.

    Quando lo chiesero in adozione dei contadini di Corio, tentò nuovamente la manfrina, ma questa volta nessuno si commosse.

    Case Macario era ed è una frazione di Corio Canavese. La famiglia che lo allevò aveva già dei figli; l’adozione non aveva certo scopi umanitari. Non gli furono risparmiate botte e lavoro duro nei campi; unica eccezione la nonna, la sola che gli darà un po’ di affetto e che lui non dimenticherà mai, inducendolo, adulto e benestante, a non recidere i rapporti con la famiglia di adozione.

    Pietro in ogni caso non ha un carattere facile, è pieno di slanci ma è un ribelle. Lavorare va bene, ma essere picchiato e, soprattutto, non amato, per lui è insopportabile. A dieci anni scappa, offrendosi come bocia (apprendista) al panettiere di Corio; da schiavo contadino si trasforma in schiavo panettiere. Infine i contadini prenderanno il sopravvento sui panettieri e lo riporteranno a Case Macario.

    Quell’assaggio di libertà convince Pietro a ritentare la fuga. Questa volta raggiunge Ciriè, un centro più importante, soprattutto più lontano da Corio dove farà nuovamente il garzone panettiere. Forse la famiglia di Corio lo cercò, ma l’epoca consentiva probabilmente una maggiore possibilità di far perdere le proprie tracce e così Pietro diventa un libero cittadino di dodici anni che si alza alle tre del mattino per impastare e cuocere il pane.

    Quando Pietro si trasferisca a Torino non è noto con precisione, quello che si sa con certezza è che a diciott’anni Pietro è un operaio della Fiat.

    La Torino dei primi anni del secolo vive la sua rivoluzione industriale. Oggi qualcuno pensa che la città sia noiosa e un po’ banale, e per certi versi questo potrebbe anche essere vero. Certo che, per la storia d’Italia, Torino ha giocato un ruolo fondamentale, non solo perché la sua provincialissima monarchia regnerà sull’intero paese, ma perché in quegli anni darà vita a fenomeni socioeconomici che la compenseranno ampiamente del suo distacco da capitale.

    I torinesi vengono chiamati bogia nen (non muoverti); tuttavia se muovono si fanno notare. Saputo che la capitale del Regno si spostava a Firenze, piantarono una tale caciara che a paragone i moti del ‘48 furono una scaramuccia.

    Ancora oggi certi meridionali sono convinti di essere stati colonizzati dai piemontesi e che tutte le loro sfortune derivino da Garibaldi, Nino Bixio e company. In verità il nostro spirito colonizzatore lascia alquanto a desiderare. Avremmo di gran lunga preferito che Torino restasse il Regno dei Savoia, piuttosto che veder sloggiare la nostra corte che parlava piemontese prima, poi francese e buon ultimo un pessimo italiano.

    Furono anni di crisi, anche perché i torinesi sono un po’ lenti a carburare; come un motore diesel che più è caldo e più rende, terminati i piagnistei, si rimboccarono le maniche e si guardarono intorno. Erano i più vicini alla Francia, molti erano emigrati e tornati con idee nuove, se non si poteva più fare i cortigiani, i burocrati e i travet si poteva fare come i transalpini: gli industriali.

    Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo a Torino nasce l’Automobile, nasce il Cinema. A Torino c’è una prestigiosa università che sforna una classe intellettuale e politica di primo ordine. A Torino il socialismo originario degli avvocati e dei maestri di scuola diventa anche il socialismo degli operai. Sempre a Torino negli anni 20 nascerà l’Ordine Nuovo, i cui fondatori saranno la spina dorsale del comunismo italiano.

    Questi, gli anni e il contesto che un trovatello analfabeta ex panettiere trova in una città caratterizzata da uno sviluppo industriale che la sta velocemente trasformando.

    Forse Pietro a Torino fa il panettiere per qualche mese, ma poi viene attratto da quella fabbrica che da qualche anno costruisce automobili, quelle automobili che con grande meraviglia vede per la prima volta in vita sua. La Fiat che le produce avrà uno sviluppo frenetico, tra i tanti baròt (contadino che viene in città) che ci lavorano c’è posto anche per lui.

    La Fabbrica Italiana Automobili Torino nasce verso la fine dell’Ottocento dall’iniziativa di un gruppo di appassionati amatori di quel nuovo mezzo. Molte cose importanti spesso nascono banalmente. La Fiat lo fa in un bar vicino alla stazione centrale di Torino, Porta Nuova. Tra un vermut, un bicerin e le discussioni da bar, un gruppetto di nobili e borghesi deciderà nel 1898 di dare vita a una fabbrica comprando uno stabilimento in corso Dante, ai margini del parco del Valentino.

    Come Giovanni Agnelli sia diventato in pochi anni il padrone quasi assoluto della Fiat non è chiaro. Tra i detrattori che lo dipingono come un bieco approfittatore e gli elogiatori che lo considerano un genio dell’industria, c’è probabilmente la solita e banale via di mezzo. Sono propenso a pensare che quei nobiluomini fondatori non fossero animati dalla stessa ambizione, e forse dall’intelligenza e determinazione, di quel borghese ex ufficiale di cavalleria. Giovanni Agnelli viene nominato segretario del consiglio di amministrazione, ruolo che gli permetterà probabilmente di attuare quel divide et impera che gli darà il predominio sugli altri. Solo quello?

    Certamente ogni fondatore di imperi industriali (e la Fiat lo diventerà) alla spregiudicatezza aggiunge carisma, intelligenza, conoscenza degli uomini e scaltrezza nel muoversi nel contesto politico della sua epoca. Giovanni Agnelli dispone anche di una visione moderna dello sviluppo industriale che guarda agli americani e che privilegia una politica dell’immagine, antesignana di un fenomeno che sarà capito fino in fondo solo dopo il secondo conflitto mondiale.

    Quando Pietro è assunto in Fiat, siamo nel 1909, questa è già una realtà industriale di prim’ordine con 2500 dipendenti. Fare l’operaio, sia pure nelle condizioni del tempo, è nulla in confronto alle fatiche del passato. Egli fa soprattutto nuove amicizie, scoprendo quell’aristocrazia operaia protagonista, con la piccola borghesia intellettuale del Movimento socialista.

    Pietro abita in una delle tante case di via Genova costruite per ospitare i baròt , i contadini poveri attratti dalla città e dal lavoro in fabbrica, meno massacrante e avaro di quello delle campagne. Arriveranno poi i veneti e i meridionali che non sono ancora i taron (terroni) degli anni Sessanta.

    Il Piemonte contadino nonostante alcune importanti riforme liberali è nella stragrande maggioranza povero. Le terre ricche sono ancora feudi nelle mani delle famiglie nobiliari alto borghesi e delle rendite finanziarie. Nelle campagne la posizione più privilegiata è quella del mezzadro, ma il Piemonte più che terra di pianura è terra di montagna e di collina. L’economia agricola è talmente povera da garantire a malapena la sopravvivenza, a parte pochi grandi fondi ancora di proprietà della nobiltà e della ricca borghesia… Non c’è molta differenza tra i contadini del Nord e quelli del Sud, poveri e analfabeti tutti quanti, con la differenza che almeno al Sud c’è il sole.

    Il clima delle Prealpi piemontesi è certamente meno clemente, diversi quindi i caratteri e la lotta per la sopravvivenza. Pietro ne sa qualche cosa. Lui e tanti altri, sono gli uomini che servono agli industriali. Arrivano a gruppi a Torino, per loro vengono costruite case ai margini della città, come si farà mezzo secolo dopo con l’immigrazione meridionale.

    I cason . Così si chiamavano le case di ringhiera.

    La differenza da quelle del centro storico non era soltanto data dallo stile architettonico. I cason erano grandi un intero isolato, abitate da strati sociali omogenei. Le case del quadrilatero romano, di stile barocco, erano interclassiste. Al primo piano si trovavano i nobili e i ricchi borghesi, poi man mano che si saliva, scendeva il censo. Al secondo c’erano i piccoli borghesi, gli impiegati e poi via via fino alle mansarde occupate dai servi che allora erano numerosi e a buon mercato.

    Le case di via Genova, dove andrà ad abitare Pietro, sono costruite per i nuovi operai di un’industria che cresce a ritmi vertiginosi. Un cortile, dei ballatoi, due o tre piani, tutte di un giallo sporco. È architettura semi contadina ma funzionale. Gli alloggi non hanno mai più di due stanze. L’ingresso è dal ballatoio con le ringhiere in ferro battuto che si affacciano su un grande cortile dove hanno sede le botteghe artigiane: il fabbro, il maniscalco, il falegname e pure il panettiere.

    Lo sviluppo di Torino ingloba i piccoli borghi, creando realtà urbanistiche più simili ai paesi della campagna che non alla città romana prima, sabauda e barocca poi. Questa rimarrà il simbolo del vecchio ordine, le periferie sono il nuovo che avanza.

    Per Pietro, queste case in confronto a quelle di Corio sono dei palazzi, la vita a Torino piena di sorprese e possibilità. Quando entra in Fiat affitta proprio in un cason di via Genova un alloggio di due camere, il bagno finalmente sul ballatoio e non nel cortile, anche se lo deve dividere con le famiglie del pogeul (balcone)

    Uso termini piemontesi perché Pietro e tutta la popolazione parlava in dialetto. Lo parlavano i nobili e i plebei, i ricchi e i poveri, gli industriali e gli operai. Parlavano in dialetto i Savoia, alternandolo al francese. Si dice si esprimessero malissimo in italiano, lo hanno poi imparato a Roma.

    Il piemontese, più di altri dialetti, è una lingua con una precisa grammatica e grosse reminiscenze francofone. Il torinese, diversamente dalle altre parlate piemontesi, è dolcemente lento. Il canavesano della famiglia di mia mamma è sguaiato, con parole di derivazione probabilmente barbarica, molto diverso dal torinese. Noi bambini, pur non parlando il dialetto torinese, capivamo benissimo papà e mamma che lo utilizzavano, ma era arabo il parlare dei nostri cugini di Campo Canavese.

    Tra gli abitanti della barriera di Nizza c’era molta solidarietà. Le case si erano sviluppate dal borgo San Salvario, alla sinistra di Porta Nuova verso Millefonti, e i terreni del Lingotto dove c’erano, campi, un mulino, alcune fabbriche, qualche villa padronale e una piòla (osteria).

    Pietro è arrivato a Torino con il treno Ciriè-Lanzo: una vaporiera che assomigliava ai treni del Far West. Torino gli sembra meravigliosa, le strade enormi, le case altissime, poi man mano che si avvicina alla barriera Nizza tutto diventa più famigliare, le strade, le case. Si imbatte in una batajòla (scaramuccia) di ragazzi, le stesse che si facevano tra un paese e l’altro a colpi di sassi: quelli del borgo di Nizza stanno combattendo con i ragazzi di Millefonti. Pietro dà una mano, tira un paio di pietre e, nonostante la vista malferma causata dal tifo preso da bambino, colpisce i nemici. Diventerà così a pieno titolo un’abitante della barriera.

    Ma altre sorprese lo aspettano: i negozi di Torino pieni di mercanzie di ogni tipo; nei caffè i signori stanno seduti a chiacchierare prendendo il vermut, mentre le signore mangiano le bignòle e le chantilly. La vera meraviglia però è la stazione di Porta Nuova, enorme e monumentale rispetto a quella da cui è partito.

    Le sorprese non finiscono. Davanti alla stazione c’è un magnifico giardino con uno zampillo d’acqua che sale verso il cielo, intorno i portici sono enormi, non quelli piccoli e bassi della via principale di Ciriè. All’angolo, un caffè con un’orchestra che suona. La gente seduta ai tavolini, uomini e donne elegantissimi bevono bibite sconosciute o con un cucchiaino mangiano il gelato, lo stesso che Pietro aveva assaggiato alla fiera del paese, ma che qui è pieno di colori e servito in coppe argentate.

    Una signora canta una canzone che Pietro non conosce. Lui, al paese cantava a squarciagola sempre la stessa canzone, stonato come una campana senza capire bene le parole; oppure, in dialetto, le canzoni sporche.

    Qui è tutto diverso. La signora canta come un angelo e l’accompagnano sette o otto uomini con strumenti che non ha mai visto e che non conosce. Si ferma sotto i portici ad ascoltare e a guardare, quando un signore elegantissimo in giacca bianca, mentre sta portando un gelato a un tavolo, lo guarda male dicendogli: «ampaja ij tond, pivel !» (Scappa, ragazzino!).

    Si sposta allora nel giardino, dove vede un capannello di uomini, alcuni ben vestiti, altri semplici come lui ma più vecchi, che parlano un po’ in piemontese e un po’ in italiano. Quello che dicono è totalmente incomprensibile, ma ne rimane stranamente affascinato. Le parole che sente ripetere un po’ da tutti sono socialismo e socialista. Vicino a lui c’è un giovanotto di qualche anno più anziano, si guardano negli occhi con quella strana sensazione che nasce nelle persone quando tra loro c’è, o sta per nascere simpatia.

    Pietro prende il coraggio a due mani e gli chiede: «ma di cosa parlano?».

    «Di politica» – risponde l’altro. – «Una discussione tra socialisti e popolari.»

    «Ma chi sono?» chiede ancora Pietro.

    «Gente che fa politica: i socialisti difendono noi operai, anche i popolari dicono di farlo ma sono dei baciapile che prendono gli ordini dai preti. Come ti chiami?»

    «Pietro Giraudo.»

    « Piasì (Piacere!), Mario Gioda. Sono un operaio tipografo.»

    «Che mestiere è?»

    Mario tira fuori un giornale dicendogli: « a l’é sòn» (è questo). Pietro non sa leggere, ne fosse stato capace avrebbe letto il titolo: l ’ Avanti! , il quotidiano del Partito Socialista Italiano (PSI).

    Inizia così un’amicizia che per Pietro segnerà tutta la vita e condizionerà le sue scelte future. È ancora completamente analfabeta e non riesce a capire molte cose. Mario invece, pur di famiglia modestissima, è andato a scuola. Sa leggere, scrivere e, soprattutto, fa un mestiere qualificato, in un ambiente dove anche un ragazzo di tipografia vive a contatto con chi sa scrivere bene: i giornalisti. Pietro capisce che l’amicizia con Mario per lui è importantissima, che gli consentirà di conoscere più da vicino quello strano mondo.

    Mario, che prova una sincera simpatia per quel bastardo venuto dalla campagna, se lo porterà dietro ovunque. Una domenica mattina lo porterà alla Camera del Lavoro. Ma questo è un altro capitolo.

    2. Via Giacomo Medici

    Il giorno che papà tornò a casa dal carcere, io ero sul marciapiede davanti alla villetta di via Giacomo Medici dove vivevamo. Occupavamo il piano terra disponendo di un giardino sufficientemente grande, finché papà non decise di tagliare qualche albero per allevare polli e conigli per uso autarchico.

    Nel 1946 papà era un epurato; significava che il Comitato di Liberazione riteneva che lui e la sua famiglia dovessero espiare i passati fasti fascisti tirando, come si usava dire, la cinghia.

    Papà non era certo un epurato silenzioso. Soffriva di insonnia e spesso all’alba si dilettava nel lanciare urla, bestemmie e improperi contro una famiglia che abitava nella casa a fianco, il cui figlio era stato nella banda partigiana che aveva depredato la nostra casa. Non so se fossero gli improperi di papà o i proventi dell’eroismo partigiano, ma la famiglia in questione si trasferì ben presto in una graziosa villa sul corso Lecce. Terminarono così anche le urla.

    Papà era un bestemmiatore professionista, credo che a Torino si usasse molto, forse faceva parte del bagaglio anticlericale del Risorgimento. Non si limitava a bestemmiare, urlava a pieni polmoni, con una voce stentorea da tenore drammatico. Il suo menù variava dal Padre, al Figliolo e, al posto dello Spirito Santo, ci metteva la Madonna. Doveva aver letto quei Vangeli Apocrifi i quali sostengono che la mamma di Gesù fosse una meretrice.

    Certo, economicamente non ce la passavamo bene, papà tuttavia esagerava a dismisura la nostra miseria. Girava vestito da accattone pur avendo una figura da intellettuale. Alla chiusura del mercato di corso Svizzera andava a raccogliere i rifiuti tra lo sgomento della mamma e di mia sorella Edda. Non eravamo ridotti a quel punto, evidentemente a papà piaceva rimarcare le ingiustizie subite.

    Questa sceneggiata si protrasse per un certo periodo finché, piano, piano, tornarono alcuni clienti e quindi poté tornare al suo mestiere di manutentore riparatore di macchine per scrivere.

    Papà girava con la bicicletta in un periodo in cui le auto erano solo per i benestanti. Anche la bicicletta era epurata, vecchia, scrostata, la riverniciò a mano in un colore verde brillante. Quella bicicletta la usò fino all’inizio degli anni Sessanta, quando venne sostituita da un motorino.

    Io, a cinque anni considerato un genio, iniziai la prima elementare privata dalla maestra Pani. La maestra era una vecchietta robusta, doveva avere almeno ottant’anni, quando teneva la penna in mano era necessario stare attenti che non ci punzecchiasse tanto questa le tremava. Abitava vicino alla Parrocchia di Sant’Anna, il fulcro della mia vita di bambino prima, e ragazzino poi.

    Via Giacomo Medici apparteneva, e appartiene tuttora, al quartiere Francia, allora era decisamente fuori porta, una zona tranquilla abitata da piccola borghesia, due corsi spaziosi la intersecavano: corso Svizzera dove andavo a scuola e corso Lecce che finiva nella mitica Pellerina, ora parco pubblico, per noi allora ragazzi, terreno di fantastiche avventure.

    Al sabato sera tutta la famiglia andava al cinema, all’epoca nelle periferie c’erano molte sale cinematografiche; in borgo Francia ben quattro: tre di terza visione e uno talmente scassato, il Manzoni, da non essere nemmeno qualificato.

    Era un rito quello del cinema al sabato sera, come erano un rito alla domenica le visite delle tre zie, sorelle zitelle della mamma.

    Venivano sempre la domenica, in alternativa eravamo noi ad andare da loro, a piedi, o con il tram 22 che aveva delle carrozze antiche, un misto di legno e lamiera. I ragazzini (io no, perché ero prudente) viaggiavano a cavallo del respingente. Allora il biglietto non si obliterava, semplicemente lo staccava il bigliettaio.

    In quei tempi gli operatori ecologici si chiamavano spazzini, gli operatori scolastici bidelli e ai maestri e ai professori si dava del lei. Oggi la sinistra radical chic, non potendo eliminare i lavori meno gratificanti perché necessari, ha pensato di renderli più graditi nobilitandone i nomi. Volete mettere come fossero tristi i bidelli e gli spazzini di una volta, e come invece si pavoneggino per aver salito un gradino nella scala sociale, oggi che sono diventati operatori? Si può dare del tu a un operatore? Certo che no: al massimo i ragazzi di oggi lo danno a un insegnante, così da sentirlo come amico o fratello, magari il fratello scemo.

    Un altro rito indimenticabile era il Natale. Le zie anche in questo caso non mancavano, e nemmeno magna (zia) Margot, in realtà prozia sorella della nonna materna Marie, morta come il nonno Vittorio prima che io nascessi. I nomi francesi erano dovuti al fatto che la famiglia era tornata da S.t. Etienne in Francia dove il bisnonno era emigrato da Campo, facendo una certa fortuna.

    Magna Margot era separata dal marito il quale, dopo averla sposata, l’aveva portata in Sud America. Si raccontava facesse

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