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E-book377 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Horror - romanzo (306 pagine) - Un’entità antica e malvagia riporta in vita i morti nel cimitero di un piccolo borgo tra le Alpi.


Nel 1959 a Portoalto, un piccolo borgo incastrato tra le vette delle Alpi Venoste, i morti del cimitero risorgono all’alba. L’evento sembra in qualche modo collegato a un fatto di sangue avvenuto a inizio secolo, narrato tra le pagine del diario di un vecchio prete accusato di omicidio.


Decimo Tagliapietra è nato in provincia di Vicenza nel 1978. Cresciuto sulle piccole dolomiti, l’ultima cima più a sud, in una casa protetta dal bosco, sposato e padre di una bimba, attualmente lavora in un’azienda chimica. Nonostante un percorso di studi prettamente scientifico, è un appassionato di fiction in tutte le sue declinazioni artistiche, narrativa in primis. Dividendosi tra lavoro e famiglia, non ha mai smesso di dedicarsi alla sua principale passione: la scrittura. Nel 2020 si è classificato tra i finalisti dell’Asylum Horror Contest e al Terni e Narni Horror Fest. Un racconto breve è stato selezionato per l’antologia Z di Zombie 2021, curata da LetteraturaHorror.it

LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9788825416602
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    Anteprima del libro

    Risorgemia - Decimo Tagliapietra

    LetteraturaHorror.it

    No… La Morte non esiste. Non è mai esistita e non esisterà mai. Ma noi ne abbiamo tracciato tante immagini, per tanti anni, cercando di fissarla, di comprenderla, che abbiamo cominciato a considerarla un’entità, stranamente viva e avida. Ma si tratta di un orologio fermo, di una perdita, di una fine, di una oscurità. Nulla.

    Il popolo dell’autunno, Ray Bradbury

    Prologo

    Oh le campane, campane, campane!

    Quale cupo, disperato racconto

    ora narrano!

    Le campane, Edgar Allan Poe

    Il prete assassino e gli assassinati

    Dubbi sulla verità delle turpi accuse

    (Per telefono al Corriere Della Sera)

    Ci telefonano da Trento, 11 settembre 1909, notte:

    Sono stati sequestrati tutti gli scritti di padre Harnack rinvenuti nella sua stanza in canonica. Il prete assassino, dopo il misfatto, aveva avuto la cura di comprare un necessaire da toilette. Si è già accennato al suo desiderio di attraversare l’oceano. Si cerca ora di assodare se l’assassino abbia avuto dei favoreggiatori ed è su questo che le autorità si stanno concentrando.

    Il maggiore dei fratelli dell’assassino, Umberto, ha scritto da Bergamo al fratello commesso a Trento in una fiaschetteria: – Non ti curare di quel che dicono, loro san bene quel che è accaduto! – A chi possa riferirsi Umberto con quel – loro – non è oggetto di investigazioni da parte degli inquirenti. Lo stesso maresciallo Trigone sostiene: – Mi gira la testa con tutte queste dichiarazioni spontanee di chi sa tutto di tutti. Padre Harnack si è macchiato del crimine peggiore, e forse non solo di quello. Pensate ai fatti del collegio di Clusone. Si è tolto la vita, così che non possiamo chiedergli alcunché. Il medesimo Umberto non ha ancora conferito con le autorità e non rilascia dichiarazioni ufficiali, ma non prestiamo grande importanza a ciò che avrà da dire. Egli attende comunque di consigliarsi con gli altri componenti della famiglia.

    Sul prete assassino e sulla vita che condusse quando era gesuita, si hanno queste notizie. Padre Gustavo Harnack è nato il 12 settembre 1846 a Trento; entrò a far parte della Compagnia di Gesù l’8 dicembre 1863. Nella sua giovinezza manifestò un carattere stravagante e socievole. Compì con onore gli studi di teologia e la sua condotta fu irreprensibile sotto ogni rapporto.

    Nello scorcio del 1878, recatosi a Milano per sistemare alcuni propri interessi col permesso del generale dell’Ordine, padre Pietro Malfermo, rimase assente per due anni, finché lo stesso Malfermo lo invitò a ritornare a Leman, alla sua comunità, cui vi rimase per vent’anni, fino ad oggi. Da un viaggio a Innsbruck, ritornò a Leman con due bauli pieni di immagini sacre da lui acquistate, che donò al provinciale dell’Ordine.

    Le famiglie delle tre vittime (Antonio Camposanto, Fausto Zaccaria, Guglielmo Patrani, n.d.r.), si trincerano nel silenzio più totale, all’indomani del ritrovamento di un diario, di quella che sembra a tutti gli effetti una confessione scritta dell’assassino. È una polemichetta tra i giornali cattolici e fra alcune testate irriverenti e liberali, circa l’attendibilità di alcuni fatti affermati da padre Harnack nella sua postuma confessione. Dietro un racconto fiabesco intriso del sapore ferrigno del satanismo, dove orchi e cadaveri ambulanti fanno da improbabile contorno, sembra che il prete assassino abbia voluto travestire da mero racconto fantastico la macabra realtà. Difatti, oramai è voce generale che l’assassinio sia stato commesso per nascondere atti innominabili e vergognosi. Quale ruolo ricoprissero le vittime non ci è dato a sapere.

    24 giugno 2012

    Costantino Stern fece una smorfia e scosse la testa mentre ingollava un altro sorso di caffè. Trovò un piccolo ritaglio di spazio sulla scrivania ingombra di oggetti e vi depose la tazzina, rassegnato.

    Premette un pulsante sull’interfono e sollevò la cornetta bianca.

    Una voce di donna rispose all’altro capo del filo. – Sì, dottore? – Voce pulita, morbida, efficiente.

    – Eliminiamo il Costarica. Torniamo in Brasile.

    Una piccola pausa, dall’altra parte.

    – Non ci siamo?

    – No, non ci siamo. Ha un retrogusto di polvere che si attacca alla lingua. Mi fa tornare la voglia di fumare.

    – Come se avessero esagerato con la tostatura, vero?

    – Sì, oppure non degassato a sufficienza.

    – Convengo, dottore. Ho avuto la stessa impressione. Chiamo subito il negozio e informo Anacleto circa le nostre considerazioni.

    – Grazie Celeste.

    Depose la cornetta, si alzò e andò a svuotare il caffè rimasto nel lavello del bagno. Si diede una fugace occhiata allo specchio. Si stava trascurando. I capelli castani striati di grigio necessitavano di una aggiustata, riccioli ribelli manifestavano boriosi sulle tempie. Gli occhi marroni erano stanchi, cerchiati da occhiaie scure, anche se non ancora così evidenti.

    Ci vuole un attimo a dimostrare sessant’anni, giudicò.

    Aprì la tenda per far filtrare un po’ di luce nella stanza. Il rumore del traffico era un ronzio di sottofondo, giù in basso. Lo studio era al quarto piano, piccolo, disordinato e appestato da un’intensa fragranza agli oli essenziali. Se ne sarebbe potuto permettere uno più grande, magari un appartamento con una camera da letto e una cucina, ma quando lavorava non aveva bisogno né di dormire né di mangiare. Beveva soltanto caffè. Un ufficio troppo grande sarebbe stato dispersivo. A lui serviva poter afferrare le cose senza doversi alzare dalla scrivania, o perlomeno scivolando sulla sedia con ruote.

    Lo studio era come la bancarella di un mercatino dell’antiquariato. Oltre ad un numero considerevole di volumi a riempire le mensole delle capienti librerie, e torri pendenti di faldoni sul pavimento come resti archeologici di antiche città, sparsi qua e là per la stanza vi erano vinili, fotografie incorniciate, balestre medievali, un tortuoso centrotavola in porcellana d’Este, occhiali da sole, accendini, un grammofono dalla tromba dorata, un televisore da quattordici pollici a tubo catodico e una lente da ingrandimento sospesa ad un piccolo piedistallo d’acciaio.

    Dovrò sistemare tutto questo casino, un giorno o l’altro, si ripromise per l’ennesima volta.

    Tutti quegli oggetti erano un ponte con il passato ed era essenziale averli sempre sott’occhio, perché erano istantanee tangibili di quello che lui aveva vissuto, così che non avesse mai a dimenticare. Poterli toccare, anche solo sfiorare, significava che erano reali, che erano autentici come il viaggio bizantino che alla fine li aveva condotti in quella piccola stanza nel centro storico di Milano. Erano imprescindibili. Ogni oggetto raccontava una storia, quasi sempre spaventosa, che in pochi avevano avuto l’ardire di ascoltare.

    Il citofono gracidò.

    Costantino guardò l’orologio.

    Erano le quindici.

    Premette il pulsante dell’interfono.

    – È Geremia – disse Celeste.

    – Fallo entrare.

    Un uomo pelato di statura media, sulla cinquantina, entrò nello studio. Una barba bianca, corta e ben curata, delineava il contorno ben definito di un mento importante. Indossava una giacca di pelle marrone e pantaloni di jeans. Gli occhi intelligenti sorridevano. Districandosi nel labirinto creato dai suppellettili sul pavimento, l’uomo prese posto sulla sedia di fronte alla scrivania.

    Costantino premette un tasto sulla tastiera del computer e il pdf di un vecchio articolo di giornale scomparve nella barra delle applicazioni.

    – Caffè? – chiese al nuovo arrivato.

    – No, grazie. Sono a posto. Notizie del cardinale?

    – Non ancora. – Di nuovo una sbirciata all’orologio. – Non è detto che ci siano novità. E comunque è ancora troppo presto.

    – Ho sentito il signor Sinigallia. – Le labbra di Geremia si allargarono in un sorriso. – Gli piacerebbe ripeterlo, in futuro.

    – Hanno inviato il bonifico a saldo?

    – Sì.

    – Bene. È stato divertente – ammise Costantino, abbozzando a sua volta un sorriso. – Non avevo mai partecipato ad una trasmissione televisiva.

    – C’è sempre più interesse per questo genere di cose.

    – Intendi l’occulto?

    – Sì, l’esoterismo in generale.

    – Ci sono anche un sacco di approfittatori che dovrebbero finire in galera.

    – Quelli sono dappertutto.

    Geremia esaminò il pavimento della stanza costellato dagli innumerevoli manufatti, alcuni molto antichi, sparpagliati alla rinfusa e ricoperti da un sottile strato di polvere. Il piccolo televisore rannicchiato in un angolo lo scrutava come un enorme occhio sovrintendente.

    – Non riesco a capire una cosa, Costantino.

    – Che cosa?

    – La quasi totale mancanza di informazioni. Per un fatto di questa portata, intendo.

    Costantino divenne improvvisamente serio. Quella frase ristabilì l’ordine delle cose, catapultando entrambi negli anfratti oscuri dell’indagine sulla strage di Portoalto.

    – Già. Parecchi morti.

    – Più di un centinaio.

    – Centodiciassette, senza contare gli animali.

    – Se non trovi qualcosa in Google, allora quella cosa non esiste, vero? – disse Geremia, con un tono rassegnato nella voce.

    Costantino non poté che fare un cenno di assenso.

    – Una data commemorativa, in ricordo delle vittime? – Allargò le braccia e scosse la testa. – Niente. È come se qualcuno avesse deciso di cancellare questi fatti dalla storia. Dove sono i rapporti sulle autopsie? Non vi è un’indagine accurata sulle cause dell’incendio, nemmeno un censimento dei morti. Perché non ci sono i rapporti degli interrogatori dei primi soccorritori? Quanta gente è salita da quando si è scoperto quello che è accaduto? Dov’è finita tutta questa gente?

    – Considera che il comando di Leman si è trasferito tre volte, negli ultimi cinquant’anni – ammise Geremia. – Chissà quanta roba è andata persa.

    Costantino sbuffò.

    – Non è andata persa, è stata trafugata.

    – Per quale motivo?

    – Se non la si trova, non lo sapremo mai. Ho chiesto al cardinale il motivo dell’interesse per un evento che tutti sembrano aver dimenticato, ma quel diavolo è sempre evasivo. Se il Vaticano si dedica a qualche cosa con un tale dispendio di energie, significa che quel qualcosa è pericoloso per la Chiesa. Appena ho menzionato il diario si sono mossi immediatamente, senza fare troppe domande. Si aspettano che porteremo a casa il risultato, qualunque esso sia.

    – Ci stavo riflettendo, mentre venivo qui. Non riesco a vedere il nesso tra questo mitologico diario che andiamo cercando e i fatti di Portoalto, accaduti quasi cinquant’anni dopo.

    – Non hai letto bene fra le righe.

    – Ti riferisci all’articolo sul prete?

    – Mi riferisco all’unico documento che denoti una parvenza di professionalità relativo ai fatti di Portoalto.

    – Non trovo i nessi.

    – Perché ti soffermi sulle parole. Sono sempre più convinto che esista un filo rosso che lega le due vicende, ma questo filo è sottile, è sottinteso.

    Geremia non aveva dubbi che così fosse. Aveva trascorso troppi anni al fianco di Costantino per non dare retta alle sue intuizioni. – Quale sarebbe questo filo?

    – Il rapporto forense sui due corpi rinvenuti nella drogheria.

    Geremia rimase in attesa. Ancora non riusciva a capire dove il suo amico volesse andare a parare.

    – Dovrebbe essere qui da qualche parte – disse Costantino, scivolando con la sedia sul parquet. Si chinò e raccolse dal pavimento una smilza cartelletta. – Ecco, questo è tutto quello che siamo riusciti a scovare sulla vicenda: quattro fogli in croce. Un’imponente prima pagina del quotidiano Alto Adige, in lingua tedesca; un altro trafiletto uscito a distanza di una settimana; una notizia sul funerale di massa svoltosi a Leman; una frettolosa descrizione della prima ricognizione a firma del brigadiere capo Tommasoni.

    Sfogliava i documenti con evidente irritazione, esaltando il profumo degli oli essenziali nell’aria.

    – Eccolo – esultò infine. Selezionò un foglio dattiloscritto dalla cartelletta e lo sottopose a Geremia. – Dobbiamo ringraziare il nostro amico cardinale. Non ho idea di come sia riuscito ad entrarne in possesso.

    Geremia afferrò il foglio che Costantino gli porgeva.

    – È il rapporto dattiloscritto del medico patologo – disse. Aveva già avuto modo di leggerlo, senza ricavarne nulla degno di nota. – Cosa dovrei vedere?

    – Leggi ad alta voce.

    Geremia si schiarì la gola. – Dottor Miziani, medico chirurgo dell’Ospedale Benemerito di Leman. Poi c’è una data, sei marzo del cinquantanove, disposto dall’Arma Dei Carabinieri, eccetera, eccetera. Inizia l’esame forense. Sono soltanto un mucchio di ossa carbonizzate. Due corpi. Eccetera. Nessun dato anamnestico. Non si sa chi siano questi due. C’è l’inventario dei resti. Nient’altro. – Geremia sollevò uno sguardo interrogativo all’indirizzo di Costantino. – Questo non è un rapporto forense, è solo un foglietto con degli appunti.

    – Leggi le didascalie delle parti anatomiche – insisté Costantino.

    Geremia tornò a posare gli occhi sul foglio. Lesse in silenzio per circa un minuto, poi alzò di nuovo lo sguardo. Questa volta nei sui occhi brillava una luce di trionfo. – Le dimensioni.

    Costantino si esibì in un singolo applauso. – Esatto.

    – La lunghezza delle ossa.

    – Leggi.

    – Un femore di ottantasei centimetri. – Rimase a bocca aperta, incredulo. – È lunghissimo.

    – Se quelle misure sono attendibili, uno dei cadaveri apparteneva ad un uomo alto intorno ai due metri e mezzo. Un gigante.

    Geremia fischiò. Si prese qualche istante per riesaminare il documento. – Ancora non riesco ad individuare quel filo rosso di cui parli.

    – L’articolo su padre Harnack. Fanno riferimento ad una confessione scritta, ad un diario ritrovato nella sua abitazione. L’articolo di giornale descrive questa confessione come il frutto del delirio del prete, una confessione, certo, ma camuffata da storia dell’orrore. – Costantino rovistò con la mano le risme di fogli sparsi sulla scrivania. Alcuni post-it svolazzarono e caddero sul pavimento, finché riuscì a scovare quello che cercava. – Dove orchi e cadaveri ambulanti fanno da improbabile contorno, cito testualmente. – Gli occhi del dottore, baluginanti di un’arguzia fuori dal comune, trafissero Geremia. – Non ti sembra il femore di un orco, quello?

    Geremia tacque. Aveva imparato a non giudicare mai le argomentazioni di Costantino, per quanto strampalate potessero apparire ad un primo esame, perché la maggior parte delle volte non si rivelavano prive di fondamento.

    – Abbiamo due fatti tragici avvenuti nei dintorni di Leman. Il primo risale agli inizi del Novecento, il secondo, più impattante a causa dell’elevato numero di vittime, a fine anni Cinquanta. In due documenti in apparenza sconnessi, scritti a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro ma riconducibili alla medesima area geografica, troviamo un riferimento ad esseri di esagerata altezza. Da una parte abbiamo un orco, dall’altra un femore di ottantasei centimetri. – Costantino sospirò, pensieroso. – È un collegamento labile, lo ammetto, ma abbiamo sofferto partenze più modeste di questa, non credi?

    Geremia si domandò dove li avrebbe condotti quella nuova indagine, quali oscuri e polverosi segreti avrebbero dovuto dissotterrare stavolta. Avvertì un formicolio alla base del collo, come un segno premonitore. – Sembra che nel diario si parli anche di cadaveri ambulanti.

    Costantino annuì. – Il primo a raggiungere Portoalto fu il brigadiere Tommasoni. Nel suo rapporto egli descrive sommariamente un cimitero devastato e tombe profanate, molte delle quali vuote. – Rivolse uno sguardo accigliato al suo amico. – Dove sono andati a finire questi cadaveri? – Sfiorò con le dita il quadrante digitale dell’orologio, immerso nei suoi pensieri. – Ucciderei per un buon caffè – disse.

    Il citofono gracchiò.

    Geremia si agitò sulla sedia.

    Costantino premette il pulsante bianco e sollevò la cornetta.

    – Dimmi Celeste. – Rimase in ascolto. La fronte corrugata si distese gradualmente. Un sorriso sbocciò dalle labbra sottili dell’uomo. – Grazie. – Riagganciò, gli occhi come dardi luminosi. – Era il cardinale Vassalli. Si trova a Praga. Ha trovato il diario.

    Parte prima

    23 e 24 febbraio 1959

    E quella turba – quella turba

    Che s’accalca là in cima al campanile,

    Tutta sola lassù in alto

    E che batte, batte, batte

    Con quei toni soffocati,

    E si gloria che un gran masso al cuore umano

    Lancia e rotola di lassù

    No, non son uomini né donne

    Non sono umane forme né d’animali

    Ma son…

    Le campane, Edgar Allan Poe

    23 febbraio 1959

    Ore 3.32

    L’enorme figura scura osservava le fiamme bluastre protrarsi verso il cielo. Danzavano irrequiete, come serpenti dinanzi l’incantatore. Il fumo denso si mescolava alle nubi, tutto intorno. Dopo qualche tempo, la figura si affrettò a spegnere il fuoco in mezzo alle pietre. Alzò lo sguardo al soffitto grigio e vaporoso. La luna era un cerchio frastagliato, iridescente. Le nubi gonfie traghettavano lente nel cielo. Presto avrebbero versato lacrime, più giù.

    Un timido ruscello zampillava da sotto una grossa pietra, zigzagando con noncuranza verso la valle. La figura scura si chinò con le mani a coppa e raccolse la cenere dalle braci spente, sparpagliandole nell’acqua.

    Annuì, soddisfatta.

    Poi si incamminò verso il basso.

    Ore 5.40

    La vecchia stufa non riusciva a sconfiggere del tutto gli spifferi che come spiritelli dispettosi si infilavano tra le fessure nella finestra. Padre Claudio rabbrividì mentre si rivestiva. Indossò il pesante abito talare invernale, richiudendo con lenta meticolosità i grossi bottoni neri. Mentre si vestiva sostava di fronte alla finestrella e ammirava il paesaggio che gli si stagliava davanti. Un tenue chiarore si diffondeva da est mettendo in luce gli scuri cumulonembi che avvolgevano come una grossa, vaporosa coperta le punte spigolose delle Alpi. In basso, all’interno di un cortiletto recintato a ridosso della chiesa, erano state installate un’altalena e uno scivolo. L’evidente stato di abbandono cozzava con la scrupolosa accuratezza con cui erano state disposte le piante di ginepro. Erano addossate ad un perfetto muretto in sasso eretto a secco. Dietro il cortile, oltre la siepe di ginepri, si innalzava il poderoso versante dello Spitzer Berg, fatto di roccia e alberi, completamente bianco tranne che per le punte spinose degli alti pini che apparivano come tanti ombrelli verdi. L’intero paesaggio era avvolto da una fitta foschia e il sentiero che dal cortile svoltava dietro il camposanto ne era inghiottito in modo misterioso come in un quadro di Caspar Friedrich.

    Padre Claudio finì di abbottonarsi il cappotto e attraversò la spartana camera da letto fino a raggiungere la porta. Una minuscola iconografia di Gesù intagliata e dipinta su un rettangolo di legno chiaro era appesa sopra l’anta chiusa. Le inviò un fugace bacio con le mani e nel contempo accarezzò con le dita la madonnina d’oro che aveva appeso al collo. L’aveva stretta forte anche quella notte, quando la terra aveva tremato. Dopo una profonda e cavernosa vibrazione, e il rumore del vento che si alzava all’improvviso, l’armadio e le molle del letto avevano iniziato a cigolare, dapprima lievemente, poi con violenza. Aveva atteso nel buio di sentire lo scricchiolio del soffitto che si apriva e gli crollava sulla testa, ma non era accaduto. Aveva trattenuto il respiro, il corpo imprigionato da lacci di adrenalina. La mano era andata alla madonnina. Signora, mia Salvatrice, aiutami, aveva sussurrato con voce tremante. L’episodio era durato nemmeno un minuto, ma gli era sembrata un’eternità. Poi tutto era cessato e il prete se n’era rimasto sdraiato al buio, ad ansimare e a ringraziare Dio per averlo risparmiato.

    Non erano così frequenti i terremoti sulle Alpi, o perlomeno non erano percepiti distintamente come accadeva in pianura, ma aveva letto da qualche parte che le montagne si innalzavano di un millimetro all’anno e che il processo di spinta dovuto alla tettonica a placche non si era mai fermato dagli albori del mondo.

    Stanotte abbiamo guadagnato un altro millimetro, pensò.

    Si fece il segno della croce e uscì nel corridoio.

    La canonica, adiacente e comunicante con la chiesa, era semplice e sobria. Era composta dalla sua stanza da letto, una piccola biblioteca che egli utilizzava anche come studio, un’altra camera da letto e uno stretto locale con stufa adibito ad angolo cottura. Sua sorella aveva alloggiato lì per circa tre anni. Non si era mai sentito di una donna che occupasse gli spazi di una canonica per abitarvici, ma il suo era stato un caso straordinario. Sua sorella Benedetta era malata di una malattia che prendeva il cervello e non le permetteva di essere autosufficiente.

    Padre Claudio, da buon cristiano compassionevole, si era ripromesso di assisterla fino alla fine dei suoi giorni. In tante notti al capezzale si era reso conto che la capacità della sorella di formulare pensieri sensati e coerenti era fluita via come aria da un palloncino che lentamente stesse sgonfiandosi. L’aveva tenuta per mano, insieme a lei aveva pregato, in silenzio, l’aveva nutrita come un neonato, l’aveva ripulita dalle sue deiezioni improvvise.

    Ma aveva anche sopportato le sue parole come proiettili a scalfirgli le carni. È malata, si ripeteva sempre. Non sa quello che dice. Ma quella voce spezzata e rantolosa era un dardo che raggiungeva sempre l’obiettivo, e quando gli parlava quegli occhi grigi brillavano di una inquietante consapevolezza.

    Poi, un pomeriggio di settembre, aveva smesso di parlare.

    Almeno per un po’.

    Superò il corto corridoio e lo studio, scese le scale e si diresse nella piccola cucina per un caffè e un pezzo di pane con marmellata di more. Era ghiotto di marmellata, in particolare di quella di more e lamponi, e metteva da parte barattoli e barattoli per affrontare dolcemente l’inverno. Sbirciò l’orologio appeso sopra la stufa. Sbuffò, esalando una nuvoletta di condensa intorno al viso.

    Quello non era un giorno come gli altri, si disse. Per niente. Ripensò al cortile e al parco giochi abbandonato. Oramai a Portoalto non vivevano più bambini, da un sacco di tempo. I vecchi non concepivano bambini. Era come un cattivo presagio, qualcosa di cui tener conto. Significava che il paese stava morendo, soffocato da una lenta agonia che avrebbe trovato il suo decorso attraverso un invecchiamento graduale fatto di stenti, di privazioni, di fatica. In un paesetto che si autososteneva grazie all’allevamento di bestiame e al lavoro della terra, era necessaria la forza di braccia giovani e forti. Se queste venivano a mancare, cessava anche il sostentamento, e con la mancanza di esso non ci sarebbe più stata scelta. L’unico bambino di Portoalto era deceduto un paio di giorni prima, un avvenimento che aveva assunto dei connotati inquietanti, come se un antico dio maligno avesse riscosso il suo tributo e portato a termine l’oscuro disegno che prevedeva l’annullamento del piccolo borgo.

    Malinconicamente, padre Claudio giudicò che Portoalto avrebbe cessato di esistere. Se mancavano i bambini, sarebbe mancata la vita. Tutto qua. Tutto finito.

    Un brivido che nulla aveva a che fare con la temperatura all’interno della stanza gli risalì la schiena come un ragno.

    Diede un’altra occhiata all’orologio. Doveva darsi una mossa. Aveva da mettere in atto tutti i preparativi per il funerale delle otto. Non poteva perdere tempo in tediose elucubrazioni sul futuro di Portoalto, in special modo perché, vista la sua non veneranda età, di quel futuro lui non avrebbe fatto parte.

    Un urlo straziante provenne rimbombando dalla chiesa.

    Padre Claudio si irrigidì. Fu come se avesse ricevuto un pugno in pieno stomaco, gli mancò quasi il fiato.

    Depose la tazzina di caffè e uscì dalla cucina, avanzando verso la porta che collegava la canonica alla chiesa. Strinse la maniglia della porta, senza aprirla. Il cuore nel petto era la mazza di uno spaccapietre.

    Girò la maniglia ed entrò nella chiesa. Si ritrovò in un ambiente dal soffitto alto e molto più freddo. Era un edificio che si distingueva per la sua rigorosa semplicità. Il bianco delle pareti in pietra levigata era interrotto qua e là da alcune pregevoli tele di pittori fiemmesi mentre le nicchie rientranti con davanzali in marmo circondavano vetrate ampie e luminose, rinforzate da telai in ferro battuto e protette da inferriate. Al centro, un altare semplice ma imponente, un’enorme e liscio parallelepipedo in sasso ricoperto da uno spesso tessuto color panna.

    La grande porta in legno di pino era spalancata. Un refolo di vento misto a foschia si insinuò tra i banchi disposti linearmente in gruppi da cinque di fronte all’altare.

    Padre Claudio si affrettò a richiuderla. L’eco dei suoi passi risuonò brillante contro il soffitto in pietra sorretto da spesse travi in legno.

    Si voltò verso l’altare.

    Si chiese se fosse stata Maristella a cacciare quell’urlo.

    Lo sguardo andò a posarsi su una porticina scura, alla destra dell’altare. La porta era aperta e si chiese perché.

    Era la camera ardente.

    Udì uno scricchiolio proveniente da là. Topi, pensò. Con il freddo era normale che cercassero di intrufolarsi nelle abitazioni.

    Ma poi credette di capire.

    Deve esserci Mezzapria, si disse. È venuto per dare un’ultima sistemata alla salma e non ha voluto disturbarmi.

    Ad un tratto la luce ancora debole all’interno della navata si affievolì ulteriormente. Forse un’enorme nuvola all’esterno aveva oscurato il cielo antelucano.

    – Maristella? – chiamò Padre Claudio.

    La vecchia sacrestana non rispose.

    Il gusto della marmellata ai mirtilli gli foderava ancora la lingua ma la bocca si fece ad un tratto secca.

    Si incamminò verso la porta aperta della camera ardente, respirando convulsamente, inglobando nei polmoni più aria di quello che realmente serviva. Non capiva perché Maristella non gli rispondesse.

    Entrò nella stanza dove giaceva la salma del piccolo Mirco. Era di dimensioni piuttosto ridotte, quattro metri per quattro. Soffitto alto, pareti bianche, nessuna finestra. Un grande crocifisso intarsiato nel legno sovrastava il vano, appeso sulla parete più stretta. Al centro un tavolo basso, sempre in legno, rivestito di velluto rosso. Sopra il tavolo, inclinata fino a sporgere incautamente dal perimetro dei sostegni, una bara in larice dipinta di bianco.

    La bara era vuota.

    Padre Claudio si sentì ad un tratto mancare.

    Ma che cosa sta succedendo?

    – Maristella? – chiamò di nuovo, girandosi verso la porta. – Maristella!

    Nessuna risposta.

    Nel momento in cui si convinse che la chiesa era completamente vuota, iniziò a sentire dei rumori provenienti dall’esterno, suoni ovattati percepiti in lontananza, voci alterate di persone che si udivano dal sagrato e dalla strada.

    Poi altre urla.

    Padre Claudio sentì le gambe pesanti come sassi mentre si girava ed usciva dalla camera ardente, quasi che l’avesse colto un improvviso calo di zuccheri. Dovette fare un enorme sforzo per compiere i passi che lo separavano dalla vetrata che si affacciava sul sagrato.

    Si avvicinò alla finestra più piccola, quella con il davanzale più basso e che gli avrebbe consentito di osservare l’esterno.

    Le dita tremanti cercarono la madonnina d’oro appesa al collo.

    Quello non era un giorno come gli altri.

    Guardò fuori.

    Ma non troppo a lungo.

    Ore 10.30

    – Devi avere un buon motivo per sorbirti questa via crucis – disse Giorgio Tredisotto, mentre i ragazzi finivano di caricare i sacchi di mangime sul carro. L’uomo era sulla sessantina, capelli bianchi e un naso bitorzoluto cosparso di capillari rossi. La pancia prominente spingeva sotto un grembiule grigio che voleva essere la divisa dell’emporio.

    Cesare Parodi accarezzò Alba, che sbuffò infastidita scuotendo la testa quasi che sapesse quale dura giornata l’attendeva. Aveva un mantello sale e pepe con striature bianche sul capo e sulle cosce muscolose.

    – Sai come si dice in questi casi, se Maometto non va alla montagna…

    Giorgio rise di gusto.

    – Sappiamo entrambi che Maometto non c’entra. – Gli strizzò l’occhio, con fare cospiratore. – Ma ti capisco, sono stato giovane anch’io. Quando è l’uccello a prendere le redini della tua vita, non senti più la fatica e non vedi i pericoli. Hai già preso le taniche di benzina?

    – Sì, già caricate. Avrei detto cuore, invece che uccello. Sai, non riesco ad immaginare com’eri da giovane.

    – Non fare il gradasso, finirà anche per te la stagione della caccia, come per tutti. – Scrutò l’orizzonte a nord, verso le montagne innevate. – Tieni a portata di mano qualcosa per coprirti, quel

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