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Il caporale. Dal passo Halfaya a Pietermaritzburg ZonderwaterLibia - Sudafrica 1941 - 1947
Il caporale. Dal passo Halfaya a Pietermaritzburg ZonderwaterLibia - Sudafrica 1941 - 1947
Il caporale. Dal passo Halfaya a Pietermaritzburg ZonderwaterLibia - Sudafrica 1941 - 1947
E-book162 pagine1 ora

Il caporale. Dal passo Halfaya a Pietermaritzburg ZonderwaterLibia - Sudafrica 1941 - 1947

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«I presidi di Sollum e di Halfaya, accerchiati ed ininterrottamente battuti da artiglierie di ogni calibro e dall'aviazione, rimasti da tre giorni causa il maltempo privi di rifornimenti aerei, specie di acqua anche per i soli feriti, dopo due mesi di eroica lotta sono stati costretti a desistere da ogni ulteriore ormai impossibile resistenza». Con il Bollettino militare n. 595 del comando superiore italiano si concluse la battaglia al Passo di Halfaya sul confine tra l'Egitto e la Libia tra le forze britanniche e le unità italo-tedesche. Raffaello Cei era inquadrato nel 2° Reggimento Articelere "Emanuele Filiberto Testa di Ferro", come conducente di trattori utili allo spostamento delle artiglierie e al trasporto del munizionamento e vettovagliamento. Era un giovane artigliere italiano impegnato sul fronte libico e nel gennaio del 1942 al Passo di Halfaya, dopo settimane di dura battaglia, venne catturato dagli inglesi e condotto in prigionia prima in Egitto e poi in Sudafrica. Qui venne rinchiuso nel campo di prigionia di Pietermaritzburg, il campo di transito del più famoso e immenso campo di Zonderwater.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2020
ISBN9788832281187
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    Il caporale. Dal passo Halfaya a Pietermaritzburg ZonderwaterLibia - Sudafrica 1941 - 1947 - Raffaello Cei

    www.tralerighelibri.it

    1. Un ragazzo

    Mi chiamo Raffaello Cei e quella che racconterò è la storia di una parte importante della vita che coincide con la mia giovinezza e con la tragedia di un intero popolo, di un paese attraversato dalla guerra. La mia non è una storia eccezionale, eroica. La reputo comune a quella di molti giovani della mia generazione i quali, esattamente come me, hanno vissuto la guerra conoscendone prima esaltazione, poi delusione e infine orrore.

    Sono ricordi lontani, forse sbiaditi dal tempo, come vecchie foto in un album dimenticato in un cassetto. Ma la racconterò ugualmente, questa storia, come un documento di una vita e soprattutto perché è mio desiderio che i giovani di altre generazioni conoscano meglio, anche attraverso storie come la mia, l'importanza e la necessità della pace.

    Sono nato a Lucca, nel 1920, il sedici del mese di ottobre, figlio di Agostino e di Maria Dina Galli. Avevo solo due anni quando Benito Mussolini prese il potere, posso affermare perciò d'aver vissuto interamente la prima parte della mia vita, fino alla maturità sotto il Fascismo.

    Voglio subito dire che proprio per quel motivo mi fu facile accettare come naturali, idee, consuetudini e simboli che ci venivano, volenti o nolenti, proposti perché non ne avevo conosciuto di diversi e mai mi sorse il dubbio che essi potessero essere sbagliati o men che meno condurre alla rovina di tutto il paese.

    Per essere sinceri, nella mia famiglia si respirava aria di socialismo. Mio padre Agostino, con alcuni amici, era solito riunirsi in un circolo dove, tra gli altri argomenti, si discuteva anche di politica. Li chiamavano la società del fiasco. Erano uomini completamente inoffensivi. Alcuni di questi avevano vissuto l'esperienza terribile della prima guerra mondiale per non desiderare che pace e lavoro. Si trattava di piccoli impiegati, qualche contadino inurbato da pochi anni, artigiani, gente brava e onesta. Bevevano un bicchiere di vino e fumavano un mezzo toscano al tavolo del caffè scambiandosi opinioni sui tempi che vivevano, sulla disoccupazione, le ore di lavoro, gli scioperi, la miseria, le ingiustizie.

    Li fecero sloggiare ugualmente da quel semplice ritrovo e mio padre, dopo che qualcuno ebbe assaggiato l'olio di ricino o fu bastonato, ma soprattutto a causa delle insistenze di mia madre, smise di parlar di politica in pubblico. Credo però che dentro di sé conservasse per tutta la vita idee democratiche e me le passò solo per allusione forse per il desiderio di non complicarmi l’esistenza più del dovuto.

    Le cose andavano così. C'era poco da scegliere. La paura delle idee è il primo mattone della dittatura, però allora io non lo sapevo e vivevo la mia vita come ogni altro ragazzo nato e cresciuto sotto un regime che sistematicamente spogliava i cittadini dei loro diritti.

    Chi si opponeva veniva isolato o punito. Seppi poi che molti intellettuali avevano scelto di emigrare all'estero per poter professare le proprie idee in libertà.

    Tra le letture di mio padre c'era il Travaso delle idee, un giornale umoristico. Era diretto da un certo Guasta. Per imitazione, mi piaceva darci un'occhiata anche se capivo poco il divertimento che ne traeva mio padre. Quando quel foglio cambiò il suo direttore, mio padre continuò a seguirlo per alcuni anni ma poi, stomacato dalla direzione troppo filo fascista, smise, come diceva lui di buttare i soldi. Il vecchio Guasta tornò a dirigere il Travaso solo a guerra finita, nel 1946, e io, per nostalgia di mio padre, lo compravo abitualmente.

    Quando ero un bambino delle elementari e poi un ragazzo che già si atteggiava a giovanotto che lavora, la parola guerra aveva un significato coincidente con altre capaci di attrarre le menti, parole quali purezza, dovere, diritto, onore e soprattutto grandezza della Nazione. Venivamo educati a considerarci quali gli eredi naturali di un popolo che era stato capace di espandere la propria influenza su tutto il bacino del Mediterraneo e oltre, dovunque portando cultura a quei popoli che, ovviamente, venivano sottomessi. Ma questo fatto veniva omesso. La rivendicazione di terre non nostre, la restaurazione di un Impero tramontato tanti secoli prima mi sembrava il fatto più naturale del mondo. Tutti gli italiani di allora non erano beoti, erano uomini e donne in cerca di qualcuno che li inorgoglisse un po' dopo essersi macerati nelle trincee del Carso.

    Dopo il 1935, cominciava a circolare una canzone, specie tra noi quindicenni, che parlava di italiani che portavano libertà ai poveri schiavi dell'Abissinia:

    La legge nostra è schiavitú d'amore,

    il nostro motto e libertà e dovere.

    Vendicheremo noi, camicie nere,

    gli eroi caduti, liberando te!

    Quella era la guerra!

    Alcuni dei giovani che conoscevo, più grandi di me di sette otto anni, si lasciarono ammaliare dall'avventura della guerra, dell'Africa, della possibilità di guadagni. L'Italia attraversava un periodo di crisi che colpiva le famiglie più deboli. I giovani specialmente stentavano a trovare un'occupazione. Ai volontari della guerra d'Etiopia veniva promesso inoltre un impiego sicuro al termine della guerra che si pensava senza alcun dubbio vittoriosa. Sempre che ritornassero. Vero è che due amici, Bino e Franco al loro ritorno si impiegarono alla società Ligure Toscana, l'antenata del servizio elettrico nazionale.

    Al termine della guerra d'Etiopia ci fu una grande adunata, oltre venti milioni di italiani all'ascolto del discorso del Duce.

    Non intendo con questi ricordi fare l'apologia del fascismo, semmai rammentare fatti avvenuti quando ero giovane.

    Le nubi nere paventate da mio padre, che temeva e odiava la guerra soprattutto per averla fatta, divennero più scure. Era il 1936 e l'Italia si stava impegnando a sostenere il franchismo durante la rivoluzione di Spagna, alleata col nuovo dittatore tedesco Adolfo Hitler.

    Anche Giovanni Boschelli, un amico meglio conosciuto come Giovannino perché era così che lo chiamavamo noi tutti in famiglia, non volle perdere l'occasione di volare e andò in Abissinia poi in Spagna seguendo la sua passione per gli aerei. Era più grande di me e io l'ammiravo perché aveva una passione che io ancora non conoscevo. Sua madre, purtroppo, per questa passione, perse suo figlio. Il ministero la informò in un breve comunicato che in un duello aereo sui cieli spagnoli, Giovannino aveva raggiunto il cielo più alto, quello che non conosce ritorni. Questo fatto mi rattristò moltissimo e insinuò molti dubbi sulla giustezza della guerra che pure veniva propagandata con dovizia dal regime.

    Frattanto la società delle Nazioni aveva decretato le sanzioni economiche all'Italia. Alle sanzioni il Governo aveva risposto intensificando la propaganda. Tutti quanti vennero invitati a donare oro, argento e ferro alla Patria per sostenere i suoi sforzi bellici. Le donne depositarono le loro fedi nunziali in oro che per molte famiglie erano la sola risorsa di valore in casa.

    La città di Lucca ne donò oltre diecimila e la Provincia circa sessantamila. Furono raccolti 500 chili d'oro. Anche mia madre donò la sua, per non dover discutere con le vicine, sebbene mio padre fosse fieramente contrario a quella decisione. Mi risuonano nelle orecchie le prime strofe della canzoncina che si sentiva cantare nelle strade della città:

    Sanzionami questo

    amica tenace

    Lo so che ti piace

    ma non te ne do

    Guarda la Regina

    che dona la sua fede

    quella che il Re le diede...

    L'altare della Patria

    coglierà l'offerta

    che ogni sposa porterà

    E dalla reggia al casolar

    un fiume d'oro va all'altar.

    Sanzionami questo

    amica rapace

    lo so che ti piace

    ma non te ne do...

    E poi come va avanti? Non lo so, ma a ripensarci oggi quelle strofe mi paiono meno patriottiche di quanto credevo allora. Come tutti i giovani ero influenzabile e alla fine ingenuo molto più di quanto lo siano i giovani d'oggi.

    Nel periodo 1937/39 ormai tutti quanti eravamo inquadrati: Balilla, avanguardisti, massaie rurali, anziani in orbace, squadristi (i primi, quelli della marcia su Roma) con una striscia rossa sulla manica della giacca.

    I giovani al compimento del diciottesimo anno erano obbligati a frequentare il corso premilitare, al sabato pomeriggio. Veniva inoltre rilasciata, a richiesta la carta d'identità che molti attendevano per poter visitare senza esserne respinti le case di tolleranza. Eravamo inquadrati in compagnie e venivamo addestrati sulle regole comportamentali, poi sarebbe venuto l'uso delle armi. Dopo il primo addestramento chiesi di essere trasferito al centro che preparava gli autisti. I renitenti venivano convinti, anche con maniere forti, a partecipare. Alla fine del 1939 sostenni l'esame di guida. Fui esaminato a bordo di una Fiat 514 e risultai abile; il 10 gennaio del 1940 mi fu consegnata la patente di guida di secondo grado. La portai a casa, mostrandola a mio padre con tutto il giubilo di cui ero capace. E lui ne sorrise, non meno contento di me. Purtroppo in quell'occasione imparai anche a fumare, vizio di cui mi liberai solo nel 1954.

    Il quattro febbraio del 1940 venni convocato dal Distretto Militare e, dopo gli adempimenti di rito, mi accompagnarono alla stazione ferroviaria di Lucca da cui, come molti altri giovani della mia leva, partii per Ferrara. Nella stessa occasione mi diedero anche la prima paga: sessantacinque centesimi. Adesso, anche per questo, ero un soldato a tutti gli effetti.

    2. Ferrara

    Il 4 febbraio del 1940 cominciò tutto. Almeno per me. Ero un proscritto come tanti che partiva per prestare il suo servizio alla patria. Di guerra ancora non si parlava, almeno seriamente voglio dire. Eravamo neutrali. Stavamo alla finestra a guardare il panorama. Dunque, dopo la cartolina di precetto, la visita medica e il conseguente l'arruolamento mi fu comunicato che ero stato assegnato al secondo Articelere, cannoni da 75/27, terzo gruppo motorizzato, quinta batteria. Un artigliere. Sarei stato un artigliere! Benché non comprendessi appieno il significato di quella parola e neppure le incombenze che essa avrebbe comportato, fin dal primo istante che la sentii pronunciare essa mi riempì d'uno strano inconsapevole orgoglio. Orgoglio che tuttora dura, non senza una mia meraviglia. Sarei stato un artigliere e per di più a Ferrara! Per me che venivo dalla Toscana, l'Emilia Romagna era percepita come una regione vicina e amica da cui mi sentivo spontaneamente attratto per questioni del tutto sentimentali oltre che culturali. Ed ero abituato a pensare - forse per l'influenza di mio padre - alla sua gente come molto affine alla nostra. Quindi se l'Artiglieria mi andava bene, posso affermare che Ferrara mi andava benissimo.

    Ferrara fu la prima città che conobbi, dopo Lucca, cui pure somigliava per l'antichità delle sue strade, dei suoi austeri palazzi e per il silenzio. Un'atmosfera pacifica, accattivante. Il clima era però decisamente diverso, con tanta umidità che saliva dal grande fiume. Mi sentivo spaesato e nello stesso tempo invaso da una sorta di insolita eccitazione per il cambiamento. Ero un ragazzo, anzi un ragazzotto qualunque, alle prese con qualcosa di diverso dalla mia solita vita. Battevo i denti, un po' per il freddo pungente, un po' per l'emozione.

    La caserma Gorizia di via Ercole d'Este cui ero destinato, era un edificio tetro e melanconico avvolto dalla nebbia mentre una pioggerella uggiosa non smetteva di infradiciarmi il cappotto buono. L'umidità mi faceva tremare. Nel cortile poco illuminato non si vedevano che cumuli della neve sporca ramazzata ordinatamente agli angoli del grande cortile interno, intanto nelle orecchie mi risuonavano le ultime parole di mio padre che si congedava da me: - Dai una buona impressione di te, presentati educatamente, parla lo stretto necessario, con educazione - e infine: Fai ammodo, bimbo, stai sempre attento. É un mondo brutto.

    In famiglia mi chiamavano bimbo. Anche quando bimbo non lo ero più per davvero. Mia madre lo fece finché visse. I miei genitori avevano paura per me. Temevano per la mia vita. Forse mi vedevano ancora piccino, più di quel che non fossi. Forse sentivano l'odore della guerra, quello che io ancora neppure avvertivo. Infatti, con baldanza giovanile, ridevo delle loro preoccupazioni. Quando però mi ritrovai solo, in un luogo sconosciuto, ripensai con nostalgia alla loro tenerezza. Mi rinfrancai solo nella camerata dove tra le ruvide coperte ritrovai un po' di calore.

    Trascorsero alcuni giorni in caserma prima che potessi uscir fuori in libera uscita, vestito ed educato come

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