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L'ultimo eroe sopravvissuto
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E-book549 pagine7 ore

L'ultimo eroe sopravvissuto

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Info su questo ebook

Numero 1 negli Stati Uniti

La vera storia del ragazzo italiano che si finse nazista e salvò centinaia di ebrei

Pino Lella non vuole avere niente a che fare con la guerra e tantomeno con i nazisti. Cresciuto a Milano, è un adolescente come tanti altri, appassionato di musica, cibo e… ragazze. Ma è il 1943 e il conflitto mondiale pone bruscamente fine ai giorni dell’innocenza. Quando la sua casa viene rasa al suolo dalle bombe alleate, Pino viene mandato in montagna, si unisce a un’organizzazione che aiuta gli ebrei a fuggire attraverso le Alpi e si innamora di una giovane e affascinante vedova, Anna. I genitori di Pino, preoccupati per lui, lo costringono però ad arruolarsi come soldato nelle file tedesche, ma, a causa di un incidente, il ragazzo viene assegnato come autista personale al generale Hans Leyers, uno dei gerarchi più temuti e potenti del Terzo Reich, braccio destro di Adolf Hitler in Italia. Pino, però, non si rassegna all’idea di stare dalla parte sbagliata e, dato che ne ha l’opportunità, inizia a raccogliere e passare agli Alleati informazioni segrete, come una vera e propria spia. A rischio della sua stessa vita, riuscirà a fornire notizie e dettagli strategici che si riveleranno determinanti. 

Questa è la storia vera e mai raccontata di un eroe dimenticato 

Uno strepitoso successo negli Stati Uniti
Per settimane in vetta alle classifiche dei libri più venduti
Già in produzione il film con Tom Holland

«Una storia straordinaria, scritta meravigliosamente. Davvero magnifico.»
James Patterson

«Il ragazzino eroe del tempo di guerra.»
The Times

«Pino, il 91enne reso eroe da un libro che nel ’43 salvava gli ebrei.»
Il Corriere della sera

«Della sua storia faranno un film a Hollywood, dopo che il libro di Mark Sullivan è diventato un bestseller.»
La Stampa

Giuseppe "Pino" Lella
Nasce su una nave che costeggiava la Puglia nel 1926. Cresce a Milano dove frequenta il liceo classico San Celso quando la guerra travolge la sua vita. In seguito agli avvenimenti descritti nel libro e dopo la fine del conflitto, negli anni ’50, diventa allenatore e interprete della nazionale di sci italiana che accompagna ad Aspen, in Colorado, per i mondiali. In seguito rimane negli Stati Uniti, dove mette a punto un innovativo metodo per sciare diventando maestro di sci del jetset e di alcuni famosi attori di Hollywood. Durante i mesi estivi lavora come meccanico e vende macchine di lusso. In seguito diventa giornalista e direttore sportivo. Negli anni ’70 fa ritorno in Italia e si stabilisce a Lesa, sulle rive del Lago Maggiore, dove tutt’oggi abita.
Mark T. Sullivan
Ex giornalista per l’agenzia di stampa Reuters, è autore di molti thriller che sono diventati bestseller internazionali. Ha scritto, insieme a James Patterson, i successi Private Games e Private L.A. La Newton Compton ha pubblicato il suo L’undicesimo comandamento e L'ultimo eroe sopravvissuto.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2017
ISBN9788822715173
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    Anteprima del libro

    L'ultimo eroe sopravvissuto - Mark T. Sullivan

    PREFAZIONE

    Agli inizi di febbraio del 2006, a quarantasette anni, stavo vivendo il periodo più nero della mia vita.

    L’estate prima, mio fratello minore, che era anche il mio migliore amico, era morto alcolizzato. Avevo scritto un romanzo che nessuno apprezzava, mi ritrovavo invischiato in un contenzioso ed ero sull’orlo della bancarotta.

    Mentre guidavo solo in superstrada, al crepuscolo, nel Montana, mi misi a pensare alle mie polizze assicurative e mi resi conto che, per la mia famiglia, valevo molto più da morto che da vivo. Considerai di schiantarmi contro un pilone. Nevicava e c’era poca luce. Nessuno avrebbe sospettato il suicidio.

    Ma immaginai mia moglie e i miei figli sotto la neve e mi ravvidi. Quando lasciai la superstrada tremavo senza controllo. Prossimo a un crollo, chinai la testa e implorai Dio e l’Universo di aiutarmi. Pregai per una storia, un qualcosa al di sopra di me, un progetto in cui perdermi.

    Che ci crediate o no, quella sera stessa, a una cena a Bozeman, nel Montana – tra tutti i posti – udii qualche frammento di un racconto straordinario, mai narrato, sulla seconda guerra mondiale, con protagonista un ragazzo italiano di diciassette anni.

    Lì per lì, mi dissi che quella che mi avevano presentato come la vita di Pino Lella negli ultimi ventitré mesi del conflitto non poteva essere vera. L’avremmo già sentita. Ma poi venni a sapere che, a distanza di circa sessant’anni, era ancora vivo e aveva fatto ritorno in Italia, dopo averne trascorsi quasi trenta a Beverly Hills e a Mammoth Lakes, in California.

    Gli telefonai. Il signor Lella fu molto restio a parlarmi, sulle prime. Sostenne di non essere un eroe, piuttosto un codardo, il che non fece che intrigarmi maggiormente. Infine, dopo svariate altre telefonate, acconsentì a vedermi, se fossi andato in Italia.

    Presi l’aereo e trascorsi con lui tre settimane in un’antica villa a Lesa, sul lago Maggiore. Aveva, all’epoca, settantanove anni, ma era robusto, forte, bello, affascinante, divertente, e spesso evasivo. Lo ascoltai ore e ore rievocare il passato.

    Alcuni ricordi erano talmente nitidi da materializzarsi dinnanzi a me, altri erano più offuscati e servivano ripetute domande per riportarli alla luce. Evitava chiaramente alcuni avvenimenti e personaggi e sembrava addirittura temere di narrare di altri. Incalzato a parlare di quell’epoca dolorosa, riferì tragedie che ridussero entrambi in lacrime.

    Durante quel primo viaggio interpellai anche storici dell’olocausto a Milano, e intervistai preti cattolici e membri della Resistenza partigiana. Visitai insieme a Pino ogni scenario principale. Sciai e mi arrampicai sulle Alpi per avere più chiare le vie di fuga. Sorressi l’anziano quando crollò per il dolore in piazzale Loreto e fui testimone dell’agonia che lo colse vicino al Castello Sforzesco. Mi mostrò il luogo in cui aveva visto l’ultima volta Benito Mussolini. E nel grandioso Duomo, la sua mano tremò quando accese una candela per i martiri e i morti.

    In tutto questo, ascoltai un uomo rivivere due anni della sua vita straordinaria, crescere a diciassette, invecchiare a diciotto; gli alti e i bassi, le traversie e i successi, l’amore e la disperazione. I miei problemi personali, e la mia esistenza in generale, mi parvero piccoli e insignificanti in confronto a ciò che lui aveva affrontato a un’età incredibilmente giovane. E la sua visione delle tragedie della vita mi diede una nuova prospettiva. Cominciai a guarire, e io e Pino diventammo in fretta amici. Quando tornai a casa, stavo meglio di come non mi sentissi da anni.

    Quel viaggio ha portato ad altri quattro nel corso del decennio successivo, consentendomi di condurre ricerche sulla sua storia mentre scrivevo altri libri. Ho consultato il personale dello Yad Vashem, l’ente nazionale di Israele per la memoria della Shoah, e storici in Italia, Germania e Stati Uniti. Ho trascorso settimane negli archivi bellici dei suddetti tre Paesi e del Regno Unito.

    Ho intervistato i testimoni superstiti – o almeno quelli che sono riuscito a rintracciare – per confermare vari elementi del racconto di Pino, nonché i discendenti e gli amici di quelli defunti da tempo, inclusa Ingrid Bruck, la figlia del misterioso generale nazista che complica il cuore della vicenda.

    Quando possibile, mi sono attenuto ai fatti raccolti in quegli archivi e da quelle interviste e testimonianze. Dal momento, però, che, molta documentazione nazista è stata data alle fiamme sul finire del conflitto, mi sono presto trovato di fronte al fatto che le tracce cartacee del passato di Pino erano a dir poco disperse.

    Sono stato inoltre ostacolato da una sorta di amnesia collettiva dopo la guerra riguardo all’Italia e agli italiani. Libri su libri sono stati scritti sullo sbarco in Normandia, sulle campagne alleate nell’Europa occidentale e sugli sforzi di anime coraggiose che hanno rischiato la vita per salvare ebrei in altri Paesi. Ma l’occupazione nazista della penisola e la rete cattolica clandestina costituita per salvare gli ebrei italiani hanno ricevuto scarsa attenzione. Circa sessantamila soldati alleati sono periti per liberare l’Italia. Circa centoquarantamila italiani sono morti durante l’occupazione nazista. Eppure è stato scritto così poco sulla battaglia per l’Italia che gli storici hanno finito per battezzarla il fronte dimenticato.

    L’amnesia è in larga parte imputabile agli italiani sopravvissuti. Come mi disse un vecchio combattente partigiano, «eravamo ancora giovani e volevamo dimenticare, lasciarci alle spalle gli orrori vissuti. In Italia non parla nessuno della seconda guerra mondiale, perciò nessuno ricorda».

    A causa dei documenti distrutti, dell’amnesia collettiva e della morte di così tanti protagonisti all’epoca in cui ho appreso la vicenda, sono stato a tratti costretto a ricostruire scene e dialoghi basandomi unicamente sulla memoria di Pino a distanza di decenni, sulle scarse prove materiali rimaste e sulla mia immaginazione, alimentata dalle ricerche condotte e da congetture fondate. In alcuni casi, ho unito o sintetizzato avvenimenti e personaggi a beneficio della coerenza narrativa, e ho totalmente rielaborato episodi che mi sono stati descritti in forma ben più laconica.

    La storia che state per leggere non è dunque un’opera di saggistica narrativa, bensì un romanzo storico-biografico, conforme a ciò che accadde a Pino Lella tra l’agosto del 1943 e il maggio del 1945.

    PRIMA PARTE

    NESSUN DORMA

    CAPITOLO UNO

    7 agosto 1943

    Come ogni faraone, imperatore e tiranno prima di lui, il Duce aveva visto il suo impero sorgere soltanto per crollare. In quel pomeriggio di tarda estate, il potere stava di fatto scivolando dalla presa di Benito Mussolini come la gioia da un giovane cuore vedovo.

    Le armate malmesse del dittatore fascista si erano ritirate dal Nord Africa e dalla Sicilia. Roma era stata bombardata e a fine giugno il re Vittorio Emanuele

    III

    aveva arrestato e condotto prigioniero Mussolini in un albergo sul Gran Sasso, a nord della città eterna. E ogni giorno Adolf Hitler inviava a sud ulteriori truppe e approvvigionamenti per rinforzare lo stivale italiano.

    Pino Lella aveva appreso tutto questo dai bollettini della

    BBC

    , che ascoltava di notte alla radio a onde corte. Aveva visto aumentare i nazisti con i suoi occhi ovunque andasse. Ma mentre gironzolava per le vie di Milano, ignorava beato l’avanzare del conflitto. La seconda guerra mondiale non era altro che un dispaccio di notizie, colte e subito tralasciate, scalzate da pensieri sui suoi tre argomenti preferiti: femmine, musica e cibo.

    Aveva appena diciassette anni, dopotutto. Alto un metro e ottantacinque, settantacinque chili, lungo e allampanato, con grandi mani e piedi, una zazzera indomabile e abbastanza acne e goffaggine perché nessuna delle ragazze che aveva invitato al cinema avesse accettato di accompagnarlo. E tuttavia non era nella sua indole darsi per vinto.

    Attraversò disinvolto con gli amici la piazza antistante il Duomo, la basilica di Santa Maria Nascente, la grandiosa cattedrale gotica nel cuore della città.

    «Oggi incontrerò una bellissima ragazza», affermò, agitando il dito verso il cielo scarlatto, minaccioso. «E ci innamoreremo follemente, di un amore tragico, e vivremo grandi avventure, con musica, cibo, vino e intrighi ogni giorno, tutto il giorno».

    «Vivi in un mondo di sogni», replicò Carletto Beltramini, suo migliore amico.

    «Non è vero», sbuffò Pino.

    «Sì, invece», rincarò il fratello Mimmo, due anni più piccolo. «Tu ti innamori di ogni ragazza carina che vedi».

    «Ma nessuna lo ricambia», sottolineò Carletto, smilzo, dal viso tondo, molto più basso di Pino.

    «Proprio così», confermò Mimmo, che era ancora più basso.

    «Non siete affatto romantici», li liquidò lui.

    «Cosa fanno laggiù?», si domandò Carletto, indicando delle squadre di operai al lavoro, all’esterno del Duomo.

    Alcuni stavano collocando delle sagome di legno nelle nicchie delle vetrate, altri scaricavano sacchi di sabbia da camion, ammucchiandoli in un muro crescente intorno alla chiesa. Altri ancora stavano montando dei fari sotto lo sguardo vigile di un capannello di preti, in piedi accanto al portale centrale.

    «Vado a vedere», decise Pino.

    «Prima io», dichiarò il fratello minore, partendo alla volta degli operai.

    «Per Mimmo è tutta una gara», commentò Carletto. «Deve imparare a darsi una calmata».

    Pino rise. «Se conosci un modo, dillo a mia madre», gli rispose da sopra la spalla.

    Aggirò gli operai, andando dritto dai preti. Batté sulla spalla di uno di loro. «Scusate, padre».

    L’ecclesiastico, sulla ventina, era alto quanto lui, ma più robusto. Si voltò, squadrò Pino dalla testa ai piedi – le scarpe nuove, i calzoni di lino grigio, la camicia bianca inamidata, la cravatta verde che la madre gli aveva regalato per il compleanno – per poi fissarlo negli occhi, come fosse in grado di leggergli nella mente e conoscesse i suoi pensieri peccaminosi da adolescente.

    «Sono in seminario. Non mi hanno ancora ordinato. Non ho il collarino».

    «Oh, perdonatemi», si scusò Pino, intimidito. «Volevamo solo sapere a cosa servono le luci».

    Prima che il seminarista potesse rispondergli, una mano nodosa gli si posò sulla spalla. Il giovane si scostò e gli apparve un ecclesiastico basso e magro, sulla cinquantina, con una tonaca bianca e una papalina rossa. Pino lo riconobbe all’istante. Sentì una stretta allo stomaco nell’inginocchiarsi al cospetto del cardinale di Milano.

    «Monsignore», pronunciò a capo chino.

    «Rivolgiti a lui come Vostra Eminenza», lo riprese il seminarista con severità.

    Pino alzò confuso lo sguardo. «La mia tata inglese mi ha insegnato a dire monsignore, se mai ne avessi incontrato uno».

    Il volto già duro del religioso più giovane si fece di pietra, ma il cardinale Ildefonso Schuster rise sommessamente. «Credo abbia ragione, Barbareschi. In Inghilterra mi chiamerebbero così».

    Il cardinale Schuster era famoso quanto potente a Milano. Capo cattolico del Nord Italia, uomo cui il pontefice prestava orecchio, compariva spesso sui giornali. Ciò che più rimaneva impresso di lui era l’espressione, pensò Pino: il viso sorridente esprimeva bontà, ma gli occhi albergavano il monito della dannazione.

    «Siamo a Milano, Vostra Eminenza, non a Londra», obiettò il seminarista, chiaramente irritato.

    «Non ha importanza», rispose Schuster. Posò la mano sulla spalla di Pino, invitandolo ad alzarsi. «Come ti chiami, giovanotto?»

    «Pino Lella».

    «Pino?»

    «Mia madre mi chiamava Giuseppino», spiegò il ragazzo, tirandosi su. «La parte Pino è rimasta».

    Il cardinale Schuster squadrò il piccolo Giuseppe e si mise a ridere. «Pino Lella. Un nome da ricordare».

    Il perché qualcuno come il cardinale dovesse dire una cosa simile confuse Pino. «Ci siamo già incontrati, monsignore», se ne uscì nel silenzio che seguì.

    «Dove?», si stupì Schuster.

    «Alla Casa Alpina, la colonia di don Re, sopra Madesimo. Anni fa».

    Il cardinale sorrise. «Ricordo quella visita. Dissi a don Re che era l’unico sacerdote in Italia con una cattedrale più maestosa del Duomo e di San Pietro. Il giovane Barbareschi qui presente andrà a lavorare con lui la prossima settimana».

    «Don Re vi piacerà, e anche la Casa Alpina», assicurò Pino. «Vi si fanno ottime escursioni».

    Il seminarista incredibilmente sorrise.

    Pino si inchinò esitante e fece per allontanarsi, il che sembrò divertire Schuster ancora di più. «Credevo ti interessassero le luci».

    Pino si fermò. «Sì…».

    «Sono una mia idea», spiegò il cardinale. «Prego che i bombardieri vedano il Duomo e rimangano talmente impressionati dalla sua bellezza da risparmiarlo. Ci sono voluti quasi cinque secoli per costruire questa magnifica chiesa. Sarebbe una tragedia vederla scomparire in una notte».

    Pino osservò l’elaborata facciata dell’imponente cattedrale. Costruita in marmo rosa di Candoglia, ricca di pinnacoli, guglie e balaustre, sembrava ghiacciata, maestosa e illusoria quanto le Alpi in inverno. Adorava sciare e scalare i monti quasi quanto la musica e le ragazze, e la vista del Duomo gli evocava sempre quella immagine.

    Sapeva che in febbraio i bombardamenti degli Alleati avevano danneggiato fabbriche, chiese e anche la Stazione Centrale di Milano. Ma adesso il cardinale riteneva che la cattedrale e le antiche parti della città fossero in pericolo.

    «Quindi verremo bombardati?», domandò.

    «Prego che non succeda», rispose Schuster, «ma il prudente si prepara sempre al peggio. Arrivederci, Pino. Possa la fede in Dio proteggerti nei giorni a venire».

    Il cardinale di Milano si allontanò. Pino tornò colpito da Mimmo e Carletto, entrambi esterrefatti.

    «Quello era il cardinale Schuster», gli fece notare Carletto.

    «Lo so», replicò lui.

    «Gli hai parlato a lungo».

    «Davvero?»

    «Sì», confermò il fratello minore. «Cosa ti ha detto?»

    «Che avrebbe ricordato il mio nome, e che le luci servono a impedire ai bombardieri di distruggere il Duomo».

    «Visto? Te lo avevo detto», si vantò Mimmo con Carletto.

    Quest’ultimo guardò Pino diffidente. «Per quale motivo il cardinale dovrebbe ricordarsi il tuo nome?».

    Lui si strinse nelle spalle. «Forse gli è piaciuto come suona. Pino Lella».

    «Vivi davvero in un mondo di sogni», sbuffò Mimmo.

    Udirono tuonare, mentre lasciavano Piazza Duomo e, attraversata la strada, imboccavano il monumentale arco della Galleria, il primo centro commerciale coperto al mondo: due ampie vie pedonali che si intersecavano, fiancheggiate da negozi, solitamente chiuse da una cupola di vetro. Ma all’epoca le lastre erano state rimosse e rimaneva soltanto la struttura di ferro, che proiettava un reticolo di ombre rettangolari.

    Quando il tuono rimbombò più vicino, Pino scorse l’angoscia su molti volti, ma non ne condivise la preoccupazione. Un tuono era un tuono, non una bomba.

    «Fiori?», gli chiese una venditrice ambulante di rose fresche. «Per la vostra fidanzata?»

    «Tornerò quando la trovo», le rispose.

    «Potrebbero volerci anni, signora», commentò Mimmo.

    Pino diede una sberla al fratello minore, che la schivò. Lasciò la Galleria, sboccando su una piazza con un monumento a Leonardo da Vinci. Oltre la statua, dall’altro lato della strada e della tramvia, le porte del Teatro alla Scala erano aperte, per arieggiare la celebre sala dell’opera. Si udivano le note di violini e violoncelli che venivano accordati e le scale di un tenore che si esercitava.

    Pino inseguì il fratello, finché notò una graziosa mora dall’incarnato vellutato e gli occhi scuri e scintillanti. Stava attraversando la piazza, diretta alla Galleria. Si fermò a guardarla. Colmo di desiderio, era incapace di parlare.

    «Credo di essermi innamorato», dichiarò, quando si fu allontanata.

    «Di aver toppato, vorrai dire», lo derise Carletto, che lo aveva raggiunto.

    Mimmo tornò indietro. «Qualcuno ha appena detto che gli Alleati saranno qui entro Natale».

    «Io voglio che gli americani arrivino prima», replicò Carletto.

    «Anch’io», concordò Pino. «Più jazz! Meno opera!».

    Scavalcò con un balzo una panchina vuota e saltò sulla ringhiera ricurva che proteggeva la statua di Leonardo. Scivolò abilmente sul metallo per un breve tratto, per poi atterrare dall’altro lato come un gatto.

    Non volendo essere da meno, Mimmo provò a imitarlo, ma finì per terra davanti a una robusta signora mora con un vestito a fiori, sulla quarantina. Trasportava un violino dentro una custodia e indossava un ampio cappello di paglia blu contro il sole.

    La donna si spaventò a tal punto che per poco il violino non le cadde. Strinse irata la custodia al petto, mentre Mimmo si teneva le costole, gemendo.

    «Siamo in piazza della Scala», lo rimbrottò. «Dove si onora il grande Leonardo! Non hai un briciolo di rispetto? Va’ a giocare da qualche altra parte».

    «Credete che siamo bambini?», ribatté lui, gonfiando il petto. «Bambini piccoli?»

    «Bambini che non si accorgono dei veri giochi che si svolgono intorno a loro», rispose la donna, guardando in lontananza.

    Nubi scure avevano cominciato ad avanzare, adombrando la scena. Pino si voltò e, sulla strada che separava la piazza dal teatro, vide passare una grossa Daimler-Benz militare nera. Sui parafanghi sventolavano bandierine naziste, mentre l’antenna radio ostentava quella di un generale. Il ragazzo scorse la sagoma del gerarca seduto dritto come un fucile sul sedile posteriore. Per qualche ragione, quell’immagine gli diede i brividi.

    Quando distolse lo sguardo, la violinista si stava già allontanando, a testa alta. Attraversò spavalda la strada dietro l’automobile nazista ed entrò con passo deciso nel teatro dell’opera.

    I ragazzi proseguirono. Mimmo zoppicava, massaggiandosi il fianco destro e lamentandosi. Ma Pino lo ascoltava a malapena: una giovane dai capelli biondo rame e gli occhi azzurro ardesia stava camminando verso di loro, sul marciapiede. Immaginò avesse poco più di vent’anni. Era bellissima, con il naso delicato, gli zigomi alti e le labbra arricciate in un sorriso naturale. Snella, di altezza media, indossava un estivo abito giallo con una sporta di tela. Deviò dal marciapiede per entrare in un forno poco più avanti.

    «Mi sono di nuovo innamorato», annunciò Pino, con entrambi i palmi sul cuore. «L’avete vista?»

    «Ma non la smetti mai?», sbuffò Carletto.

    «Mai», confermò l’amico, correndo alla vetrina e sbirciando dentro.

    La giovane stava infilando delle pagnotte nella borsa. Notò che non aveva anelli alla mano sinistra, perciò attese che pagasse e uscisse.

    Le si parò davanti, con una mano sul cuore. «Perdonatemi, signorina. Sono stato sopraffatto dalla vostra bellezza e dovevo conoscervi».

    «Ma sentitevi», lo derise lei, aggirandolo e andandosene per la sua strada.

    Mentre passava, Pino inalò il suo profumo di femmina e gelsomino. Era inebriante, non aveva mai sentito nulla di simile.

    Le corse dietro. «Ma è vero. A San Babila, dove abito, vedo tante belle donne, signorina».

    Lei lo guardò di sottecchi. «San Babila è uno splendido posto dove vivere».

    «I miei genitori possiedono la pelletteria Lella, il negozio di borse in via Durini. Lo conoscete?»

    «La mia… datrice di lavoro ve ne ha comprata una proprio la scorsa settimana».

    «Davvero?», domandò Pino deliziato. «Perciò, vedete, vengo da una famiglia rispettabile. Vi andrebbe di venire al cinema con me, questa sera? Danno Non sei mai stata così bella. Fred Astaire, Rita Hayworth. Che ballano e cantano. Così eleganti. Come voi, signorina».

    Si voltò finalmente a guardarlo con quegli occhi penetranti. «Quanti anni avete?»

    «Quasi diciotto».

    «Siete troppo giovane per me», affermò ridendo.

    «È solo un film. Ci andiamo come amici. Per quello non sono troppo giovane, no?».

    Lei continuò a camminare senza rispondergli nulla.

    «Sì? No?», la incalzò Pino.

    «Stasera è previsto un oscuramento».

    «Ma ci sarà ancora luce quando lo spettacolo comincia, e dopo vi riaccompagnerò a casa sana e salva», le assicurò. «Riesco a vedere nel buio come un gatto».

    Per qualche passo non ricevette risposta e il suo cuore sprofondò.

    «Dove lo danno, questo film?», si sentì chiedere infine.

    Le indicò l’indirizzo. «Ci vediamo lì, allora? Alle sette davanti al botteghino?»

    «In fondo siete buffo, e la vita è breve. Perché no?».

    Pino sfoggiò un gran sorriso. «A più tardi», disse, portandosi la mano sul cuore.

    «A più tardi», gli fece eco lei, sorridendo a sua volta.

    Pino la osservò attraversare la strada, trionfante e senza fiato. Poi lei si girò ad aspettare il tram che si avvicinava, guardandolo divertita, e lui si rese conto di una cosa.

    «Signorina, scusatemi», le gridò, «ma come vi chiamate?»

    «Anna», gli rispose.

    «Io sono Pino! Pino Lella!».

    Il tram si fermò stridendo, sovrastando il suo cognome e nascondendo Anna alla sua vista. Quando ripartì, era sparita.

    «Non verrà mai», affermò Mimmo, che si era affannato tutto il tempo dietro di loro. «Ha accettato soltanto perché smettessi di importunarla».

    «Sì che verrà», ribatté Pino, guardando poi Carletto, che li aveva a sua volta seguiti. «Lo hai letto anche tu nei suoi occhi, no? Gli occhi di Anna».

    Prima che il fratello e l’amico potessero replicare, balenò un lampo e caddero le prime gocce di pioggia, sempre più grosse. I tre ragazzi si misero a correre.

    «Vado a casa!», esclamò Carletto, prendendo un’altra direzione.

    CAPITOLO DUE

    I cieli si spalancarono, il diluvio ebbe inizio. Pino corse dietro a Mimmo verso San Babila, inzuppandosi senza curarsene. Anna sarebbe andata al cinema con lui. Aveva detto di sì e lui era euforico.

    I due fratelli erano fradici e lampeggiava, quando entrarono nella Valigeria Albanese, esercizio dello zio, in un edificio color ruggine al numero 7 di via Pietro Verri. Si infilarono gocciolanti nel lungo e stretto negozio, dove li avvolse l’intenso odore di cuoio nuovo. Sugli scaffali erano impilate raffinate borse, cartelle, ventiquattrore, valigie e bauli, mentre le vetrine mostravano portafogli in pelle intrecciata e portasigarette e portacarte dagli splendidi decori.

    C’erano due clienti nel negozio, una signora più anziana, vicino alla porta, e un ufficiale nazista, in fondo, in uniforme grigia e nera.

    Pino lo osservò, poi udì la donna domandare: «Quale, Alberto?»

    «Scegliete con il cuore», rispose l’uomo dietro il bancone, che la stava servendo. Grosso, baffuto, dal torace pronunciato, indossava un elegante completo grigio topo, una camicia bianca inamidata e un farfallino a pois blu.

    «Ma mi piacciono ambedue», si lamentò la cliente.

    «Allora prendetele entrambe!», la invogliò il commerciante, ridendo sotto i baffi e lisciandoseli.

    La donna titubò, con un risolino. «Ma sì!».

    «Ottimo! Ottimo!». Il negoziante si fregò le mani. «Greta, puoi portarmi delle scatole per questa incantevole signora con un gusto così impeccabile?»

    «Sono occupata adesso, Alberto», rispose la zia austriaca di Pino, che stava servendo il nazista. Era una donna alta ed esile, sorridente, dai capelli castani e corti. Il tedesco stava esaminando un portasigarette, fumando.

    «Vado a prenderti io le scatole, zio Alberto», si offrì Pino.

    Lo zio lo squadrò con un’occhiata. «Asciugati, prima di toccarle».

    Il nipote si diresse verso la porta del laboratorio, oltre la zia e il tedesco, pensando ad Anna. L’ufficiale si voltò a guardarlo mentre passava, rivelando sui risvolti della giacca delle foglie di quercia che lo identificavano come un colonnello. Il davanti del berretto recava un totenkopf, un piccolo stemma con un teschio, sormontato da un’aquila che ghermiva una svastica. Pino dedusse che apparteneva alla Geheime Staatspolizei, la Gestapo, e che era un ufficiale di alto rango della polizia segreta di Hitler. Di corporatura e altezza media, con un naso sottile e labbra prive di gioia, aveva occhi scuri e piatti, che non esprimevano nulla.

    Pino oltrepassò turbato la porta ed entrò nel laboratorio, spazio più ampio e dal soffitto più alto. Cucitrici e tagliatrici stavano riponendo il materiale, per quel giorno. Trovò alcuni stracci e si asciugò le mani. Prese quindi due scatole di cartone goffrate con il logo degli Albanese e tornò verso il negozio, rimettendosi a pensare felicemente ad Anna.

    Era bellissima, e più grande, e…

    Esitò nel varcare la porta. Il colonnello della Gestapo stava uscendo sotto la pioggia. La zia lo guardò allontanarsi dalla soglia, annuendo. Pino si sentì meglio nel vederla chiudere la porta.

    Aiutò lo zio a impacchettare le borse. Quando l’ultima cliente fu andata via, Alberto disse a Mimmo di chiudere a chiave e apporre il cartello

    CHIUSO

    sul vetro.

    «Ti sei fatta dire il nome?», domandò quindi a Greta.

    «Standartenführer Walter Rauff», rispose lei. «Il nuovo capo della Gestapo del Nord Italia. Viene dalla Tunisia. Tullio lo tiene d’occhio».

    «Tullio è tornato?», esclamò Pino, sorpreso e felice. Tullio Galimberti, amico intimo di famiglia, era qualche anno più grande ed era il suo idolo.

    «Ieri», lo informò lo zio.

    «Rauff ha detto che la Gestapo prenderà presto possesso dell’Albergo Regina», riferì Greta.

    «A chi appartiene l’Italia… a Mussolini o a Hitler?», borbottò il marito.

    «Non ha importanza», affermò Pino, cercando di convincersene. «La guerra sarà presto finita. Arriveranno gli americani e sarà tutto un jazz!».

    Lo zio Alberto scosse la testa. «Questo dipende dai tedeschi e dal Duce».

    «Hai visto che ore sono, Pino?», lo ammonì Greta. «Vostra madre vi aspettava a casa un’ora fa, per aiutarla a preparare il ricevimento».

    Al ragazzo si annodò lo stomaco. La madre non era una donna da scontentare.

    «Ci vediamo dopo?», chiese agli zii, dirigendosi verso la porta, con Mimmo al seguito.

    «Non mancheremo», rispose Alberto.

    I fratelli raggiunsero il numero 3 di via Monte Napoleone e, pensando alla madre, il timore di Pino aumentò. Sperò che il padre fosse presente per domare l’uragano umano.

    Salirono in casa. Dalle scale provenivano gustosi aromi: agnello e aglio che stufavano, basilico tritato, pane caldo di forno.

    Aprirono la porta ed entrarono nel lussuoso appartamento di famiglia, fervente di attività. La cameriera fissa e un’altra assunta per l’occasione si affaccendavano in sala da pranzo, disponendo argenterie, cristallerie e porcellane per il buffet. In salotto, un uomo alto e magro volgeva curvo le spalle all’ingresso, intento a suonare al violino un brano che Pino non riconobbe. Sbagliò e si interruppe, scuotendo la testa.

    «Papà?», chiamò Pino sottovoce. «Siamo nei guai?».

    Michele Lella abbassò lo strumento e si voltò, mordendosi la guancia. Prima che avesse il tempo di rispondere, dalla cucina accorse come un tornado una bimba di sei anni. «Dove sei stato, Pino?», domandò Cicci, la sorellina, piantandosi di fronte a lui. «La mamma è arrabbiata con te. E pure con te, Mimmo».

    Pino la ignorò, concentrandosi piuttosto sulla locomotiva in grembiule che apparve sbuffando dalla cucina. Avrebbe giurato che alla madre uscisse il fumo dalle orecchie. Gemma era almeno trenta centimetri più bassa del primogenito e venti chili più magra, ma marciò in sua direzione, togliendosi gli occhiali e sbandierandoglieli in faccia.

    «Vi avevo chiesto di essere a casa per le quattro e sono le cinque e un quarto», lo strigliò. «Vi comportate come bambini. Posso contare di più su vostra sorella».

    Cicci alzò il mento, annuendo.

    Sulle prime, Pino non seppe cosa rispondere. Ma poi ebbe un’illuminazione. Adottò un’espressione derelitta e si piegò in due, tenendosi la pancia.

    «Mi dispiace, mamma. Ho mangiato del cibo di strada e mi ha fatto male. E poi ci ha colti il temporale e ci siamo dovuti fermare dallo zio Alberto».

    Gemma incrociò le braccia, osservandolo. Cicci adottò la stessa posa scettica.

    La donna spostò lo sguardo su Mimmo. «È vero, Domenico?».

    Pino lanciò un’occhiata guardinga al fratello.

    Mimmo annuì. «Gliel’ho detto che la salsiccia non aveva un bell’aspetto, ma non mi ha dato retta. Si è dovuto fermare in tre bar per usare il gabinetto. E c’era un colonnello della Gestapo al negozio dello zio Alberto. Ha detto che i nazisti prenderanno possesso dell’Albergo Regina».

    La madre impallidì. «Che cosa?».

    Pino si piegò ancora di più, con una smorfia. «Devo andare, ora».

    Cicci aveva ancora l’aria sospettosa, ma la rabbia della madre si era mutata in preoccupazione. «Vai, vai! E lavati le mani, dopo».

    Pino attraversò in fretta l’ingresso.

    «Dove stai andando, Mimmo? Tu non stai male», sentì esclamare Gemma alle sue spalle.

    «Ma mamma», si lamentò il fratello. «Pino la fa sempre franca».

    Quest’ultimo non aspettò di udire la risposta della madre. Superò di corsa la cucina e i fantastici aromi, e salì le scale che portavano al piano superiore, e al bagno. Vi rimase per dieci dignitosi minuti, durante i quali ripensò a ogni istante vissuto con Anna, specialmente il modo in cui lo aveva guardato divertita di là dalla tramvia. Tirò la catenella, accese un fiammifero per mascherare l’assenza di cattivo odore e andò a stendersi sul letto, sintonizzando la radio sulla

    BBC

    , su una trasmissione di jazz che non perdeva quasi mai.

    La band di Duke Ellington stava suonando Cotton Tail, uno degli ultimi pezzi preferiti di Pino. Chiuse gli occhi, estasiato dall’assolo di sassofono tenore di Ben Webster. Aveva amato il jazz sin dal primo istante in cui aveva sentito una registrazione di Billie Holiday e Lester Young in I Can’t Get Started. Per quanto fosse un’eresia in casa Lella, dove l’opera e la musica classica regnavano sovrane, da quel momento si era convinto che il jazz fosse la più grande forma artistica musicale. Era per questo che desiderava andare negli Stati Uniti, dove il jazz era nato. Era il suo più grande sogno.

    Si domandava come potesse essere la vita in America. La lingua non era un problema: era cresciuto con due tate, una di Londra, l’altra di Parigi, e aveva parlato tre idiomi fin quasi dalla nascita. Il jazz era ovunque in America? Come un fantastico sottofondo a ogni cosa? E le americane? Erano belle quanto Anna?

    Cotton Tail terminò. Attaccò Roll ’Em di Benny Goodman, con un ritmo boogie-woogie che si trasformava in un assolo di clarinetto. Saltò giù dal letto, calciò via le scarpe e si mise a ballare, immaginandosi con l’incantevole Anna in uno scatenato Lindy Hop. Niente guerra, niente nazisti, solo musica, cibo, vino e amore.

    D’un tratto si accorse di quanto il volume fosse alto e lo abbassò, fermandosi. Non voleva che il padre salisse e gli facesse un’altra ramanzina sulla musica. Michele disprezzava il jazz. La settimana prima aveva sorpreso Pino a provare Low Down Dog, il pezzo boogie di Meade Lux Lewis, allo Steinway di casa. Era stato come se avesse dissacrato un santo.

    Pino fece una doccia e si cambiò. Diversi minuti dopo che le campane del Duomo avevano rintoccato le sei, si stese di nuovo sul letto e guardò fuori dalla finestra aperta. L’acquazzone era ormai un ricordo e dalle vie di San Babila giungevano suoni familiari. Gli ultimi negozi stavano chiudendo. I facoltosi e modaioli di Milano si affrettavano verso casa. Le loro voci animate parevano una sola, come un coro di strada: donne che ridevano per qualche piccola gioia, bambini che piangevano per qualche minima tragedia, uomini che discutevano per il puro amore italiano del finto sdegno e del battibecco.

    Il campanello, al piano di sotto, lo fece trasalire. Udì saluti ed espressioni di benvenuto. Guardò l’orologio, le 18:15. Il film cominciava alle sette e mezzo e il tragitto per raggiungere il cinema, e Anna, era lungo.

    Aveva una gamba fuori dalla finestra e stava cercando con il piede il cornicione che portava a un’uscita antincendio, quando udì uno sghignazzo alle sue spalle.

    «Non verrà», sentenziò Mimmo.

    «Certo che sì», controbatté, uscendo dalla finestra.

    Erano almeno nove metri dal suolo e il cornicione non era molto largo. Doveva stare con la schiena rasente al muro e strisciare di lato fino a un’altra finestra, che dava accesso a una scala sul retro. Un minuto dopo era in strada.

    L’insegna del cinema non era illuminata a causa delle regole di oscuramento entrate in vigore nel 1940 dopo i primi attacchi aerei degli Alleati sulla città. Ma a Pino si gonfiò il cuore nel vedere i nomi di Fred Astaire e Rita Hayworth sulla locandina. Adorava i musical hollywoodiani, specialmente quelli con musica swing. E quanto alla Hayworth, aveva fantasticato… Be’…

    Comprò due biglietti. Mentre altri spettatori facevano la fila per entrare, rimase a fissare la strada e i marciapiedi in cerca di Anna. Aspettò, finché non lo colse la devastante e vuota consapevolezza che non sarebbe venuta.

    «Te lo avevo detto», commentò Mimmo, sbucandogli accanto.

    Pino avrebbe voluto arrabbiarsi, ma non ci riuscì. Nel profondo, amava il fegato e la cocciutaggine del fratello minore, il suo essere sveglio e intelligente. Gli porse un biglietto.

    Entrarono e presero posto.

    «Pino?», bisbigliò Mimmo. «Quand’è che hai cominciato a crescere? A quindici anni?».

    Pino trattenne un sorriso. Il fratello non faceva che preoccuparsi di essere basso.

    «Non prima dei sedici, a dire il vero».

    «Ma potrebbe succedere prima?»

    «Potrebbe».

    Le luci si spensero e cominciò un cinegiornale di propaganda fascista. Pino era ancora abbattuto per il bidone ricevuto quando il Duce apparve sullo schermo. Vestendo i panni del generale al comando, con una giubba impunturata di medaglie e una cintura in vita, calzoni alla zuava e lucidi stivali alti fino al ginocchio, Benito Mussolini camminava insieme a uno dei suoi comandanti in campo su una scogliera del mar Ligure. La voce fuori campo spiegò che il dittatore italiano stava ispezionando le fortificazioni.

    Nell’incedere, l’imperatore teneva le mani incrociate dietro la schiena, il mento rivolto all’orizzonte, la schiena arcuata, il petto bombato verso il cielo.

    «Sembra un galletto», affermò Pino.

    «Shh!», sussurrò Mimmo. «Non così forte».

    «Perché? Ogni volta che lo vedi sembra stia per fare chicchirichì».

    Il fratello ridacchiò, mentre il cinegiornale continuava a magnificare le strutture difensive italiane e lo status crescente di Mussolini nella scena mondiale. Era pura propaganda. Pino ascoltava la

    BBC

    ogni notte, perciò sapeva che ciò che stava guardando non era vero, e fu contento quando il cinegiornale terminò e cominciò il film.

    Fu ben presto assorbito dalla comica trama e adorò ogni scena in cui la Hayworth ballava con Astaire.

    «Rita», sospirò, dopo che una serie di giravolte le avevano sollevato il vestito sulle gambe come il mantello di un torero. «È così elegante, proprio come Anna».

    Mimmo si accigliò. «Ti ha dato buca».

    «Ma era così bella», sussurrò il fratello.

    Partì una sirena di allarme aereo. La gente prese a gridare e a saltare in piedi.

    La proiezione si congelò sul primo piano di Astaire e la Hayworth che ballavano guancia a guancia, le labbra e i sorrisi rivolti verso il pubblico colto dal panico.

    Mentre il film si dissolveva sullo schermo, cannoni antiaerei cominciarono a sparare fuori dal cinema, e i primi, invisibili, bombardieri alleati vuotarono le loro stive, mandando in scena su Milano un’ouverture di fuoco e distruzione.

    CAPITOLO TRE

    Il pubblico urlante si riversò verso le porte del cinematografo. Pino e Mimmo erano bloccati nella calca, terrorizzati, quando una bomba esplose con un boato assordante, distruggendo il retro della sala e scagliando in aria detriti che ridussero in pezzi lo schermo. Saltò la luce.

    Qualcosa sferzò Pino sulla guancia, ferendolo. Sentì il taglio pulsare e il sangue colargli sul mento. Più sconvolto che in preda al panico, cercò di farsi largo, soffocato dal fumo e dalla polvere. I granelli gli bruciavano gli occhi e le narici. Lui e Mimmo uscirono dall’edificio, piegati in due dalla tosse.

    Fuori le sirene continuavano a suonare e le bombe a cadere, neanche lontanamente al loro culmine. Le fiamme divoravano alcuni edifici lungo la strada. I cannoni antiaerei sparavano a raffica, mentre i proiettili traccianti disegnavano archi rossi nel cielo. Il loro carico esplodeva con così tanta luce che Pino riuscì a scorgere le sagome dei bombardieri Lancaster sopra di lui, ala contro ala, in una formazione a

    V

    , simili a tante oche scure che migravano nel buio.

    Piovvero altre bombe, producendo un rumore collettivo, come calabroni ronzanti che esplodevano uno dopo l’altro, scagliando nel cielo pennacchi di fuoco e fumo oleoso. Alcune scoppiarono così vicino ai fratelli in fuga che le detonazioni si riverberarono dentro di loro e quasi persero l’equilibrio.

    «Pino, dove andiamo?», urlò Mimmo.

    Per un istante lui fu troppo spaventato per pensare. «Il Duomo!», rispose poi.

    Condusse il fratello verso l’unica cosa in tutta Milano che non fosse illuminata dalle fiamme. Da lontano i fari facevano sembrare la cattedrale ultraterrena, quasi provvidenziale. Mentre i Lella correvano, i ronzii e le esplosioni scemarono, fino a cessare. Niente più bombardieri, niente più cannoni antiaerei.

    Soltanto sirene, e gente che piangeva e urlava. Un padre disperato stava scavando tra le macerie con una lampada in mano. La moglie accanto singhiozzava, aggrappandosi al figlio esanime. Altre persone in lacrime, munite di lanterne, erano raccolte intorno a una ragazza che aveva perso un braccio ed era morta lì per strada, con gli occhi vitrei, spalancati.

    Pino non aveva mai visto dei cadaveri e scoppiò a piangere anche lui. Nulla sarà più lo stesso. Lo percepì tanto chiaramente quanto i ronzii e le esplosioni che ancora gli rimbombavano nelle orecchie. Nulla sarà più lo stesso.

    Raggiunsero infine il fianco del Duomo. Lì non c’erano voragini scavate dalle bombe. Né macerie. Né fiamme. Non fosse stato per i gemiti in lontananza, si sarebbe detto che l’attacco non ci fosse mai stato.

    Pino sorrise debolmente. «Il piano del cardinale Schuster ha funzionato».

    Mimmo si adombrò. «Casa nostra è vicina alla cattedrale, ma non così tanto».

    I due ragazzi corsero lungo un dedalo di strade buie, fino al numero 3 di via Monte Napoleone. Il palazzo pareva indenne. Sembrava un miracolo, dopo ciò a cui avevano assistito.

    Mimmo aprì il portone e si avviò su per le scale. Pino lo seguì. Si udivano violini e un pianoforte, e un tenore cantare. Per qualche motivo la musica lo fece infuriare. Superò il fratello e picchiò alla porta dell’appartamento.

    La sinfonia si interruppe. La madre andò ad aprire.

    «La città è in fiamme e voi suonate?», gridò a Gemma, che indietreggiò allarmata di un passo. «La gente muore e voi suonate?».

    Alle spalle della donna, nell’ingresso, comparvero varie persone, inclusi il padre e gli zii.

    «È attraverso la musica che superiamo simili momenti, Pino», spiegò Michele.

    L’adolescente vide altri visi annuire nell’appartamento affollato. Tra loro c’era la violinista cui Mimmo per poco non era piombato addosso, quel pomeriggio.

    «Sei ferito, Pino», notò Gemma. «Stai sanguinando».

    «Altri stanno molto peggio», le rispose, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Mi dispiace, mamma. È stato… terribile».

    Gemma si sciolse. Tese le braccia e strinse i suoi ragazzi sporchi e sanguinanti.

    «Va tutto bene, adesso», li rassicurò, baciandoli a turno. «Non voglio sapere dove eravate, né come ci siete arrivati. Sono soltanto felice che siate a casa».

    Li esortò ad andare di sopra a lavarsi, prima che un medico, un invitato, controllasse la ferita di Pino. Quest’ultimo ravvisò nella madre un qualcosa che in lei non aveva mai visto: paura. Paura

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