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Ritorno a Pavia: Un altro Natale per Sambuco e Dell'Oro
Ritorno a Pavia: Un altro Natale per Sambuco e Dell'Oro
Ritorno a Pavia: Un altro Natale per Sambuco e Dell'Oro
E-book312 pagine4 ore

Ritorno a Pavia: Un altro Natale per Sambuco e Dell'Oro

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Info su questo ebook

Alfio Saligari, Gianni Rubio Fagioli, Arianna Denti... Cosa è rimasto di tutti loro dopo quel maledetto aprile 1981? E Lorenzo Colli?
Dalla baita in Val d’Ayas, dove ora vive in solitudine, ha intrapreso un nuovo percorso di vita nella luce di una rinascita interiore, di una riscoperta spiritualità. Da quel terribile giorno, che ha cambiato le vite di ragazzi che credevano nella lotta armata come unico modo drastico per ripulire la società sporca dal fango della corruzione e dell’ingiustizia, sono passati più di trenta lunghi anni che hanno lasciato segni indelebili su tutti coloro che parteciparono in prima linea a quegli eventi. E quegli stessi eventi hanno marcato, più o meno indirettamente, anche la vita di Sandro Bontempi che oggi, dalla finestra del suo appartamento in Borgo Ticino, a Pavia, guarda, osserva, uno scorcio della sua attuale città. Ma i pensieri, si sa, fanno brutti scherzi e lo riportano indietro nel tempo, quando Pavia era un’altra città, percorsa da fremiti, paure, tensioni, lotta politica violenta, come lo era l’Italia degli anni ’70-’80. Finché un giorno la sua routine quotidiana è incrinata...
Un mondo di corrotti e corruttori, di ideali e cieche ideologie si ricompone in un intricato puzzle in cui mancano però alcune tessere.
A ritrovarle saranno, come sempre, Sambuco e Dell’Oro, con il loro fiuto e la loro esperienza, così da ordinare ogni elemento, tra passato e presente, in una Pavia che si sta preparando a un altro Natale.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2015
ISBN9788869430923
Ritorno a Pavia: Un altro Natale per Sambuco e Dell'Oro

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    Anteprima del libro

    Ritorno a Pavia - Alessandro Reali

    Riflessioni di Lorenzo Colli, Brusson, Val d’Ayas

    La solitudine è necessaria. L’odio è necessario. Io, a forza di odiare, ho rinnegato tutti. Anche mio padre, che faceva l’operaio e il sindacalista ma non capiva, non comprendeva quello che stava accadendo. Le bombe, i morti, le omissioni e le porcherie nascoste che, probabilmente, non verranno mai svelate.

    Ero un ragazzo, esaltato, come tanti altri (rossi o neri che fossero), quando gli studenti, il 17 febbraio del ’77, a Roma, si opposero a Luciano Lama, alla CGIL e quindi all’apparato del PC, la chiesa in cui mio padre aveva militato tutta la vita. Restò sconvolto, ammutolito, come se glielo avessero ammazzato, quel figlio (io ero ovviamente dalla parte degli studenti) che sputava in faccia al Sindacato, al Partito, proprio nei giorni in cui sua moglie lo lasciava per mettersi con uno delle case popolari, un siciliano che lavorava alla Galbani.

    Sono alcuni dei motivi per cui mi sono ritirato quassù, in montagna, lontano dal mondo – una certa idea di mondo – e dal me stesso di prima ma, principalmente, l’ho fatto per dare ancora un significato alla mia vita satura di odio senza mediazioni.

    Mi sono allontanato – Dio solo sa con quale fatica, ma la fatica è stata solo un’opportunità – da tutte le persone e i condizionamenti, dalle lotte, dagli influssi e dai riflussi, dalle esaltazioni e dalle delusioni, dalla paura e dalla galera, dalla certezza di stare sempre dalla parte della ragione sapendo che chi ha ragione può odiare chi ha torto e giustificare anche il male che si appresta a fare.

    Mi sono dimenticato di me stesso e, per questo, mi sono ritrovato. Ho cercato Dio, alla fine, e l’ho trovato dentro di me, non fuori. Non nelle parole ma nel silenzio. Non il Dio vendicativo degli eserciti di cui parla la Bibbia. Solo il Dio nascosto in ognuno di noi, quello che, ancora oggi, spio nei testi – misteriosi e rivelatori al tempo stesso – di Meister Eckhart il grande mistico, scoperto grazie a frate Saro, un francescano che ho conosciuto in carcere, a Opera, e con cui, ogni tanto, mi confronto, tramite brevi, intense lettere.

    Vivo in montagna da alcuni anni. Lavoro in questo agriturismo nella Valle d’Ayas, splendido imbuto verde reso ricco dal turismo. Parenti di mia madre, che faceva l’infermiera al policlinico San Matteo di Pavia ma era originaria di qui (la gente di queste parti fa poche domande), mi hanno concesso uno chalet dove vivere e studiare. Inoltre, faccio il formaggio, la fontina e la toma d’alpeggio, e i salami, mescolando carne di maiale e patate, e porto le vacche al pascolo. Guardo il massiccio del Rosa dove ho imparato a camminare fin sulle vette, il Testa Grigia, il Castore e il Polluce, il Mezzalama. Tanti boschi e prati innevati o profumati intorno al torrente Evançon che – collerico o divertito a seconda delle stagioni – precipita a valle.

    Del mio passato a Pavia non racconto mai niente a nessuno e, credo, a nessuno interessi conoscerlo. Forse i valligiani – e anche i turisti, per lo più indifferenti – mi vedono come una specie di mistico, un po’ tocco di cervello.

    Dei vecchi compagni non sento più quasi nessuno, anche se spesso mi capita di pensare a loro. Soprattutto ad Alfio, Alfio Saligari, un ragazzo molto intelligente, silenzioso e carismatico (che non ho mai capito fino in fondo, purtroppo, e la cui tragica fine pesa, anche, sulla mia coscienza) e che, come me, Gianni Fagioli detto il Rubio, Arianna Denti e altri, condivideva (è un modo di dire superficiale) certe idee, e sentiva urgente il bisogno di metterle in pratica.

    Curcio e Franceschini, arrestati nel ‘74 a Pinerolo, per noi, erano degli eroi già da relegare al passato. Utili alla causa ma superati. Erano stati traditi da Frate Mitra, al secolo Silvano Girotto, un infiltrato che in precedenza era stato davvero frate francescano, e poi guerrigliero in Bolivia. Di Mario Moretti, Corrado Simioni e del Super clan occulto di cui ha parlato Alberto Franceschini dopo parecchi anni, discutevamo appena, segretamente, velando le parole d’un alone occulto.

    Volevamo ancora la rivoluzione e loro erano le nostre radici, fluite attraverso i racconti di ex partigiani mai rassegnati, i movimenti studenteschi, la presa di coscienza degli operai. Però, ormai, non rappresentavano più il nostro ideale di lotta, ammesso che ne avessimo uno logico, in quel coacervo folle di utopie rabbiose mascherate di giustizia sociale. Già, perché il resto era una cloaca di Stato imperialista che andava combattuto con ogni mezzo, o quantomeno con gli stessi che Lui, lo Stato, fin dal primo dopoguerra aveva utilizzato contro la classe operaia, sostenuto dai fascisti filoamericani e israeliani. Eravamo ragazzini assatanati che giocavano ai fuorilegge (io, almeno) in una guerra già persa dai nostri fratelli appena più grandi e più organizzati, guardati con disprezzo anche da quei maestri intellettuali che però, stando alle cronache del ‘72, non avevano esitato a scagliarsi addosso al commissario Calabresi accusato della morte dell’anarchico Pinelli, dopo la strage di piazza Fontana. Giornalisti, scrittori, registi, intellettualoidi d’ogni specie che di anno in anno rinnovano le loro penne a seconda delle convenienze del momento. Sempre da dietro una scrivania. Noi volevamo la guerra anche se non abbiamo fatto in tempo a combatterla e, nel mio caso grazie a Dio, ho sacrificato soprattutto la mia esistenza, facendo del male ma senza arrivare a togliere la vita a nessuno. Ma è stato solo un caso. Avrei ucciso senza grandi problemi, allora, in nome della causa. Il dubbio non mi apparteneva ancora.

    Non ho mai giustificato lo Stato – con tutto quello che questa parola, in termini di ipocrisia nei confronti dei cittadini comporta, e viceversa – e mai lo farò. In questo non sono cambiato. Ma non si può ridurre l’esistenza alle mere contrapposizioni, occorre andare oltre, vuotarsi di tutto e poi riempirsi solo di vita, del preciso istante che stiamo vivendo. Con l’amore incondizionato.

    Una parola che non vorrei più usare. Ho escluso ogni tipo di tentazione ideologica e opposizione, ogni infezione scaturita dal voler essere in un modo a discapito di un altro. Nel nulla interiore ho trovato la mia luce, una luce immensa, che le parole non reggono e, soprattutto, non possono trasmettere.

    Verso la fine degli anni ‘70, con Alfio e il Rubio iniziammo a frequentare il comandante S., uno che nel nostro giro, a Pavia, era famoso. Abitava in un appartamento economico in fondo a viale Campari. Era originario di Lodi e, si raccontava nell’ambiente dell’estrema, era stato esule in Cecoslovacchia poiché accusato dell’omicidio di un dirigente di fabbrica, qui in pianura. Poi era tornato, pieno di rabbia nei confronti del Partito Comunista, da cui non si sentiva più rappresentato. Detestava con tutto il cuore Enrico Berlinguer, che rappresentava la tendenza morbida e accomodante di un partito che lui sognava degno di una vera rivoluzione comunista. Come molti della sua generazione che, dopo il ‘45, non avevano deposto le armi, era stato aiutato, in varie circostanze, da Pietro Secchia, da quelli dell’ala dura e pura. Aveva conosciuto e assecondato l’idea di Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, i fondatori delle BR. Possedeva armi requisite ai tedeschi durante la guerra e sosteneva con malcelato orgoglio che per lui la lotta contro il fascismo non era mai terminata. Andavamo spesso a casa sua, la sera, e restavamo affascinati dai suoi racconti (lui era stregato, un po’ come tutti, soprattutto da Alfio Saligari), dalle gesta che narrava con la voce resa roca e profonda dal centinaio di sigarette Gauloises quotidiano. Furono quelle, probabilmente, a causargli il cancro ai polmoni che lo uccise nel marzo dell’83. Sembrava conoscere una sacco di cose sull’Italia, che s’intuivano appena, allora, ma che poi sarebbero venute a galla con il nome di strategia della tensione.

    UNO

    Riempì un’altra volta il bicchiere. Chiuse gli occhi e, mentre il vino scendeva, la malinconia prepotente rifluiva, alla fine misteriosamente piacevole.

    Autocommiserazione.

    Il vino era una degna Bonarda dell’Oltrepò Pavese, casa vinicola Fiamberti: scura e allegra, ma non priva d’eleganza, per quello che può dare sotto questo aspetto l’uva Croatina.

    Rivide suo nonno, Giacomo Bontempi, uomo del Borgo (il Borgo di Pavia, quella sera prigioniero d’una copiosa nevicata) d’altri tempi, quando il rione schiuso sulla riva destra del Ticino era una specie di paese nel fianco antico della bella città lombarda. Ma si poteva dire lo stesso anche degli altri quartieri, era una caratteristica degli abitanti di Pavia definirsi del Borgo, di San Pietro o della Scala...

    Suo nonno era un artigiano del ferro battuto, come suo padre Silvano: lavoravano in un laboratorio in fondo ad una corte comune, oltre un sentiero alberato, nei pressi del quale anche lui, Sandro Bontempi, dopo l’incidente, era tornato a vivere.

    Aveva certi occhietti azzurri, Giacomo Bontempi. E mani grandi come rami nodosi solcate da vene celesti, gote perennemente rosse, di certo grazie alla quotidiana bottiglia di spumoso vino di collina (che lui stesso imbottigliava nella cantina dai muri spessi e umidi, intrisi di odori stantii impregnati d’acqua di fiume, che Sandro rammentava con un senso di paura e nostalgia) che si concedeva.

    In TV stavano trasmettendo un programma d’indovinelli dove si vinceva un po’ di soldi e tutti facevano a gara per sembrare simpatici e originali. Spense con il telecomando, accese una sigaretta, s’accostò allo stereo e inserì un CD, ripensando suo malgrado alle telefonate mute di quegli ultimi giorni.

    Scelse una raccolta con Elmore James, Muddy Waters, Lightnin’ Hopkins (il suo bluesman preferito) e ascoltò Elmore in The sky is crying, con quel pianoforte lacrimante sulla strada della sfortuna, della sconfitta definitiva senza possibilità d’appello: l’unico appello era la musica, quella musica. Il blues, appunto.

    Versò un altro calice di vino e spinse la carrozzella fino alla piccola cucina. Aprì il frigo, prese il salame di Varzi, tagliò due fette spesse e le trangugiò voracemente, con il pane che Sara, la sua vicina, gli aveva comperato dal panettiere del Borgo.

    Sandro Bontempi aveva da poco compiuto cinquantatré anni e stava ingrassando a vista d’occhio. L’anno precedente aveva subito l’amputazione della gamba sinistra, a causa di un incidente sul lavoro in Nigeria, dove si occupava di sicurezza nei cantieri per conto di una società italiana che aveva appaltato alcune commesse da una compagnia olandese per l’estrazione del greggio.

    Però la sentiva ancora, la gamba, o meglio, avvertiva ancora il dolore gelido che la percorreva, alternato ai raggi roventi di un sole africano che sembrava consumarsi e ardere dentro la sua povera carne maciullata.

    Scostò un poco la tenda della finestra e guardò fuori, la strada buia e la neve che cadeva, oltre il giardinetto della palazzina dove aveva scelto di vivere dopo l’incidente, nel quartiere pavese in cui era nato e cresciuto. Rammentava una poesia imparata sui banchi delle elementari: Pavia, città della mia pace, di Ada Negri. Avrebbe voluto che la sua città – amata e odiata – riservasse anche a lui questo trattamento. Un po’ di pace, nient’altro che un po’ di pace in cui perdersi senza avvertire troppo acuti, il dolore e la frustrazione.

    Immaginò via Milazzo e il Ponte Coperto, dove i passanti slittavano frettolosi, mentre sotto di loro il Ticino rigettava gorghi e schiume improvvise sulla superficie nera, e l’inverno stringeva nella sua morsa il cuore antico della città, su cui svettava la cupola del Duomo.

    Sembrava tutto così tranquillo. Ma lui avvertiva, come un fastidioso e puntuale rintocco, il disagio dovuto ad alcune telefonate mute e, soprattutto, al proprio terribile stato d’impotenza. Altro che pace... Lo inquietava la paura di essere sorpreso da malviventi a cui non avrebbe potuto opporre resistenza alcuna. Gente disperata o criminale, assassini senza scrupoli che infierivano con ferocia inumana contro i malcapitati, per pochi spiccioli. Ma, riacquistato un minimo di lucidità, Sandro Bontempi, pensava che quelle telefonate non avevano nulla a che fare con tutto questo: si trattava solo di scherzi di cattivo gusto, oppure c’era qualcuno che voleva comunicargli qualcosa.

    Ma chi e che cosa?

    Una porta si aprì e subito si richiuse nell’appartamento accanto. Probabilmente era Luca, il marito di Sara, che rientrava dall’ufficio milanese dove lavorava, tutto sommato abbastanza presto. Camicia bianca e cravatta slacciata sotto al cappotto blu, piedi umidi e fronte corrugata sotto il ciuffo biondiccio, solchi profondi d’insoddisfazione per quel matrimonio che, come spesso accade, non sembrava mantenere le promesse.

    Comunque, un gran bravo ragazzo, pensava Sandro Bontempi: simpatico, figlio di un’Italia inconscia che faceva a gomitate per primeggiare, un’Italia degradata in tutti i settori, dove coloro che parlavano di speranza e rispetto erano quasi sempre gli stessi che badavano a difendere i propri privilegi acquisiti grazie a subdoli sotterfugi.

    Spalle da vogatore (ex canottiere in Ticino) e occhi di cielo terso, Luca, e ottimo giocatore di tennis, nel tempo libero. Gentile con tutti (meno che con la moglie) e, soprattutto, con Sandro, a cui procurava in Feltrinelli Milano tutti i CD che questi gli chiedeva.

    La moglie, Sara, era una mora dallo sguardo di grifo ma con un corpo da favola, sotto il diluvio di capelli arruffati e corvini. Sandro Bontempi, che la sognava a occhi aperti, pensava che la testolina della ragazza fosse devastata da troppe, insulse trasmissioni televisive, dove propinavano, tra uno spot e l’altro, marmellate avariate e maionesi impazzite di lacrime, morte e sesso, frullate dalle sentenze argute di sedicenti esperti.

    A Sara piaceva molto fargli visita. Rassettava, puliva il lavello e, intanto, lasciava che Sandro si lustrasse gli occhi sulle sue forme. Altre volte preparava il caffè (con la macchinetta di Clooney, come la chiamava lei, uno dei tanti regali che il marito le aveva fatto – vestiti, scarpe e borsette in primis – per tenere a bada i suoi capricci) e glielo portava. Sedeva di fronte a lui e lasciava che la vestaglia si aprisse quel tanto da lasciare intuire l’interno coscia, fino alle mutandine.

    Per quanto considerasse Sara una civetta sciocca e superficiale e Luca una brava persona, gentile e fin troppo educata, a Sandro quei giochi erotici da commedia all’italiana anni ’70 non spiacevano affatto. Anzi, riempivano i vuoti dettati dalla sua condizione di menomato e gli riaccendevano la fantasia erotica. Sfoghi innocenti, alla fine, che non facevano male a nessuno. Certo, il suo sogno (e il suo timore) era che Sara, prima o poi, prendesse l’iniziativa per fare finalmente l’amore con lui.

    La donna, qualche giorno prima, era stata protagonista involontaria di un episodio che lo riguardava da vicino. Un uomo in cappotto blu e valigetta, con occhi di smeraldo, capelli lunghi e barba incolta, aveva suonato alla porta della donna per proporle alcune novità elettrodomestiche. Sensibile al fascino maschile spiattellato in ogni pagina dei suoi settimanali preferiti, Sara era rimasta ovviamente affascinata dal tipo macho, che non aveva risparmiato complimenti espliciti alla potenziale cliente. Poi aveva insistito a voler entrare nell’appartamento accanto, nonostante Sara gli avesse detto che lì ci abitava un povero invalido che, sicuramente, non desiderava essere disturbato. Provasse piuttosto al piano di sopra, da quella piattola della Rosy Marin. L’uomo, probabilmente mentendo, disse che ci era già stato – Sara non avrebbe mai verificato – e insistette per introdursi nell’appartamento di Bontempi. Così suonarono anche alla sua porta. Sandro spinse la carrozzella, si avvicinò, e aprì. Vide Sara, si rassicurò, e nemmeno fece caso al rappresentante barbuto. Si accostò allo stereo e abbassò il volume, soffocando la chitarra texana dell’albino del blues, Johnny Winter. Non ascoltò una parola di quel tipo alto, con lo sguardo da attore, che si presentò come Dodi Gandolfi, rappresentante di... chissà cosa. Scrutò Sara in jeans a pelle e maglione blu scollo a v, cute bruciacchiata dalle troppe lampade e sorriso mieloso, poi disse all’uomo che a lui non interessava niente, non voleva fare acquisti e nemmeno fargli perdere il suo tempo prezioso. Salutò senza troppa cortesia e tornò alla sua musica, senza far caso all’abile mossa del rappresentante una volta aperta la porta: prendere la chiave dalla toppa, infilarla in una scatoletta nella tasca del cappotto, premere con forza per ottenerne la forma esatta e riporla a posto. Il tutto senza smettere di lusingare Sara, che lo aspettava gioiosa sul pianerottolo per salutarlo, prima di fare ritorno alle sue adorate trasmissioni televisive su stupri, omicidi, catastrofi, oppure canti, balletti e dialoghi triti e ritriti tra adolescenti in crisi e genitori biecamente giovanili.

    Pazienza se le sorbiva lui, inchiodato tutto il giorno sulla sedia a rotelle, come un martire muto che si trascina, sopravvive, senza pensare troppo al futuro che non c’è, cercando un equilibrio tra internet, musica, vino e sigarette, cornici adatte a raccogliere e rigettare al meglio l’indifferenza del mondo.

    Ma quelle telefonate mi fanno stare male. Chissà cosa vogliono da me? Ridotto come sono. Domani, tanto per cominciare, chiamo quel matto di Selmo Dell’Oro. Renato il chitarrista, vecchio amico, mi ha detto che, ormai da alcuni anni, si spaccia per detective privato. Chissà se si ricorda di me, disse a voce alta Sandro Bontempi, in una qualsiasi sera di fine novembre, mentre la prima neve della stagione imbiancava Pavia.

    DUE

    Erano circa le 9:30 di un freddo mattino pavese. La neve della notte copriva le strade e molte auto, quelle parcheggiate all’aperto, mantenevano sulla carrozzeria uno strato di circa dieci centimetri.

    Gigi Sambuco, in loden verde e coppola Stetson da poco acquistata dallo storico cappellaio di Strada Nuova, camminava lentamente, diretto verso il Blu Bar. Entrò fregandosi le mani, mentre la signorina Grandi Tette, amica-nemica del suo socio Selmo Dell’Oro, sorrideva amabilmente. Gli era simpatico, da sempre, quel tipo taciturno e, a suo modo, elegante, che la vita aveva messo a dura prova con il dolore più grande: la perdita del figlio ancora bambino.

    Sambuco prese il suo caffè bollente sorridendo alle solite casalinghe che chiacchieravano davanti al cappuccino, con la borsa della spesa accanto ai piedi e le lingue biforcute. In quell’attimo erano impegnate a criticare una loro amica che si scervellava alle macchinette succhiasoldi che Jaky, il proprietario del Blue Bar di Borgo Ticino, aveva pensato bene di piazzare nella saletta sul retro, dove di solito si radunavano – e per questo avevano mal digerito la novità – attempati giocatori di scopa e ramino come il Nanni Balestra, ex calciatore, e il suo amico Fantino. Questi due, quando lasciavano il Blu Bar, raggiungevano la vecchia bocciofila di via Mirabello, dove Gianni, l’ex batterista della Rava B Band, gli faceva credito sui bianchini che sorbivano a raffica nel corso di fanatiche partite di scopa, condite dai racconti del Balestra su quando giocava come centravanti nel Pavia e aveva la grana e le ragazze gli cadevano ai piedi.

    Sambuco uscì dal bar, annusò l’aria sporca di neve e carburante e si avviò lentamente verso l’ufficio, con in testa un vecchio motivo che l’accompagnava fin da quando si era svegliato, Il cuore è uno zingaro, vecchio successo sanremese di Nicola Di Bari in coppia con Nada. Una canzone che Sambuco, ragazzino, ascoltava a 45 giri sul giradischi di suo padre, una canzone bellissima che ancora oggi, a distanza di tanti anni, ogni tanto gli ritornava in mente.

    Quando entrò in ufficio il telefono già suonava. Prese il cordless e socchiuse la finestra, osservando distratto il Ticino, come faceva ogni mattina.

    – Pronto, buongiorno, vorrei parlare con Selmo Dell’Oro, – disse una voce, piuttosto roca, dall’altra parte.

    – Chi lo desidera?

    – Mi chiamo Sandro Bontempi, lei è il signor Sambuco dell’Agenzia Investigativa?

    – Sì, sono Gigi Sambuco. In questo momento Selmo Dell’Oro è fuori.

    – Sono un vecchio conoscente di Selmo, abito in Borgo, poco distante dalla vostra sede. Avevo bisogno di parlare con Selmo per chiedergli un piccolo consiglio riguardo un certo problema che mi sta assillando.

    – Può passare in ufficio, quando vuole, – disse Sambuco cercando nel taschino della giacca di velluto un mezzo toscano.

    – No, non posso, signor Sambuco: sono invalido, lo scorso anno mi è stata amputata la gamba sinistra, in seguito a un incidente sul lavoro.

    – Capisco, – rispose Sambuco, e a quel capisco, dall’altra parte, Sandro Bontempi sorrise amaro, prima di aggiungere:

    – Mi può aiutare a rintracciare Selmo?

    – Certo, ripensandoci, mi sembra di ricordare che Dell’Oro, circa un anno fa, mi ha parlato di lei e del suo incidente, avvenuto in Africa vero? Mi disse anche che gli sarebbe piaciuto venirla a trovare poiché la conosceva dai tempi della scuola, anche se lei è di qualche anno più grande, mi sbaglio?

    – Può essere che sia io il tipo in questione, anzi, sicuramente sono io. Comunque a trovarmi non è venuto, ma Selmo Dell’Oro non è mai stato uno su cui fare troppo affidamento, infatti sono rimasto molto stupito quando mi è stato detto che era diventato un investigatore privato.

    – È successo alcuni anni fa, dopo che l’ho tirato fuori da un brutto casino in cui si era ficcato per via di una ragazza greca che faceva l’università a Pavia. Abbiamo iniziato a collaborare e siamo ancora qua, insieme, ma ogni giorno mi pento di quella scelta, mi creda.

    – Dice sul serio?

    – Certo, – fece Sambuco sorridendo sotto i baffi, – ecco, adesso le lascio il numero di uno dei suoi cellulari. Segni: 333...

    Selmo Dell’Oro sprofondava nella vecchia poltrona con l’espressione più ottusa del suo non vasto repertorio. Di fronte a lui sedeva Renato Giulini detto il Giullare, suo amico d’infanzia, artista mancato mantenuto dal padre (facoltoso e rassegnato), esperto digitale e, più o meno, collaboratore dei detective Sambuco e Dell’Oro, dell’Agenzia Investigativa omonima, con sede in Borgo Ticino, Pavia.

    Avevano appena fumato una canna di marijuana, con i Led Zeppelin in sottofondo e Suzie Q, la cagnetta del Giullare, che ronfava beata accanto al camino acceso, nel salone della cascina nei pressi di Carbonara Ticino, dove Renato Giulini aveva scelto di abitare dopo la separazione dalla seconda moglie.

    L’erba gli aveva messo fame; per questo il Giullare si alzò, lentamente, come un pachiderma, dato il peso che s’aggirava sui centoventi chili. Raggiunse l’enorme frigo americano ed estrasse il gorgonzola dolce di Comelli. Pescò dal sacchetto il pane e si farcì un panino che pensò bene di innaffiare con un calice di barbera dell’Oltrepò.

    – Cazzo, Giullare, mi fai schifo, sono le dieci di mattina e tu mangi già come un porco, ma ti sei visto allo specchio? Stai lievitando, – disse Selmo Dell’Oro.

    – Cos’è. Sei geloso?

    – No, ma vorrei capire, non ti sembra di esagerare? Se vai avanti così va a finire che ti viene un colpo e ci resti secco e poi devo venirti a scroccare l’erba al cimitero.

    – Certo che farsi fare la morale da uno come te è un vero record. Sei un rottame, Dell’Oro, un avanzo di galera, un fascista ignorante mantenuto dalla moglie e da quel tipo sfigato che risponde al nome di Gigi Sambuco.

    – Tu invece sei una cima, uno che nella vita si è realizzato grazie alle sue capacità, il problema è che prima o poi scoppi e qua dentro pioverà merda, – disse Dell’Oro, ben allenato ai dialoghi un po’ surreali con il vecchio amico.

    – Ma cosa dici, guardati attorno, io sono un artista, li vedi tutti i quadri alle pareti?

    – Schifezze.

    – Certo, per uno ignorante come te, ma io ho studiato, Mondrian, Pollock, Rothko, Roberto Sebastián Matta, Alberto Burri. Non ti dicono niente questi nomi, vero? Già, tu sei rimasto alle cartoline delle elementari, la casetta e l’alberello, al massimo la montagna innevata.

    – Ma lascia perdere, va’, e fammi un panino anche a me, che a sentire le tue stronzate da fallito mi è venuta fame – disse Selmo, mentre uno dei suoi tre cellulari trillava, all’interno del giaccone impermeabile.

    – Pronto.

    – Pronto, Selmo Dell’Oro?

    – Sono

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