Fu il giovane Holden
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Holden, a diciassette anni, ha raccontato tre giorni dell’anno precedente dopo essere stato cacciato dall’ennesima scuola. Gianni, ultra settantenne, racconta i trascorsi decenni.
Mentre “l’altro” Holden sognava di salvare i bambini che giocavano nel campo di segale dal cadere nel baratro della vita degli adulti ipocriti, Gianni, a diciannove anni, bivaccando in piazza Martinez come un barbone, salvò i fanciulli che attraversavano la strada e rischiavano di mischiarsi sul marciapiede con i falsi adulti, premurosamente indaffarati a raggiungere ignoti destini.
Un prete e poi una chiesa salvarono quell’”ateo agnostico”, randagio e rabbioso, avverso ai bugiardi. Lo incoraggiarono a studiare, a laurearsi, a sposarsi. Ebbe un figlio e una nipotina neri come il carbone.
“Salvò” molti innocenti e aiutò tanti senza casa con i quali aveva un rapporto speciale e una singolare attrazione.
E fino all’ultimo fu il giovane Holden. E tutto il resto.
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Anteprima del libro
Fu il giovane Holden - Giovanni Bertini
© 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-567-8687-3
I edizione ottobre 2017
www.gruppoalbatros.com
Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.
Le parole giuste.
Crea frasi insolite con le solite parole.
(Scuola Holden)
Capitolo 1. Introduzione
Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque.
È vero, lo so. Ma non posso. Comunque io non dico niente a chicchessia. Però scrivo. Non dovrei ma non posso farne a meno. È tutta colpa di una botta in testa a mia insaputa. Intendiamoci, non è che vado in giro di notte a scrivere sui muri; oppure a lasciare il mio numero di telefono sulle pareti dei vespasiani proponendo improbabili prestazioni sessuali. No, proprio no. Ma scrivo ai giornali. Lettere di protesta sulla politica locale, nazionale e mondiale; critiche e proposte sui mali sociali. Insomma voglio raddrizzare il mondo visto quello che ho combinato con la mia vita.
Ma non basta; non mi basta, perché quegli scritti non so se vengono pubblicati, non verifico. E allora dall’anno scorso a 74 anni mi sono buttato sui libri; ne ho scritti tre. Siccome non mi piace leggerli (non mi piacciono, e allora?), li scrivo. Mi siedo in cucina, metto sul tavolo una grammatica, il dizionario e il computer portatile. Certo, come la maggior parte dei vecchi non amo le cose moderne; per lo meno non se debbo studiarle e apprenderne le funzioni. Ma l’urgenza letteraria era, è, impellente, così in quattro e quattro otto ho appreso i rudimenti di quell’aggeggio che ti fa entrare nel mondo, nella cronaca, anche immediata, e nello scibile umano. Ma è bizzoso e a volte inaffidabile; va in crash (si blocca). Vieni assalito da messaggi, pubblicità e terribili virus che minacciano la tua integrità mentale. Beh, si fa per dire, visto che la mia è già compromessa. Lo psichiatra che mi segue me l’ha detto, ho dei turbamenti neuronali che mi hanno causato la dismnesia; confondo le fantasie, i sogni, con la realtà. Ma non debbo preoccuparmi. È sufficiente che mi metta sul capo una borsa del ghiaccio (spesso) e che una volta all’anno vada da lui per il controllo.
La prima riga all’inizio della mia storia, è il succo e l’ultima riga di un libro che ha sconvolto la letteratura occidentale del dopoguerra (seconda guerra mondiale): Il giovane Holden di Jerome David Salinger; e la mia testa. Come al solito non è colpa mia. Sì, perché qualche libro, di tanto in tanto, lo leggo. È che questa estate, il sole era forte, il caldo afoso, bla bla, durante la lettura dei quotidiani online mi sono imbattuto nel bando di un concorso letterario; e mal me ne incolse. Il titolo della competizione è Scrivi con Baricco (Alessandro Baricco ha fondato la scuola di scrittura Scuola Holden). Cazzo, mi sono detto, chi se non il gemello ideale del giovane Holden, può scrivere un libro con uno dei più grandi autori della letteratura italiana; ma che dico, europea (e mondiale no?).
Ecco di cosa si tratta. Alessandro Baricco ha scritto un racconto e l’ha lasciato incompleto, gli aspiranti scrittori devono completarlo raccontando gli ultimi venti anni della vita della moglie o compagna del protagonista. Il numero di parole richieste è una pagina, e siccome il tema non è libero, non hanno messo un limite ai micro-racconti da inviare, l’editore, probabilmente, pensava che al massimo qualcuno ne avrebbe inviato due o tre. Ovviamente è richiesta una dote di sintesi; emozionare in pochi tweet. Figuriamoci, mi chiamano il re dei tweet, il tuittaro. Naturalmente ho inviato la mia storia, anzi, le
. Adesso sentite cosa è successo.
Il 30 settembre scorso è scaduto il termine del concorso e su Repubblica D
hanno scritto che i racconti ricevuti sul terreno nazionale e oltre, sono circa seicento. Cinque provengono da reclusi in case circondariali, trenta (30!) da un aspirante scrittore (grafomane). Indovinate chi è. Avete azzeccato, sono io medesimo. Però ho la giustificazione medica. Tra l’altro, se non mi bloccavano l’account, arrivavo a 49, come i celeberrimi racconti del mio mentore Ernest Miller Hemingway. Comunque aspettiamo l’esito della gara, che sarà comunicato il 24 dicembre, e allora caso mai si faranno i conti. Dimenticavo: i dieci prescelti verranno pubblicati assieme al racconto di Baricco. Nel frattempo, che tensione, che suspense, faccio in tempo, spero, a sfogarmi e a parlare di quel maledetto racconto che ha influito sulla letteratura, sulla filmografia mondiale e la mia vita. Non solo. Ma anche del giovane, sedicenne, Holden, il protagonista della storia, e del vecchio Holden che dopo la sua lunga, polemica, schizzata, esistenza ha preso il suo posto e continuato la storia fino ai giorni nostri, il 2000 e oltre. Quindi, che quando mi prendono le caldane alla testa, i vortici neuronali, a dispetto delle borse del ghiaccio applicate sulla testa, trasformano la mia personalità; e vengo posseduto da quel ragazzino disadattato e sfigato, ma acuto e involontariamente veggente, nel quale generazioni di giovani si sono identificati. Insomma, ragazzi, io sono il giovane Holden, da grande, da vecchio e tutto il resto: stile e parolacce comprese. E tutto il resto, naturalmente.
Così, ho inviato al mio collega (è proprio vero che i sogni non hanno confini), Baricco, e partner di stesura del libro (spero), la richiesta di aprire una filiale della scuola, qua a Genova, vicino al centro storico, dove abito io, nella libreria Feltrinelli, una delle più belle e grandi d’Italia; si estende su sette livelli e dispone di oltre cinquantamila volumi. Inoltre, ha un confortevole e affascinante bar con una pulitissima e profumata toilette. Se vi terranno corsi di scrittura io parteciperò naturalmente; come allievo, ovviamente. Anche perché lo psichiatra me lo ha detto: Bertini, studi e scriva, scriva e studi; è terapeutico. E non venga così spesso a romp… a trovarmi. Ormai non ne ha più bisogno. Vada caro, e si rilassi
.
Ecco, allora, parlerò di questo libro. Il giovane Holden è uscito per la prima volta negli Stati Uniti, nel 1951, io avevo dieci anni e non sapevo della pubblicazione, però, stranamente assomigliavo a Holden Caulfield. Ero incazzoso e pieno di angst, angustia e ansia, avrei voluto stare in mezzo alla gente ma non ci riuscivo e prendevo molte facciate, e allora mi ritraevo e rinchiudevo in me stesso; era un circolo vizioso. Tutto e tutti erano falsi; il mondo, come adesso, era tutta una ipocrisia. Sì, è così. Non avete letto questo libro? Non avete mai sentito parlare del giovane Holden e delle sue frustrazioni? Non ha importanza. Ci sono io, ci penso io. Io sono sia il giovane e sfigato Holden che l’inacidito vecchio Holden. Con le stesse idiosincrasie, lo stesso linguaggio e, più o meno, gli stessi fallimenti; moltiplicati dagli anni vissuti in più. Considerando che lui ha raccontato tre o quattro giorni dei suoi sedici anni, io ne racconterò cinque o sei decenni in più. Insomma, è il giovane Holden che è entrato nel duemila e passa. Beh, un poco c’entrano anche le caldane alla testa che mi prendono. Ne parlerò, perché soprattutto per le donne, hanno la loro importanza anche se per ragioni e cause diverse.
Quando sono normale non dico le parolacce, sono una persona urbana, civile e ipocrita quanto basta come le altre, ma quando un calore inebriante mi prende alla nuca e pervade il cervello arroventandolo, cazzo, non sono più io. Per ben tre volte mi assalì negli ultimi due anni e in tutte fui posseduto da strani personaggi. Fu come non fu, non so come, io che a malapena scrivo il mio nome e cognome, scrissi tre libri (adesso, mi sa che sono nella quarta super caldana). Il secondo, a Sanremo, addirittura vinse un premio. Voi non ci crederete però carta, anzi, premio, canta, ma quello è un romanzo storico e un altro racconto.
Capitolo 2. Piazza Martinez e il libro
Vabbè ragazzi. È meglio che racconti come sono venuto in possesso di quel cazzo di libro, sì quello, Il giovane Holden e tutto il resto. Non è che voglio cercare scuse per quello che sono. Lo ammetto, incazzato con il mondo lo ero già di mio, ma non ne ero conscio. Quella storia non aveva niente a che fare con la mia. Prima di tutto si svolgeva in America, nella Pennsylvania per la precisione. Poi lui, Holden, era uno spilungone sedicenne di quasi due metri. A causa del suo esagerato sviluppo fisico si era beccato la tubercolosi (lo dice lui). Ma questa della sua malattia è un’altra storia che lui visse dopo che ebbe narrato la sua ennesima cacciata da un collegio d’alto bordo. Io ero e sono di media statura e allora, nel 1960, quando mi regalarono il libro, avevo 19 anni.
A ragionarci qualcosa in comune l’abbiamo. Anch’io ho avuto problemi con la scuola, con la famiglia e tutto il seguito. Però lui veniva da una famiglia benestante e completa. Voglio dire che aveva papà, mamma, un fratello morto e uno vivo che amava, così come la sorellina di dieci anni; e i nonni e tutti gli altri, anche se non con tutti ci legava. Io avevo Piera, mia mamma e Bianca, la signorina Bianca, sorella di Piera e nessun altro, nemmeno un papà.
L’America, chiariamolo di nuovo, non parlo del continente chiamato così per il navigatore italiano Amerigo Vespucci, mi riferisco agli Stati Uniti, che non hanno un nome di battesimo. Dunque, ah sì, in quel tempo la nazione era al settimo celo. L’economia andava a gonfie vele. La guerra l’avevano pagata con qualche centinaio di migliaia di morti. Ma ora le fabbriche, il commercio e tutto il resto non riuscivano a stare dietro alla domanda di tutte le cose. Perciò oltre a esportare un sacco, importavano esseri umani che non inseguivano il sogno americano perché non sapevano che cazzo fosse, ma semplicemente fuggivano la fame e la distruzione che la guerra aveva causato in Europa e in Asia (a causa del Giappone alleato dell’Italia e della Germania).
Insomma, adesso gli americani raccoglievano i frutti caduti dall’albero della ricostruzione. Avevano salvato il nostro continente dalla dittatura del nazifascismo, avevano distribuito prestiti a condizioni di a buon rendere
e così ci invadevano con le loro merci, il loro cinema, la loro musica, la cultura e tutto il resto. Loro, anche perché lo diceva la loro costituzione, avevano la felicità, noi avevamo la speranza perché per pochi anni godemmo del miracolo economico
. Mentre oggi, cazzo, non abbiamo più né l’una né l’altro.
La manfrina l’ho menata per dire che ero uguale e diverso da Holden; ero il suo fratello fiondato in un altro posto. Eravamo un po’ così, noi giovani, ma non eravamo i soli. Eravamo i giovani Holden. Specialmente in quell’epoca, nei mitici anni Sessanta.
Erano due anni che vivevo (letteralmente) su una aiuola in piazza Martinez, a Genova, che era, è, una bellissima piazza grande come uno stadio, circondata da quattro larghi marciapiedi. Su due lati si ergono dei dignitosi edifici eretti nell’Ottocento, sul lato sud, oltre la strada, c’è la ferrovia e una scuola elementare e in quello a nord una chiesa grande con una scalinata e il tetto a capanna. È la chiesa di San Fruttuoso (il quartiere) o di Piazza Martinez. Io non sono credente, anzi, sono un ateo agnostico; mi spiego, Dio non c’è, però non si sa mai. Non sono nemmeno genovese, sono nato a Livorno, ma sono cresciuto a Genova e tutto il resto; voglio dire che parlo il dialetto.
Precisato che non sono di parte, qualche parola lasciatemela dire su questa parrocchia, la merita.
Intanto, una volta, la chiesa di San Fruttuoso, che era nella vicina piazza Terralba, risalente al XII secolo, nel 1912, fu distrutta dal fuoco. La ricostruirono subito, lì vicino in piazza Martinez. Però i resti del santo, che visse nei primi secoli dell’era cristiana, erano custoditi a San Fruttuoso di Camogli, vicino a Portofino. La piccola baia di San Fruttuoso con il suo monastero, è uno dei posti più affascinanti e misteriosi d’Italia, cito il nostro paese per non offendere gli altri. In quel periodo, il 1100, l’Italia non era invasa soltanto dai normanni come apprendiamo a scuola, ma era assalita, ancora, dai saraceni. Così, temendo per i resti del vescovo martire di Tarragona, questi vennero trasferiti a Genova, nell’antica pieve di Terralba. E da qui il nome del quartiere. E ora a San Fruttuoso, in piazza Martinez, il santo riposa, si spera per sempre.
Qui, come ho detto, andavo a riposare, anzi, a bivaccare, in uno dei periodi più neri della mia vita e quant’altro. Mi sedevo o mi coricavo, tra due pitosfori, su una aiuola nel lato della ferrovia; di fronte a me, in fondo alla piazza, avevo la chiesa. Perciò dominavo lo spiazzo e le altre aiuole e i pini e i platani. C’era anche un chiosco bar con i pensionati e una edicola di giornali. Perfino, appartato, un vespasiano, pulito e tutto il resto, che era frequentato pure dalle mamme, previa guardia di figli o chi per loro. Era un’isola di pace, non lontana dal centro, e dove tutti conoscevano tutti e così via. Io ero il figlio barbone e scapestrato della modista.
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