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Non Sparate al Cuoco
Non Sparate al Cuoco
Non Sparate al Cuoco
E-book490 pagine5 ore

Non Sparate al Cuoco

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Info su questo ebook

Buenos Aires vista dall’alto pareva una grande, enorme e tranquilla metropoli, ma quanti drammi si consumavano proprio in quel momento? Io non me ne resi conto, ma ero atterrato nel cuore più profondo dell’inferno.

Il Forest Gump tra i fornelli, potrebbe essere la metafora di questo romanzo, raccontato in mezzo ad eventi storici che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del XX secolo.
La vita, speciale, di un cuoco professionista le cui origini si perdono in una Valdisusa partigiana del dopoguerra e che si trova – spesso suo malgrado – al centro degli eventi che hanno caratterizzato la storia degli ultimi anni, dagli Angeli del fango, alla Primavera di Praga, al ’68, al Terrorismo delle Brigate Rosse, con intrecci di avventure e amori spesso impossibili, che si rincorrono fino alla scoperta del Sudamerica, al mito del giovane Ernesto Che Guevara, portandolo a rivivere le avventure de “I Diari della Motocicletta”. La vita lo rivedrà nuovamente in quella terra in una sorta di purgatorio alla ricerca della cugina Marta “Desaparecidas”.
Il cuoco diventerà un eroe delle proprie avventure, ma le sue origini lo richiameranno a casa:
“Se siempre de donde se naciò!” Come disse Picasso!
La storia delle storie…
 
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2013
ISBN9788868555320
Non Sparate al Cuoco

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    Anteprima del libro

    Non Sparate al Cuoco - Claudio Cantore

    NON SPARATE AL CUOCO!

    Vita aventurosa di un Cuoco piemontese tra Rivoluzioni, Brigatismo rosso e Desaparecion argentina

    Romanzo

    di Claudio Cantore

    claudio.cantore@gmail.com

    A Paride… per la continuazione della specie!

    Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio

    o vizio che non viva della propria segretezza.

    Portate alla luce del giorno questi segreti,

    descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti

    e prima o poi la pubblica opinione li getterà via.

    La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente,

    ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri!

    (Joseph Pulitzer)

    PREMESSA

    La Storia delle Storie

    Il racconto che voi state per iniziare a leggere, può sembrare banale, una biografia della fantasiosa vita di un cuoco …e che sarà mai?

    Quattro ricette e qualche goliardica avventura!

    Un cuoco non è un eroe, non è un poliziotto, non svela misteri, non trova assassini.

    Sta in cucina e prepara da mangiare.

    Invece vi stupirete, è una figura, intrigante e molto interessante.

    È sempre al centro del mondo ma nessuno lo vede.

    Ha tempo di capire e sa farsi rispettare.

    Anche se… è solo un cuoco!

    La formazione

    Questa vicenda inizia nei magnifici anni ‘60.

    Erano gli anni de Le mille bolle blu, di Volare, del boom economico, della tecnologia che strappava dal lavoro forzato e sottopagato della campagna per una vita sfavillante nella fabbrica.

    Alle spalle si cercava di sopire i ricordi di una guerra troppo vicina per essere dimenticata, che ancora bruciava dentro.

    Io vivevo pienamente quell’emozione anche se ero nato a guerra conclusa.

    Le radici

    All’inizio della mia storia, abitavo in un piccolo paese di montagna che non era turistico, ma con tanta neve d’inverno, mentre d’estate la calura e le rocce da scarpinare erano i passatempi di noi giovani.

    Avevamo a disposizione stupende viste sulla Valdisusa e, nelle giornate terse, era uno spettacolo vedere Torino, con la Mole che emergeva davanti alla collina di Superga.

    La strada per arrivare era terribilmente tortuosa. Solo saltuari paracarri separavano il nastro d’asfalto dal dirupo. Le buche non mancavano mai ed erano riempite con bitume in modo da fare dei rattoppi più scuri.

    «Dei nuovi francobolli!».

    Sentenziava mio padre quando vedeva le nuove accomodature al volante della sua auto, un FIAT Millecento bicolore. Non capii mai però perché volle acquistare la versione familiare, in fondo eravamo solo noi tre in famiglia, io, mamma e papà.

    La strada proseguiva diventando ancora più tortuosa e non più asfaltata. Continuava fino al Col del Lys, spartiacque tra le valli di Susa e di Lanzo, per ridiscendere a Viù nell’altra conca.

    Era una zona speciale, perché qui si era combattuta la guerra di liberazione dal nazifascismo e gli anziani del paese facevano a gara nel raccontarcela.

    I racconti dei Partigiani

    La televisione ancora non imperava e così era un gran piacere stare ad ascoltare quei racconti che ci contagiavano all’imbrunire, nell’estate sulla soglia di casa, seduti su una panca di legno; magari con un golf di lana a portata di mano, perché in montagna il caldo arriva sempre tardi ma va via quasi subito.

    L’odore acre emesso della pipa che fumava Bruno scacciava via ogni tipo d’insetto e forse anche qualche cristiano. Egli era un tipo robusto e taciturno; una faccia arcigna che celava un cocente sorriso, capelli nerissimi sempre trattenuti da un basco blu in feltro spesso.

    Durante la guerra, Bruno era stato il capobanda della Brigata Partigiana Garibaldina; scapolo e comunista, troppo affascinante e smodatamente fiero per sposarsi e diventare normale.

    Non parlava troppo, ma sorvegliava i racconti di Franco detto il Mitraglia, il quale, contrariamente a Bruno, era un tipo molto alto e magro, con due occhi vispi e profondi, un naso aquilino e un incisivo rotto trasversalmente; quel fatto lo raccontava come un incidente di guerra, dovuto al rinculo del suo fucile.

    Altri, invece, affermavano che era la conseguenza di una rovinosa caduta, ricavata scontrandosi contro lo scudo metallico di una mitragliatrice pesante, in una notte in cui era ciucco perso.

    Non era però a causa di quell’incidente che gli era stato attribuito il soprannome, piuttosto per il suo rapido e costante modo di parlare.

    Raccontava dei rastrellamenti subiti e delle torture, cercando ogni volta, di essere sempre più dettagliato, ma puntualmente le donne presenti lo zittivano dicendo:

    «E piantla lì! A-j son le masnà…» (Smettila! Ci sono i ragazzi…).

    Così, sul più bello, ci trovavamo costretti a far ricorso della nostra fantasia che, indubbiamente, era troppo acerba perché riuscisse a concepire le vere nefandezze patite da quei giovani martiri.

    Un giorno il Mitraglia ci narrò che, poco prima di Natale del ’44, la Venchi Unica, la celebre industria dolciaria torinese, regalò un carico completo di panettoni al comando partigiano, dirottandolo da una spedizione per le Brigate Nere.

    Quell’anno, in tante baite sperdute, si festeggiò, per la prima volta, il Santo Natale assaporando la tipica prelibatezza, portata dai Partigiani a ringraziamento dell’aiuto dato. Ormai era ben chiaro che la guerra fosse verso la fine e era altrettanto chiaro chi fossero i vincitori; tuttavia le ostilità durarono ancora quattro mesi.

    Centoventi giorni di freddo, brutalità, paura e morte!

    La gioventù

    Quella guerra aveva disseminato bombe e proiettili inesplosi nascondendoli in quei prati, tra quelle rocce, su quelle alture. A scuola come sul portone del municipio, venivano infissi cartelli, con la figura dei vari ordigni esplosivi, manifesti che ammonivano di non toccarli.

    Io però, li conoscevo bene!

    Il Bruno me li aveva mostrati dal vero. Ero per lui come un figlio, forse la sua solitudine o forse la promessa fatta allo zio Gino di prendersi cura di me, lui che si sacrificò per salvarlo in un’azione di guerra.

    Mi aveva anche fatto vedere dove teneva nascoste un sacco d’armi, una vera e propria santabarbara, pronta per la sua rivoluzione.

    Viveva in questi luoghi da sempre facendo il coltivatore, l’agricoltore. Grande stacanovista, qualunque tempo, qualunque giorno era buono per lavorare; non santificava troppo la domenica, così come le altre solennità religiose e solo due erano gli anniversari importanti per lui: il venticinque aprile e il primo maggio… quelle sì che erano le sue feste e non mancava mai di onorarle!

    Ci parlava sempre e molto volentieri, delle mille avventure del periodo di guerra, sicuramente il più duro, ma il più pregno d’ideali.

    «Perché il vento cambia e se prima le buschi, poi le dai!» Soleva ripeterci.

    Cantavamo insieme Bella Ciao, aggiungendo nella strofa finale:

    Noi siamo i fiori dei Partigiani… morti per la libertà!

    Insomma, nella mia giovane fantasia rivivevo le mille avventure degli antifascisti.

    L’avvento della televisione

    L’Italia, nuovamente unita, doveva riaffermare il processo risorgimentale di fare gli italiani.

    La televisione s’intrufolava nella quotidianità della nostra vita portando, dentro casa, un mondo nuovo. In realtà il televisore non entrò subito a casa mia; prima aveva conquistato il nostro bar centrale: La Cooperativa, un esercizio pubblico e locanda gestita da Gepìn.

    Normalmente era un territorio esclusivo degli uomini i quali nelle feste, prima del lauto pasto festivo e all’uscita di messa, andavano a bersi il loro bibi, il famoso grappino grigio-verde e, nei dopocena, un mezzo di rosso (magari non solo uno), alternato a fumose sedute di scopa o tresette.

    L’avvento di quest’oggetto stava rivoluzionando le abitudini; ora anche le donne osavano uscire di sera con appresso i bambini, utilizzando la scusa delle trasmissioni più seguite.

    Questo sconvolgimento era causato da un grosso cubo marrone con un vetro grigio sul davanti, completamente anonimo da spento, tuttavia quando era acceso e il segnale captato, avveniva il miracolo.

    Era appeso in alto, in un angolo del locale su una mensola; sistemato in modo che più gente possibile lo potesse guardare, standosene seduta su sedie impagliate, mentre noi giovani potevamo ammirare lo spettacolo, accomodati sulla panca contro il muro.

    Ovviamente tutti in silenzio!

    Come in chiesa, ma qui gli uomini stavano seduti in prima fila. Erano trasmesse immagini in bianco e nero, sfocate, con basso contrasto e un audio che friggeva anziché emettere suoni. Era però la scatola magica che riuniva le persone, le famiglie, per assistere gli eventi importanti, non solo quelli sportivi, trasmessi in mondovisione.

    Lentamente, ma inesorabilmente, avvenne, in questo modo, la migrazione dalla panca sul bordo della strada allo sgabello di fronte allo schermo fosforescente.

    A me mancava l’ormai familiare odore della pipa del Bruno, perché si era sempre rifiutato di farsi friggere il cervello da quella trappola.

    La moglie di Gepìn, la Laura, girava tra i tavoli rabboccando i bicchieri, riportando le riempite su un taccuino, che conservava accuratamente nella tasca della falda all’altezza della pancia, mentre il lapis nero, sempre corto e consumato, veniva posizionato sull’orecchio destro, nascosto tra i capelli scuri già appena canuti, sempre pettinati a codino con una graziosa frangetta.

    Non esisteva ancora il canone, ma le rate del televisore si dovevano pur pagare.

    Ricordo con piacere la Laura che, ancora bella e prosperosa, aveva spesso l’abitudine, di fronte a noi giovani, d’angrigne-se (di chinarsi) per raccattare qualcosa a terra, facendoci sognare un pezzo di quella rotondità del seno a noi sconosciuta, creando ansietà che si riflettevano poi nei sogni adolescenziali.

    Il Festival della Canzone di Sanremo era, sicuramente, l’appuntamento più atteso. L’evento canzoniere e i fiori della Riviera facevano immaginare i colori della prossima bella stagione anche se da noi, a fine febbraio il freddo e spesso la neve, ci ricordavano che l’inverno era ancora ospitato dalla montagna.

    Rita, il primo amore

    Il mio paese non contava più di quattrocento residenti; tuttavia, con la bella stagione, la popolazione aumentava fino a oltre milleduecento, erano i Torinesi che abbandonavano la città, stabilendosi lì da giugno a settembre inoltrato.

    La città, in fondo, non era troppo distante.

    Tra questi villeggianti vi era Rita, una bellissima ragazza riccia, bionda e molto formosa, con gli occhi marroni, una bocca proporzionata, labbra piccole, ma notevolmente marcate, un nasino alla francese, che la faceva sembrare ancora più bella, e un viso tondo perfettamente proporzionato.

    Sempre elegante, pareva una persona con una profonda conoscenza del vivere, anche se era terribilmente impacciata nel muoversi in mezzo alla natura. La conobbi che aveva quattordici anni, io uno in meno e forse per questo la vedevo impossibile per me, tuttavia lei mi guardava, mi parlava e mi voleva vicino.

    Io ero superbamente felice!

    Rita era figlia unica.

    Il padre, preside di un liceo, aveva un aspetto colto, ma austero, mentre la madre, alta e longilinea, era una bella signora distinta, di quelle che… avevano studiato, come diceva la mamma.

    Affittavano uno stabile, di quelli nuovi, situati nella parte bassa del paese. L’abitazione era molto ben curata, tuttavia Rita non amava troppo farmi entrare in casa sua, preferiva fare delle lunghe passeggiate, soli oppure ci ritrovavamo con gli amici al porticato del bar Belvedere quello sulla strada provinciale che passava nel paese.

    Con lei l’amore era una passione giovanile, molto eterea e poco fisica, anche se ci scambiavamo spesso effusioni, carezze e baci.

    Nulla per me era più profondo e piacevole che quei suoi atti d’affetto… ma io la sentivo sempre molto orgogliosa e fiera. Spesso civettava con altri e mi lasciava in disparte, specialmente alle feste, quando s’agghindava in modo molto appariscente, per attirare l’attenzione e voleva essere sempre in primo piano.

    Poi, quando eravamo nuovamente soli, era tutta per me, dolce e, immaginavo, innamorata.

    Il comportamento di Rita mi faceva reagire in modo tale da essere sgradevolmente superiore a tutto e a tutti; mi rendevo conto di non riuscire bene ad esternare il mio amore, ma non riuscivo a fare diversamente.

    Passarono due stagioni e Rita continuava a venire in borgata, ci vedevamo sempre più spesso e la passione continuava ad inondarci.

    Era un amore acerbo e immaturo, io però lo sentivo come il vero amore di tutta una vita, tuttavia lei mi contrastava dicendomi: «Bisognava vivere… non amare».

    Stavo per compiere quindici anni quando ebbi in dono la mia prima (e unica) moto.

    Alla fine dell’anno scolastico mio padre mi fece la sorpresa: mi accompagnò dal concessionario Guzzi a scegliere il colore di un nuovissimo e fiammante Dingo 50cc. Un motociclo derivato dal mitico Stornello.

    Aveva un motore moderno in lega d’alluminio e una velocità su strada di ben 75 Km orari.

    Era una vera moto da cross!

    La scelsi di color giallo.

    L’amara scoperta

    Un giorno d’inizio autunno, in cui marinai la scuola, decisi di fare una sorpresa a Rita: con il mio Dingo, partii per l’avventura torinese. Non era la distanza che m’impensieriva, forse più la sua reazione.

    Lasciai la moto seminascosta, ben chiusa con un lucchetto e andai ad aspettarla all’uscita del liceo, proprio la scuola in cui suo padre era il preside.

    In strada si respirava una solitudine strana, i marciapiedi lastricati erano, in ogni modo, alieni ai miei terreni erbosi, l’ansia mi assalì quando poi mi resi conto che dovevo aspettare ancora più di un’ora.

    Ero arrivato molto in anticipo!

    La consapevolezza che, di lì a poco, l’avrei vista incrementò la mia agitazione, sapevo del sentimento che provavo, ma non capivo quanto fosse forte il mio amore. Lo mascheravo senza volerlo, ma quel giorno volevo affermarlo.

    Il tempo scorreva lentamente e la domanda che m’incalzava era sempre la stessa: Ma Rita sarà davvero innamorata di un tizio come me?.

    Avevo timore nel darmi la risposta e allora, nervosamente, mi mordicchiavo il labbro inferiore. Per evitare di farmi danni permanenti cercai in tasca un bastoncino di liquirizia e iniziai a morderlo e succhiarlo.

    Pensavo che in fondo le nostre vite si stavano svolgendo in due mondi diversi, che s’incrociavano per pochi mesi l’anno e poi le esperienze divergevano: lei tornava a essere una cittadina e io un montagnino.

    Fui rapito dalle mie meditazioni dal suono soffocato della campanella, seguito dal vociferare petulante dei ragazzi che uscivano a frotte dal portone ottocentesco ora aperto, che mi riportò alla realtà.

    «Oh… al diavolo!» Esclamai, mentre con il collo teso, sempre celato dietro il cantone, cercavo la chioma ribelle che non riuscivo a scorgere.

    Quando la vidi ebbi un sobbalzo, non volevo credere a quello che vedevo; mi strofinai gli occhi, nondimeno la scena cambiò: la mia Rita stringeva la mano di un ragazzo con i capelli biondo sporco, più grande di lei, ridevano e scherzavano.

    No, non è possibile… non voglio guardare, ma la rabbia fu più forte di me e li inseguii con lo sguardo.

    Vidi i due salire a bordo di una Fiat 500 bianca, nuovissima, parcheggiata a poche centinaia di metri dalla scuola.

    Rita sparì lasciandomi dentro un vuoto abissale…

    Il mondo mi crollò addosso, capii che il mio grande amore era solo una necessità vacanziera. Io ero poco più che un nulla che era usato per riempire uno spazio inutilizzato.

    Tornai al mio Dingo e, salito in sella, con un colpo secco alla leva della messa in moto feci rombare il due tempi il quale emise uno sbuffo di fumo bianco-azzurro e con nervose accelerate, ripartii.

    Con gli occhi colmi di lacrime e il cuore gonfio d’amarezza, aumentavo la velocità al massimo per aggiungere chilometri tra me e Rita.

    La scelta

    Fu così che decisi, che il mio paese era troppo stretto. Chiesi e ottenni d’iscrivermi all’istituto alberghiero e d’arte bianca, non lo sentivo come una professione tuttavia l’idea di poter andare a lavorare lontano, dovunque lo desiderassi, mi liberava dal ricordo di Rita.

    Nei quattro anni successivi, appresi i segreti dell’arte culinaria: la chimica del cibo, il valorizzare i sapori, l’abbinamento dei colori, collegati alle nobili tradizioni gastronomiche.

    Siccome questa scuola era molto distante dal mio paese, restavo ospite di un collegio locale gestito da religiosi per tutto il periodo delle lezioni. Solo durante le vacanze potevo tornare a casa e per evitare d’incontrare Rita, mi facevo assegnare stage preferibilmente all’estero.

    Ero riuscito a dare una notevole svolta alla mia vita. Pensavo che Rita si fosse volatilizzata, anche se avevo sempre un grosso vuoto al posto del cuore. Solo quando l’ebbi persa, mi resi conto quanto era importante per me.

    Cercai nuove avventure, ma c’era sempre qualcosa che non andava.

    Avevo amici in molte parti d’Italia e anche d’Europa, ero un apprendista cuoco molto viaggiatore.

    All’estero ci andavo volentieri, sia per esportare le nostre prelibatezze, che per apprendere gusti e sapori sconosciuti, tuttavia sentivo sempre più lontano il mio mondo e ricercavo il conforto negli affetti della famiglia.

    Alla mamma inviavo una cartolina da ogni posto toccato e, per espressa sua richiesta, le compravo un cucchiaino souvenir, di quelli che sul manico hanno stampato il nome della città e l’immagine di qualche monumento caratterizzante.

    In brevissimo tempo lei si trovò una collezione, di cucchiaini ricordo.

    Da far invidia!

    L’Inghilterra

    Nell’estate del ’66 diedi la disponibilità per un posto a Londra… la richiesta era per due mesi. Fui invitato da un ristorante italiano ubicato esattamente nel centro della città, a pochi passi da King’s Cross Station.

    Lo stage coincideva esattamente con lo svolgersi dei mondiali di calcio, certo con i pochi soldi che guadagnavo potevo solo immaginarmeli dalla cucina, ma almeno ne gustavo l’euforia.

    Il ristorante era di buon livello anche se manteneva l’impronta del classico pub britannico. Strideva l’ambiente tetro del locale, rispetto all’insegna tricolore sul davanti, che occupava tutto lo spazio frontale.

    Giuseppe, il proprietario, era un toscano che si era stabilito a Londra da oltre dieci anni. Beppe, come familiarmente tutti lo chiamavano, era felice che fossi lì perché il mondiale stava procurando nuovi clienti e buoni incassi.

    Durante l’esposizione al pubblico, alcuni ladri, rubarono la coppa Jules Rimet: il primo premio alla nazione vincitrice del torneo. Dopo qualche giorno, fu ritrovata grazie al fiuto di un cane poliziotto di nome Pickles, un bastardino, avvolta con un foglio di giornale e abbandonata in uno dei tanti parchi londinesi.

    Io ricordo ancora molto bene l’eccitazione di quei giorni perché il ristorante era proprio vicino al luogo dove avvenne il ritrovamento.

    L’Italia fece una pessima figura!

    Fu eliminata già nei gironi di qualificazione e non era un’Italia qualunque, quella era la Nazionale di Mazzola, Rivera, Burgnich e Facchetti.

    A causa di quella deludente prova, Beppe mi regalò il suo biglietto della finale, acquistato con la speranza di poter orgogliosamente sventolare alto il nostro tricolore. Per lui il mondiale era già finito sebbene una delle due finaliste fosse l’Inghilterra, la padrona di casa.

    Quel biglietto non aveva prezzo: avrei potuto venderlo a dieci, venti volte il suo valore originale… ma decisi che era mio!

    La seconda finalista qualificata era la regina del calcio mondiale, la Germania.

    La finalissima, Inghilterra-Germania Ovest, fu disputata il 30 luglio 1966 allo stadio Wembley di Londra davanti a centomila spettatori.

    In tutta quella massa umana c’ero anch’io, un giovane cuoco italiano di diciotto anni, indeciso se tifare per l’Inghilterra di Charlton o la Germania Ovest di Beckenbauer.

    La Finale

    La partita era ben equilibrata e proprio sul pareggio (2-2) avvenne un fatto che la rese celebre nella storia calcistica: l’attaccante inglese Hurst tirò una forte pallonata in rete che però colpì la traversa superiore, rimbalzò in basso senza entrare nella porta e il portiere tedesco prontamente la bloccò.

    Gli inglesi reclamarono il goal che non c’era.

    Niente telecamere o moviola e quindi il direttore di gara svizzero, indeciso sul da farsi, si consultò con l’assistente russo, un ex Sergente dell’Armata Rossa.

    A quanto riuscii a vedere, il guardalinee non conosceva la lingua inglese. In quel momento così decisivo, tutto lo stadio era in silenzio, si sentì un tizio urlare proprio dietro di me: «Ricordati di Stalingrado!».

    La medesima frase, questa volta ripetuta in russo, fu detta da un gruppo di persone più vicine al campo di gioco.

    Il guardalinee si voltò e fece un cenno col capo nella direzione da dove era giunto l’appello. Il riferimento era alla battaglia dei Russi contro i Tedeschi invasori, sanguinosissimo scontro della Seconda Guerra Mondiale, il cui risultato cambiò, definitivamente, le sorti del conflitto; la guerra era finita da qualche tempo, ma… questa fu l’occasione, per un semplice Sergente, di mettere ancora un po’ di sale sulla ferita aperta dell’orgoglio teutonico.

    Il goal fu confermato!

    L’Inghilterra vinse il suo primo e unico mondiale con il risultato di 4 a 2; anche se vittoriosi sul campo, restò l’amaro in bocca. Nei pub si consumarono ettolitri di birra, la bandiera con la croce di Sant’Andrea sventolava in ogni dove, ma un sottofondo di delusione indugiava in tutti.

    Tornando a casa

    Rientrando a casa dall’Inghilterra, feci una breve vacanza al mio paese. Vidi di sfuggita Rita, sempre più bella ma sempre più altezzosa. Sono sicuro che anche lei mi scorse, tuttavia non ebbi il coraggio di avvicinarmi, né lo volli.

    Come con il riccio dei castagni, mi sentivo pungere in ogni parte anche solo al pensiero di avvicinarmi.

    Gli anziani del paese mi guardavano non riconoscendomi, erano passati cinque anni e si cambia molto nell’adolescenza, finché poi il sorriso spuntava su quelle facce indurite dal tempo, Ma a lè ‘l fieul d’ Carlin (Ma è il figlio di Carlo) dicevano, identificandomi ancora come uno di loro, uno con le radici affondate in quel paese di montagna.

    Firenze

    Nel mese di ottobre l’istituto alberghiero mi propose un corso specialistico a Firenze, in quella bellissima città d’arte, patria della lingua italiana e madre del Rinascimento.

    Ebbi l’occasione di essere ospitato in una casa sul Lungarno.

    Sapevo che il padrone di casa, il dott. Massimiliano Arnaldi, lavorava alla Biblioteca Nazionale ma il rapporto con lui era molto formale; era un omaccione pensieroso, però superbamente colto: un sognatore medioevalista.

    Lo ammiravo pensando alla fortuna del suo mestiere: vivere ogni giorno immerso nei libri, nella cultura di cui era così pregna quella città.

    Il mese di novembre ‘66 iniziò con una pioggia intensa, tanto che il passaggio sul Ponte Vecchio fu chiuso, poiché pericoloso. A tutti i commercianti orafi del ponte ordinarono di svuotare i negozi, si temeva il peggio; mi raccontarono che sul quel collegamento, in tempi antichi, c’erano solo i beccai, vale a dire i macellai, perché così gli scarti che tanto appestavano i vicoli della città, erano scaricati direttamente in Arno, rendendo più igienico e meno fetido il borgo.

    Ci andavo volentieri a passeggiare su quel ponte e cercavo d’immaginarmi se al posto degli orafi ci fossero stati ancora i macellai fiorentini: il ponte stesso avrebbe mantenuto tutto il suo fascino?

    L’alluvione

    In quel novembre, la pioggia non cessava e l’Arno era sempre più minaccioso.

    Ricordo ancora molto bene quando, una sera dopo le nove, sentii squillare il telefono. Era piuttosto inconsueto e non poteva che essere un’emergenza. Il sig. Arnaldi rispose con apprensione e dopo un rapido parlottare, rimase per un attimo immobile come frastornato.

    Ripigliandosi replicava:

    «No, no… non è possibile!».

    Riagganciò e uscì in fretta e furia, dimenticando addirittura l’ombrello.

    Rientrò per riprenderlo!

    Dalla Biblioteca era stato avvertito che l’incessante pioggia aveva così tanto ingrossato l’Arno che vi era il reale pericolo d’inondazione degli interrati dell’edificio.

    Questa era la costruzione a maggior rischio, i sotterranei erano stati costruiti ben sotto al livello del fiume ed erano a rischio, manoscritti e incunaboli antichi e preziosi. Il sig. Arnaldi telefonò a casa mezz’ora dopo dicendo, alla moglie, che non sarebbe rientrato e domandò se io fossi stato disponibile ad aiutarli.

    Appena appresi la richiesta non esitai un attimo.

    Anch’io mi vestii velocemente e con un bel paio di stivali di gomma verdi che più si addicevano al look di un novello pescatore, corsi alle scale per andare alla Biblioteca.

    Uscendo dal portone, mi resi conto d’aver… dimenticato anch’io l’ombrello.

    Lavorammo fino a tarda notte per un rafforzamento d’emergenza dell’argine con sacchetti di sabbia.

    Fu tutta fatica inutile!

    Il giorno seguente la nostra diga artigianale cedette e tantissimi preziosi manoscritti sparirono per sempre, forse portati via dalla fanghiglia o forse trafugati da sciacalli che approfittarono della sciagura per impossessarsene.

    Io ero riuscito a rientrare il mattino, prima del disastro, per un breve riposo; il sig. Arnaldi volle restare di guardia alla Biblioteca.

    I ponti furono chiusi tutti. A piazzale Michelangelo, che era il punto più panoramico per questo desolante spettacolo, vi era molta gente affacciata alla balaustra; tutti con un ombrello nero aperto o con dei teli cerati posticci che aiutavano a stare al riparo dalla pioggia, la quale continuava a cadere incessantemente.

    Decisi di andare a vedere la situazione in zona Ponte Vecchio. Questo ponte, il più antico di Firenze, fu costruito in un punto in cui il corso del fiume si strozzava e in quel momento, con la piena eccezionale, la velocità e la spinta dell’acqua aumentavano vertiginosamente.

    Pensai alla targa apposta a ricordo di Gerald Wolf, rappresentante tedesco del governo nazista, che rendendosi garante, lo salvò dalla distruzione durante la ritirata tedesca nell’ultima guerra mondiale.

    Dove Hitler non riuscì, potrà l’Arno?.

    Mi domandai mentalmente.

    Tornando a casa, vidi dall’altra sponda la Biblioteca Nazionale nascosta dal fiume minaccioso che s’ingobbiva nel centro. Io immaginavo l’Arnaldi, nelle ampie sale della Biblioteca, già al lavoro nella speranza che il peggio fosse passato, ma invece doveva ancora venire…

    L’Arno allagò la città!

    I danni alle opere d’arte, con il rifluire delle acque, apparvero subito gravi.

    Il nero della nafta del riscaldamento domestico, fuoriuscito dai serbatoi pieni per il prossimo inverno, segnò sui muri il punto esatto a cui arrivarono le acque che col defluire ricoprì tutto.

    Gli Angeli del Fango

    Giunsero aiuti e solidarietà, una grande mobilitazione vide, in prima linea, giovani accorrere da tutte le parti del mondo, venire a Firenze per dare una mano per spalare il fango, tentare di salvare quel che restava del patrimonio artistico della città più bella al mondo.

    Io stesso mi resi disponibile per un servizio di primo intervento per il recupero dei libri danneggiati dall’alluvione.

    Seguirono le polemiche con l’arrivo dei politici in visita ufficiale con scorte militari e auto di Stato.

    Non bisognava perdere tempo, neppure per la visita del Presidente, ma le ragioni della sicurezza prevalsero e si sprecarono ore preziose.

    Oltre ai danni materiali e a quelli alle opere d’arte rovinate, la morte funestò, ancor di più, la tragedia. Furono trentaquattro le vittime, di cui la metà a Firenze e il restante nei comuni della provincia.

    Il momento difficile non fece però mancare ai fiorentini il senso innato di derisione delle avversità. Con l’avvicinarsi del Natale, si videro tanti alberi addobbati con i residuati dell’alluvione.

    Sul Ponte Vecchio, vi era l’abitudine di mettere, il giorno dell’Epifania, una calza anche per l’Arno che quell’anno fu riempita di carbone, perché il fiume era stato molto cattivo.

    Nei ristoranti inondati dal fango, i proprietari appesero

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