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Tradizioni e Speranze: Anime brulicanti vol. 3
Tradizioni e Speranze: Anime brulicanti vol. 3
Tradizioni e Speranze: Anime brulicanti vol. 3
E-book234 pagine3 ore

Tradizioni e Speranze: Anime brulicanti vol. 3

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Info su questo ebook

“Tradizione e speranze”, l’ultimo volume della trilogia “Anime brulicanti”, raccoglie i tre racconti: Il pastore e il contadino, La Madonna della Bruna, L’esodo. Ne Il pastore e il contadino Michele, contadino di mezza età, ha stretto una forte amicizia con il giovane pastore Giuseppe che vuole imparare a leggere e a scrivere per allontanarsi dal patrigno ubriaco e manesco. Ne La Madonna della Bruna Giovannino, pur di essere “cavaliere per un giorno” nella sfilata trionfale del 2 luglio a Matera, accetterà di lavorare senza un soldo per un becero uomo d’affari. Ne L’esodo il vecchio Paolo, vedovo, è costretto a convivere con suo figlio Tonino per non rimanere solo e al contempo non far contrarre debito alla giovane famiglia appena formatasi. Ma con la Legge suil risanamento dei Sassi tutto cambierà.
Anime brulicanti è una trilogia di racconti ambientati nella Matera degli anni ’50. Nove storie, tre per ogni volume, che narrano di emancipazione, della lotta tra il cuore e la ragione, dei valori di una cultura contadina che sa riscattare storie di miseria economica e umana.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2019
ISBN9788869600289
Tradizioni e Speranze: Anime brulicanti vol. 3

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    Anteprima del libro

    Tradizioni e Speranze - Franscesco Sciannarella

    www.altrimediaedizioni.com

    facebook.com/altrimediaedizioni

    @Altrimediaediz

    Copertina: Enzo Epifania

    AltrimediaADV/Diótimagroup

    Titolo dell’opera:

    Tradizioni e Speranze

    © 2018 by Francesco Sciannarella

    ISBN: 9788869600289

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    www.altrimediaedizioni.com

    Prima edizione digitale: 2019

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    FRANCESCO

    SCIANNARELLA

    TRADIZIONI

    E SPERANZE

    ANIME BRULICANTI #3

    A mia moglie Maria Grazia,

    ai miei figli, Giuseppe e Alessio

    A mio padre e a mia madre,

    esempi di vita

    PRESENTAZIONE

    Francesco Sciannarella è un grande amico. È stata così una piacevole sorpresa la richiesta di presentare la sua ultima opera. Non ci conosciamo da tanti anni e per la verità ci frequentiamo poco. Ma tra noi due è subito nata un’intesa spontanea e profonda, che cresce e si rinsalda di anno in anno.

    Le chiamano affinità elettive. Sì, io e Francesco condividiamo gli stessi valori: famiglia, amicizia, solidarietà. E le stesse passioni per la lettura, la scrittura e soprattutto per la nostra terra, Matera… i Sassi. Che però per la nostra età - non più verdissima ma nemmeno così avanzata - non abbiamo vissuto nella loro autentica condizione, l’unica: non un grande museo a cielo aperto né tanto meno una zona di residenza pseudo-elitaria. Ma un luogo di vita vissuta, con una cultura millenaria e una storia ricca per quanto apparentemente anonima.

    No, noi non siamo stati anime brulicanti. Ma lo sono stati i nostri genitori e i nostri nonni. E dai loro racconti e da quelli di tanti altri, così come dalla lettura di numerosi testi, Francesco ha acquisito una conoscenza così ampia e approfondita da poterne scrivere in prima persona. E quelle pietre ne hanno di storie da raccontare. E lui da anni ce ne racconta tante. Prima scrivendo e sceneggiando le commedie in vernacolo della compagnia Sipario di cui è stato anche brillante attore; poi trasponendo una di quelle opere (U’ Vic’nònz) nel suo lavoro d’esordio Nel cuore dei Sassi, pubblicato a febbraio del 2012; ora infine con questa trilogia, Anime brulicanti.

    Potrebbe sembrare un nuovo genere letterario, in realtà è l’unico modo per definire un lavoro che presenta gli aspetti tipici del romanzo pur articolandosi in nove racconti distinti. I cui eventi e personaggi però, s’intrecciano magicamente sullo sfondo di ambientazioni comuni, quasi sempre lo stesso: il vicinato grande di via Fiorentini, nel cuore del Sasso Barisano, tanto caro all’autore che da sempre l’ha eletto a teatro delle sue storie. È soprattutto lì che brulicano i personaggi del romanzo. Che in realtà sono persone, assolutamente (vero)simili alle migliaia che hanno dato un’anima ai Sassi, la loro. In quegli spazi, sapientemente modellati nei secoli dall’uomo nella roccia, pulsano vite apparentemente anonime, ma in realtà straordinarie perché cariche dei valori fondamentali dell’umanità, che i Sassi hanno preservato intatti fino all’inopinato ma forse inevitabile esodo.

    Erano gli anni ’50, l’altro ieri, momento cruciale per la storia degli Antichi Rioni e di tutta la città di Matera. Non a caso i racconti sono ambientati nel primo anno di quel decennio. Storie malinconiche ma tutte a lieto fine, con la voglia di riscatto che supera ogni avversità e alimenta la speranza. In queste microstorie è racchiusa la Storia millenaria della città e del suo popolo, mirabilmente simboleggiati dal bue del suo stemma che affonda la zampa più forte proprio quando sembra sul punto di capitolare.

    Un libro che appassiona e commuove insomma, ma che strappa anche qualche sorriso, grazie a un geniale stratagemma letterario concepito dalla mente brillante di Francesco Sciannarella: la postfazione. Ogni racconto infatti è seguito da una sorta di sinossi sotto forma di dialogo scanzonato tra Peppino e Tonino, due arzilli novantenni ospiti della casa di riposo Brancaccio di Matera, che sembrano quasi assistere da spettatori alle vicende per poi commentarle con bonaria ironia, ma in realtà le rievocano per averle vissute di persona, anche loro da anime brulicanti. Per chi era bambino negli anni ’70 ricordano un po’ Statler e Waldorf, i due vecchietti criticoni del Muppet Show che avevano sempre l’ultima parola, con un commento finale al termine di ogni episodio. E a loro inevitabilmente spetta anche la chiosa: Non fa male ricordare ‘ste cose ogni tanto – dice Tonino - eeeeh... quante ne abbiamo passate in quelle case nei Sassi... eravamo come dei vermi che brulicavano nella terra!. Beh... io invece penso che non eravamo vermi – replica Peppino - eravamo persone che, pure se vivevano male, avevano un’anima come tutti i cristiani di questo mondo che non vivevano sottoterra.

    Già, proprio così.

    Luigi Mazzoccoli

    IL PASTORE E IL CONTADINO

    Matera, novembre 1950

    Michele voleva bene a quel ragazzo silenzioso e sfortunato. Trascorrevano insieme solo il tempo del viaggio per tornare a casa, una volta a settimana, ma aveva imparato a volergli bene. Giuseppe, a modo suo, sapeva ricambiare.

    Michele, dopo una giornata di lavoro nei campi, alla soglia dei cinquant’anni si sentiva come se fosse stato travolto da un treno. Le ossa e i muscoli erano un tutt’uno di dolore, ma ci aveva fatto l’abitudine. La convivenza pacifica con essi era il prezzo da pagare per chi, come lui, doveva lavorare per portare il pane a casa, senza alcun aiuto. Giuseppe, invece, era forte della sua giovane età, aveva poco meno di vent’anni ma era un uomo bello e fatto. Il suo corpo era stato già forgiato dal lavoro e dalla fatica, aveva spalle ampie e forti come quelle di un toro. Il suo lavoro di pastore, iniziato quando aveva poco più di sei anni, se da un lato lo aveva plasmato nel corpo, dall’altro lo aveva deformato nello spirito. La solitudine lo stava logorando poco alla volta. Giuseppe era schivo e silenzioso. C’erano stati giorni in cui per tutto il percorso non aveva proferito parola. A Michele però la cosa non dispiaceva, in fondo era sempre una compagnia. L’atteggiamento schivo di quel giovane era la conseguenza delle lunghissime giornate trascorse con le pecore. Ore di silenzio, di solitudine e belati. Non era solo la sua vita da eremita il problema: c’era anche il padre, un uomo burbero e violento. A pagarne tributo erano le spalle di sua moglie o il povero Giuseppe. Per il vecchio, suo figlio era un incapace ed era buono solo per fare il pastore, urlava.

    Michele conosceva bene Pasquale, il padre del suo giovane amico. Erano stati ragazzi insieme, per il resto non c’era altro che li accomunava. Questi, a quei tempi, viveva agiatamente alle spalle del padre, proprietario di una cantina, l’unica dell’epoca, lavorando quando ne aveva voglia. Tutto e tutti avevano lasciato correre, fino a quando il fratello minore di Pasquale, Alfonso, era cresciuto abbastanza per capire quanto l’altro fosse lavativo. Quello era stato il seme dell’odio tra i due. Michele ricordava perfettamente le liti davanti la cantina di don Peppe, si picchiavano senza pietà fino a quando qualcuno non interveniva per dividerli. Con molta probabilità i due avrebbero finito per ammazzarsi, se non fosse scoppiata la guerra. E come sempre, la guerra non è mai giusta. Alfonso era stato chiamato a indossare la divisa. Pasquale, per motivi di età, se l’era scampata e avendo nuovamente campo libero aveva ripreso a farsi i fatti suoi. Il vecchio genitore, stanco e consumato dal timore di perdere suo figlio al fronte, lasciò fare.

    Il tempo passava e di Alfonso non giungevano notizie dai campi di battaglia. E intanto, per il povero don Peppe, i giorni divennero mesi e i mesi anni. Tutto aveva perso significato.

    Pasquale divenne in poco tempo il vero gestore dell’attività, con risultati disastrosi. Ma nessuno ormai gli era d’intralcio. La guerra aveva reso la sua indole ancora più cattiva e aveva saputo sfruttare nuovamente a suo favore il corso degli eventi. Per sopperire al quotidiano scarseggiare di clienti, ridotti ormai alla fame, si era dato al contrabbando, senza mai però metterci la faccia, era una sorta di intermediario. Prendeva in consegna tutta la merce comprata illegalmente e la teneva in custodia per gli acquirenti, già designati. La furbizia di Pasquale stava nel dislocare la merce ogni volta in punti diversi e sempre sconosciuti a venditori e acquirenti. Chi gli portava la merce lo faceva in un posto, chi la ritirava lo faceva in un altro. Con quel sistema aveva evitato i controlli della milizia fascista, dei delatori e dei ruffiani del Littorio. Questo, come tutto, aveva un prezzo, una percentuale in natura. E così si era salvato dalla miseria in cui stava iniziando a cadere a causa della sua infima gestione della cantina.

    La guerra volgeva al termine e la vacca grassa di Pasquale stava per passare a miglior vita. Ma quello non era stato l’unico cambiamento all’orizzonte della sua vita. Michele ricordava perfettamente quando, alla dichiarazione dell’armistizio, Matera aveva iniziato a svegliarsi dal torpore dell’oppressione fascista prima e nazista dopo. E fu proprio in quei giorni che Alfonso ritornò a casa, dopo essere scappato dalla caserma dov’era di stanza. Scappò in tutta fretta, aveva in dosso la divisa come molti. Il giovane, ormai dato per morto, giunse alle porte di Matera il 20 settembre del 1943. Purtroppo gli era impossibile rientrare in città, i tedeschi avevano messo posti di blocco ovunque e arrestavano chiunque fermassero, senza un apparente motivo se non un odio improvviso e spietato verso gli italiani traditori. A questa sorta di piccolo rastrellamento non scampavano nemmeno i civili, chi veniva tratto in arresto era condotto nel Palazzo della Milizia fascista, sede dei tedeschi.

    Alfonso, tramite un contadino, fece giungere notizia a don Peppe di essere bloccato alle porte di Matera. Il povero vecchio, essendo ormai quasi impossibilitato a camminare, pregò suo figlio maggiore di andare ad aiutare il fratello. Doveva raggiungerlo e portargli abiti civili. Alfonso doveva liberarsi del fardello della divisa se voleva rientrare a Matera sano e salvo battendo strade sconosciute ai nemici tedeschi. Pasquale, con spirito amorevole, si arrischiò nel tentativo di salvare il fratello. Quello che però a tutti apparve come un gesto d’amore, in realtà non si rivelò tale, anche se nessuno ne ebbe mai prove certe.

    Il resto della vicenda era ancora avvolta da zone d’ombra e fatti controversi, mai chiariti, da Pasquale in primis.

    «Giuseppe» disse Michele tirando le redini e facendo arrestare il carretto «siamo arrivati anche oggi!».

    Il ragazzo, come d’uopo, non batté ciglio e si mosse con i suoi modi lenti ma decisi, senza commentare. Giuseppe viveva nei pressi di Porta Pistola, Michele in fondo a via Fiorentini. Nonostante non fosse di strada, per lui non era un problema.

    Giuseppe si ritrovò con i piedi per terra. Prese la sacca e se la passò a tracolla. Poi lo fissò con il suo sguardo spento.

    «Grazie Michele!».

    Michele sorrise. Giuseppe era uno dei pochi, probabilmente in tutta Matera, a non anteporre nessun compare, oppure don, persino la parola signore ai nomi di persona, senza distinzione di età. Con molta probabilità erano parole non presenti nel suo vocabolario.

    «Ma quale grazie uagliò» gli rispose Michele con un accenno di sorriso «dopodomani ti aspetto qui… e mi raccomando puntuale, va bene?».

    Giuseppe si limitò a fare un cenno di assenso con la testa. Poi si voltò e si incamminò verso casa. Michele rimase a guardare le sue spalle, fino a che non iniziò a salire i gradini che portavano a casa sua, per poi scomparire dietro una curva. Michele fece schioccare il cuoio delle redini sul dorso del mulo ed emise un verso che il quadrupede riconobbe. Il carretto si rimise in movimento e Michele dedicò lo sguardo alla strada.

    «Povero ragazzo» disse tra sé e sé «quando torna a casa è più triste di quando se ne va».

    Poi lasciò che il mulo lo portasse a casa. Martino conosceva la strada.

    Giuseppe camminava a capo chino verso casa. Stava salendo le scale, ma sentiva ancora il carretto del buon amico Michele sferragliare per invertire la marcia e fare tappa alla propria dimora. Voleva bene a quell’uomo molto più di quanto ne volesse a suo padre o meglio, era più giusto dire, patrigno. Spesso, nelle lunghe giornate di solitudine sotto un albero a fissare l’orizzonte, pensava che se suo padre fosse stato come Michele sarebbe stato felice. Lui lo rispettava, lo trattava come una persona, non come una bestia. Quando parlava lo ascoltava e viceversa. Giuseppe stava bene in sua compagnia e il giorno in cui tornava a casa, al sabato pomeriggio, aspettava con ansia quell’ora che avrebbero trascorso assieme. Per lui, tornare a casa non voleva dire trovare un po’ di felicità e serenità ma piuttosto il contrario.

    Giuseppe aveva fatto sempre e solo il pastore in vita sua, dopo aver frequentato la prima elementare. Poi, sua madre gli aveva detto che non poteva più andare scuola, non se lo potevano permettere. Doveva imparare un mestiere e portare a casa qualcosa per aiutarli con le scarne finanze. Un padre non c’era, non l’aveva mai conosciuto, di lui c’era solo un ricordo sbiadito in una foto altrettanto sbiadita appesa al muro, con la divisa da militare. Sua madre gli aveva sempre raccontato che era tornato malato dall’Abissinia per poi morire quando Giuseppe aveva pochi anni. Quella morte prematura avrebbe pesato anche sulla sua vita, ma all’epoca non poteva saperlo. Sua madre aveva poi sposato quell’essere infame che era costretto a chiamare padre. Costui era padrone della cantina appartenuta a suo nonno e lì dentro aveva appreso l’arte del bere. Era un uomo cattivo. Non aveva altro modo di comunicare se non con le botte. Lo picchiava da sempre e spesso senza un’apparente ragione. Era sempre ubriaco e, quando tornava barcollando dalla cantina, tutto lo mandava in bestia. Ed erano schiaffi e pugni. Giuseppe, da ragazzino, si dava alla fuga, era bravo e veloce, spesso la scampava. Bighellonava per strada fino al tramonto e quando rincasava, suo padre russava sul letto. Purtroppo, però, le botte che non era riuscito a dare a lui le dava alla madre, i segni sul volto della donna lo testimoniavano.

    Con il passare degli anni la sua vita da eremita lo aveva allontanato dal problema, anche se il problema in sé non era scomparso. Giuseppe non aveva né fratelli né sorelle. A volte pensava fosse uno dei pochi segnali della bontà divina che la sua famiglia avesse ricevuto.

    «Dio mi ha mandato solo a te» disse una volta sua madre. E il volto le si era incupito di colpo: «Ringraziando il Signore!».

    Col passare degli anni, l’unico cambiamento in quella sciagurata situazione familiare era stato nel suo corpo. Il lavoro alla masseria di don Paolo era faticoso. Non si trattava solo di portare pecore e capre al pascolo, ma anche di caricare le balle di paglia, mungere le bestie, trasportare il latte, gli animali in spalla e mille altre cose. Il suo fisico era diventato quello di un toro e aveva imparato a tenere testa a suo padre, per salvare la vita di sua madre.

    «Con la salute che tieni» gli aveva detto una volta Marcuccio, il responsabile di don Paolo «puoi rompere le corna pure a un bue!».

    Giuseppe aveva guardato quell’uomo anziano ma ancora vigoroso e gli aveva accennato un sorriso. Marcuccio non aveva aggiunto altro.

    Così, piano piano, con il passare dei mesi e degli anni, la paura per suo padre era andata scemando, fino a scomparire del tutto. Marcuccio aveva voluto metterlo spesso in guardia dai rischi che si correva nell’essere troppo sfrontati e impavidi.

    «Spesso in carcere ci finisce gente che ha ucciso solo per difendersi» gli aveva detto una volta quel brav’uomo mentre mungevano le capre e fuori diluviava. Giuseppe aveva afferrato il messaggio del suo compagno di lavoro. Non poteva permettersi di finire in galera e lasciare sua madre sola. Quindi doveva cercare di non spingersi mai oltre. Giuseppe era arrivato davanti la porta di casa quando un grido di dolore dall’interno lo fece destare dal torpore dei suoi ricordi. Era la voce di sua madre. Senza indugi lasciò la sacca sull’uscio, ed entrò a passo spedito.

    Sua madre era per terra, rannicchiata per cercare di attutire i colpi che riceveva a pugno chiuso da suo marito.

    «Tu non servi a niente!» le stava urlando lui con la voce impastata «se non c’ero io che ti prendevo da in mezzo a una strada, nessuno ti salvava a te!».

    E colpiva.

    «Basta!» urlò sua madre «per piacere basta!».

    Prima che l’uomo potesse dire altro, Giuseppe gli fu addosso. Nessuno si era accorto del suo arrivo. Come un felino scattò e afferrò suo padre per il polso, impedendogli di muovere ancora il braccio e colpire. Giuseppe vide un lampo di paura negli occhi di quell’uomo cattivo, lui sentiva dentro una rabbia infinita. Lo prese per il bavero e lo spinse con tale forza da farlo cadere indietro di alcuni metri. Giuseppe era immobile e lo stava fissando. Cercava di non far salire al cervello la sua furia: sarebbe stata la fine per entrambi - suo padre in una cassa da morto, lui in carcere.

    «Tuo padre è uscito pazzo» disse sua madre al limite delle lacrime «vattene figlio mio, prima che ti ammazza!».

    Giuseppe non mosse un muscolo. Il suo sguardo era fisso su quell’essere che odiava, ma che non poteva uccidere. Lo guardava mentre si sforzava di rimettersi in piedi, con estrema difficoltà, cercando un appiglio.

    «Brutto asino» gli ringhiò con la voce roca «come ti permetti di toccarmi?».

    E non appena si ristabilì sulle gambe, in un equilibrio piuttosto precario, caricò come un toro. Giuseppe sentì sua madre accovacciarsi dietro di lui, d’istinto si girò verso di lei e l’avvolse con il suo corpo. Quando i colpi arrivarono, assieme alle infinite bestemmie di sempre, sua madre era completamente protetta. Lui non sentiva dolore ormai.

    Michele era quasi arrivato a casa. Accompagnare il ragazzo gli faceva piacere. Quando gli era stato chiesto di dargli un passaggio fin sotto la masseria di don Paolo, Michele era stato un po’ restio, ma il suo amico Marcuccio aveva insistito.

    «Michele, Giuseppe è un bravo ragazzo» gli aveva detto un giorno camminando verso il piano appaiati «prima arriva a

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