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I grandi condottieri che hanno cambiato la storia
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I grandi condottieri che hanno cambiato la storia
E-book1.056 pagine9 ore

I grandi condottieri che hanno cambiato la storia

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Info su questo ebook

Le imprese militari di cento straordinari generali

Cento uomini che si sono elevati al di sopra della massa in forza del loro coraggio, della loro ambizione, della determinazione e della mancanza di scrupoli, per conseguire obiettivi come la conquista o la salvezza di un impero, l’indipendenza del proprio Paese, o il semplice ricordo dei posteri. Andrea Frediani passa in rassegna in modo esauriente e accurato cento personaggi, di ogni epoca e di ogni continente, in Oriente e in Occidente, che hanno fatto la storia dell’umanità con le loro gesta militari: dal primo conquistatore di cui si abbia notizia, Sargon di Akkad, ai grandi comandanti della seconda guerra mondiale, passando per faraoni, imperatori romani, condottieri medievali, capitani di ventura rinascimentali, samurai, nomadi delle steppe asiatiche, ammiragli, leader tribali, capi indiani, generali e sovrani dell’età moderna, con un’appendice sui condottieri contemporanei. Di ciascuno di essi, l’autore racconta la carriera e le campagne, aggiungendo una valutazione sulle capacità tattiche, strategiche, logistiche e di leadership, una descrizione della battaglia più celebre, una sintetica bibliografia e una cartina con lo scacchiere operativo.



Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica; Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; Le grandi battaglie del Medioevo; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto inoltre i libri 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano e 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, e i romanzi storici 300 guerrieri; Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011), Marathon e La dinastia. Le sue opere sono state tradotte in cinque lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854144088
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    Anteprima del libro

    I grandi condottieri che hanno cambiato la storia - Andrea Frediani

    22

    Prima edizione ebook: giugno 2012

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4408-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Alfredo Frediani

    I grandi condottieri che hanno cambiato la storia

    Le imprese militari di cento straordinari generali

    A. Livia

    RINGRAZIAMENTI

    Ringrazio la libreria Annales per avermi permesso di risolvere molti dubbi dell’ultim’ora, ospitandomi giornalmente tra i suoi scaffali, e in particolare Vittorio Lucchetti, per il consueto supporto grafico alle mappe. Quelle che ho realizzato personalmente sono contrassegnate con un asterisco. A tale proposito, desidero ringraziare anche Corpotre per l’enorme mole di lavoro che si è sobbarcata per la realizzazione delle cartine, e in particolare Anna Quaresima, che si è assunta per intero l’ingrato onere.

    Introduzione

    Questa non è un’introduzione: è un’autodifesa.

    Quando l’editore mi ha proposto di scrivere un libro sui cento condottieri più grandi della Storia, ho accolto la proposta con immenso entusiasmo; nello stesso tempo, però, mi sono reso immediatamente conto che la vera difficoltà non risiedeva tanto nel raccontare le gesta e descrivere le caratteristiche di questi straordinari personaggi, quanto nella scelta dei protagonisti da inserire nell’opera.

    In linea di massima, e schematizzando all’eccesso, vi sono una cinquantina di personaggi sulla cui presenza in un libro del genere nessuno potrebbe obiettare: condottieri di successo talmente famosi da superare qualsiasi categorizzazione o considerazione di merito. Chi mai, infatti, potrebbe avere dubbi sulla legittimità di una scelta che preveda individui che hanno fatto la storia del mondo, come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Gengis Khan, Napoleone? Nessuna rassegna di questo genere, sia essa redatta da un europeo, da un americano o da un giapponese, potrebbe mai prescindere da simili protagonisti.

    Poi, però, esiste almeno un centinaio di altri personaggi, di secondo piano, ma di levatura più o meno simile. Quale criterio adottare per sceglierne solo una cinquantina? Chiunque si prenda la briga di consultare una decina di pubblicazioni – ammesso che esistano – che raccolgano le biografie di cento condottieri, riscontrerà dieci elenchi diversi, ciascuno frutto delle personali convinzioni, delle conoscenze e degli orientamenti dell’autore: perfino la scelta dell’addetto ai lavori per eccellenza, Napoleone, che individuò in Alessandro Magno, Annibale, Giulio Cesare, Gustavo Adolfo, Turenne, Eugenio di Savoia e Federico ii di Prussia i sette più grandi condottieri della Storia, appare soggettiva e opinabile.

    Alle Olimpiadi, per esempio, per dare a tutti i paesi la possibilità di competere, concorrono anche atleti di scarsa rilevanza, a scapito di atleti ben più forti, ma con la strada preclusa da un tetto massimo di partecipanti per nazione; parimenti, una rassegna del genere deve offrire una panoramica quanto più possibile allargata a settori del globo che l’europeo trova meno familiari.

    Sotto questo aspetto, l’autore italiano deve temere l’insidia rappresentata dai tanti capitani di ventura di fine Medioevo e del Rinascimento, i vari Braccio da Montone, Giovanni dalle Bande Nere, Muzio Attendolo Sforza, Bartolomeo Colleoni e tanti altri che, per gli italiani, rappresentano un patrimonio storico consistente, ma che nella storia dell’umanità non hanno svolto che un ruolo prettamente locale.

    L’equilibrio, poi, non può essere solo geografico, ma anche temporale: lo storico antico non deve cedere alla tentazione di aumentare la percentuale di protagonisti dell’evo antico, a scapito di altre epoche, né il medievalista infarcire l’opera di condottieri medievali; lo studioso di storia moderna, da parte sua, è in una posizione ancor più pericolosa, poiché la ricca messe di dati e notizie a sua disposizione sui generali dal xvii secolo in poi sarebbe un ottimo pretesto per accantonare i condottieri più lontani nel tempo, le cui gesta conosciamo in maniera molto più superficiale.

    Quest’ultima considerazione pone anche un altro problema di equilibri. Nell’intero arco della storia della guerra, un re ittita o assiro ha compiuto imprese di rilievo anche superiori a quelle di un grande generale europeo del ’700; eppure, del sovrano mediorientale vissuto oltre 3000 anni fa conosciamo a malapena la destinazione delle principali campagne: spesso ne ignoriamo la data e la sequenza, per non parlare dei principali scontri campali o degli assedi. Del generale più vicino a noi, invece, possediamo una mole di fonti tale da poter descrivere, volendo, la gran parte dei particolari di ogni sua impresa. Tuttavia, in una rassegna del genere tutti devono avere lo stesso spazio e, tutt’al più, una qualche deroga la si può ammettere per i più grandi conquistatori e generali, la cui carriera è talmente ricca da non potersi equiparare a quella di un pur insigne comandante di secondo piano.

    Pertanto, personaggi come i già citati Giulio Cesare, Alessandro Magno, Napoleone, Gengis Khan, ma anche condottieri di primo piano come Gustavo Adolfo, Federico ii di Prussia, Eugenio di Savoia, Marlborough, Wellington, Li Shimin, Carlo Magno e pochi altri, devono necessariamente fruire di uno spazio maggiore rispetto ai pur geniali Turenne, Tilly, Patton, Saladino, Traiano, il Principe Nero o Ramses ii.

    Ma anche a voler ricercare un equilibrio per una rassegna quanto più possibile omogenea, rimane da stabilire un criterio uniforme da adottare per scegliere i più bravi. Scorrendo il testo, l’appassionato della Seconda Guerra Mondiale potrebbe chiedersi come mai ho scelto Rommel, e non Guderian o von Manstein, o Zˇukov invece di Rokossovsky; gli studiosi di storia assira – sebbene non credo che abbondino – potrebbero biasimare la presenza di Assurbanipal ii in luogo dei vari Tiglat-Pileser, Nabucodonosor, Salmanassar iii, Esaraddon o Sennacherib (confesso che, in un popolo bellicoso come quello assiro, la scelta mi è costata molte giornate di riflessione!).

    E ancora: chi ama la storia vichinga potrebbe rimanere perplesso di fronte ad Harald Hardrada, reclamando piuttosto l’inserimento di Olaf Tryggvason o di Canuto il Grande; chi segue la storia romana potrebbe chiedersi perché ho inserito Caio Mario e non il suo avversario Silla, o perché, tra i nemici dell’Urbe, ho raccontato le vicende, tra gli altri, di Annibale, Genserico, Spartaco, e non di Vercingetorige o Mitridate; i bizantinisti potrebbero volere Niceforo Foca invece di Basilio ii, gli islamisti Khalil in luogo di Baibars; i profondi conoscitori di storia dell’India si chiederanno perché Mahmud di Ghazna e non Mohammad di Ghor; chi segue la storia degli indiani d’America forse biasimerà l’assenza di Toro Seduto, Tecumseh, Capo Giuseppe o Nuvola Rossa, che ho trascurato in favore di Cochise, Geronimo e Cavallo Pazzo; chi si intende di Guerra Civile Americana probabilmente avrebbe voluto leggere le biografie di Sherman o di Stonewall Jackson, oltre a quelle, imprescindibili, di Grant e Lee; alcuni amanti di storia greca lamenteranno l’assenza di Milziade e si stupiranno della presenza di Cimone, quelli di storia giapponese si chiederanno perché ho inserito tre condottieri coevi e non Minamoto Yoritomo o Takeda Shingen, gli appassionati di storia rinascimentale noteranno la presenza del Córdoba e non quella di Giovanni d’Austria, del duca d’Alba o di Alessandro Farnese. Tra i condottieri contemporanei, poi, qualcuno potrebbe scandalizzarsi dell’assenza di Schwarzkopf e della presenza di Sharon.

    Il criterio, dunque. Quello che ho adottato io prevede la scelta dei personaggi-icona, dei condottieri più rappresentativi per il grande pubblico: per questo, non Guderian ma Rommel, ben più impresso del collega nell’immaginario collettivo; oppure, i più importanti a giudizio del proprio paese o della propria epoca: per questo, Cimone, considerato dai greci il loro più grande condottiero insieme a Epaminonda, e non suo padre Milziade, noto al grande pubblico solo per il suo ruolo a Maratona, peraltro mai completamente chiarito; e, sempre per questo motivo, ho voluto inserire il Principe Nero, che tutto sommato non ha combinato granché, ma che i contemporanei consideravano il più grande guerriero della Cristianità.

    Considerata sotto questo aspetto, apparirà meno inspiegabile un’assenza eccellente come quella di Federico Barbarossa, che i contemporanei vedevano più come un tiranno che come un grande condottiero e che, tutto sommato, conosciamo più per i suoi fallimenti che per i successi. Che invece sia presente un personaggio proverbialmente noto per le sue vittorie inconcludenti, come Pirro, si deve al fatto che i grandi generali, come Scipione e Annibale, vissuti dopo di lui, lo consideravano il più grande di tutti dopo Alessandro Magno: e ciò significa che, forse, sapevano del condottiero epirota cose di cui noi non siamo a conoscenza.

    Una scelta per la quale provo un certo imbarazzo è quella legata a William Wallace, i cui meriti nel conseguimento dell’indipendenza scozzese i suoi stessi conterranei reputano inferiori a quelli di Robert Bruce. Sono pienamente consapevole che lo spessore storico del vincitore di Bannockburn è superiore a quello dell’artefice della vittoria di Stirling Bridge, e confesso di aver optato per Wallace solo perché su di lui hanno fatto un film di successo, e molti, ritengo, vorranno conoscerne la storia vera: non me ne vogliano i conoscitori del settore. Ho anche deciso di escludere scacchieri operativi di acclarata rinomanza, come ad esempio le guerre coloniali, quella delle Due Rose, la Cina dei Ming, la Persia moderna, perché non ho ritenuto che abbiano espresso condottieri di livello assoluto.

    Per quanto riguarda gli italiani, poi, ho individuato quelli che hanno assunto una maggiore notorietà internazionale, con una carriera su molteplici scenari e al servizio di committenti reali o imperiali, come Andrea Doria, Montecuccoli e Garibaldi, piuttosto che i capitani di ventura al servizio di questo o quel Comune o signore in contese, tutto sommato, di carattere meramente regionale.

    La necessità di fornire notizie concrete e affidabili mi ha portato, dopo lunghe riflessioni, a escludere i condottieri sulle cui gesta aleggia una componente mitica troppo rilevante. Ciò mi ha costretto a escludere personaggi semileggendari come Romolo, Artù, Brian Boru o Chuchulainn, nonché quelli biblici, che pure costituiscono, nell’immaginario collettivo, l’essenza stessa della figura del condottiero; ho creduto opportuno fare eccezione per Furio Camillo e per el Cid (la cui esistenza, fino a pochi decenni fa, era stata messa in dubbio), perché le notizie credibili su di essi sono sufficienti a imbastire un racconto compiuto e un’analisi sufficientemente obiettiva.

    Inoltre, intendevo inserire anche qualche condottiero in gonnella (no, lo scozzese Wallace non c’entra...). Le donne più rappresentative, tra le tante, mi sono sembrate l’imprescindibile Giovanna d’Arco, prototipo del leader a un tempo militare e spirituale, e Budicca, la regina celta che simboleggia e impersona, come pochi altri, la resistenza all’oppressione romana nella sua forma meno edificante. Se una qualche esponente del gentil sesso lamenterà l’assenza di personaggi come Artemisia, Zenobia, Cartimandua o Aethelflaed, e comunque la scarsa presenza dell’elemento femminile in questa rassegna, risponderò che la storia militare, almeno fino al xx secolo, l’hanno fatta i maschietti; e questa, credo, in un’epoca di totale revisionismo e di mancanza di certezze assolute, è forse una delle poche asserzioni incontrovertibili che si possano fare senza alcun timore di smentita...

    Insomma, ho fatto cadere la mia scelta su nomi di cui tutti abbiano sentito almeno parlare, personaggi che la nostra società ha eletto a modello di condottieri, generali, ammiragli, conquistatori, guerriglieri, avventurieri, ma di cui gesta e carriera, tutto sommato, sono poco note. Personaggi, comunque, la cui opera ha determinato dei significativi cambiamenti di rotta almeno temporanei, ma più spesso definitivi, nella storia dell’umanità.

    C’è comunque un tratto comune che lega tutti costoro, siano essi pellerossa o samurai, antichi romani o generali asburgici, guerrieri zulu o faraoni, vichinghi o nomadi delle steppe eurasiatiche, sultani turchi o sovrani barbarici, ammiragli britannici o capitani di ventura, semplici guerriglieri o grandi conquistatori: lo straordinario coraggio e uno sprezzo del pericolo quasi incomprensibile per la gente comune. Che si trattasse di individui geniali o solo tremendamente spregiudicati, di personaggi animati da un sincero zelo religioso o da una rivoltante mancanza di scrupoli, questa è gente che si è guadagnata un posto di rilievo nella Storia esponendosi a rischi maggiori degli altri, al limite dell’incoscienza e spesso anche oltre. Fin dall’inizio della loro carriera, tutti i protagonisti di questo volume hanno combattuto in prima fila negli scontri campali, hanno condiviso con la truppa le più tremende fatiche e privazioni nel corso delle campagne, hanno promosso, concepito e messo in atto azioni decisive guadagnandosi le più alte onorificenze e la possibilità di scalare rapidamente le gerarchie militari – e, non di rado, anche quelle civili.

    Al racconto delle loro vicende, che ho redatto nella prima sezione di ciascuna biografia cercando di far luce sui punti più oscuri della loro esistenza, ovvero il periodo precedente il conseguimento della fama, ho aggiunto, per quanto possibile, una valutazione delle capacità tattiche, strategiche, di leadership, logistiche e organizzative, che costituisce la seconda sezione. Ho poi dedicato la terza sezione alla narrazione di una battaglia, solitamente la più celebre combattuta dal protagonista, e ho concluso con delle sommarie indicazioni bibliografiche sul personaggio.

    Il libro termina con due appendici – oltre a una terza, con la filmografia sui grandi condottieri –, la prima delle quali relativa ai maggiori condottieri contemporanei, ovvero quelli distintisi dopo la Seconda Guerra Mondiale – che mi ero posto come limite cronologico della rassegna. L’altra ha come protagonisti alcuni condottieri che, probabilmente, non meritavano di essere inseriti nella rassegna ufficiale, ma che mi dispiaceva lasciare del tutto fuori: sebbene sconfitti, morti anzitempo o parzialmente inespressi, infatti, li ritengo in grado di esercitare sui lettori, come hanno fatto con me, un fascino pari a quello dei più rinomati.

    Perché alla fine, per quanto mi sforzi di giustificare in modo logico le mie scelte, sono pienamente consapevole della loro estrema soggettività e del fatto che, in ultima analisi, esse sono il frutto delle mie attitudini, delle mie preferenze personali e, tutto sommato, anche delle mie lacune culturali...

    A. F.

    Alessandro Magno

    Alessandro III di Macedonia, detto Magno, cioè il Grande, è un figlio d’arte. Suo padre, Filippo II, è stato il miglior esempio e il più efficace aiuto di cui potesse fruire un uomo che ambiva a conquistare il mondo. Quando Filippo morì anzitempo, mentre era in procinto di conquistarlo, il mondo, Alessandro non ebbe che da rilevarne l’eredità e riprendere il lavoro da dove il padre l’aveva lasciato, con un esercito tra i più efficienti che la Storia ricordi e una serie di innovazioni tattiche che ebbe il merito di mettere a frutto su scala molto più ampia di quanto il tempo aveva concesso al genitore.

    Alessandro nacque nel 356 a.C., mentre il padre era impegnato a dare sbocchi verso il mare a un paese, la Macedonia, che aveva sempre costituito, agli occhi dei greci, una sorta di avamposto appena meno barbaro dei territori balcanici e danubiani, che gli stessi elleni non avevano mai neanche preso in considerazione come terra di conquista.

    Gli anni della sua adolescenza, che Alessandro trascorse da erede al trono, educato dai migliori maestri e nel costante addestramento alle armi, furono anche quelli durante i quali Filippo riuscì, in un modo o nell’altro, ad affermare la supremazia macedone sulla Grecia. Nell’anno in cui si pervenne allo scontro decisivo, il 338 a.C., il giovane aveva fatto in tempo a crescere a sufficienza per partecipare alla battaglia finale, a Cheronea; nella piana beotica Alessandro svolse un ruolo di primo piano, comandando l’ala sinistra che condusse lo sfondamento della destra avversaria, costituita dai tebani e, in particolare, dal Battaglione Sacro, le 150 coppie di omosessuali di cui si diceva che combattessero fino alla morte per difendere ciascuno il proprio compagno.

    La schiacciante vittoria macedone sancì l’autorità di Filippo su gran parte della Grecia, e di lì a poco il re, presiedendo la Lega di Corinto tra le poleis elleniche, riuscì a farsi conferire il comando di una spedizione panellenica volta alla conquista delle città asiatiche di matrice greca cadute sotto il dominio persiano. Ma una congiura, di cui non sono mai stati chiariti moventi e mandanti, lo tolse di mezzo nella primavera successiva, proprio quando tutto era pronto per l’invasione. I mesi precedenti erano stati contrassegnati da continui contrasti col figlio, che soleva preoccuparsi del fatto che il padre non gli avrebbe lasciato più nulla da conquistare; d’altronde il nuovo, recente matrimonio di Filippo con una principessa di sangue macedone aveva posto in secondo piano la madre di Alessandro, sorella del re dell’Epiro, e indotto qualcuno a sostenere che la legittimità alla successione dei figli della più giovane regina sarebbe stata superiore a quella dello stesso Alessandro, in fin dei conti un mezzosangue.

    Che fosse implicato o meno nel complotto che portò alla morte del padre, il giovane, allora diciottenne, reagì con vigore a ogni tentativo di mettere in dubbio la sua successione, guadagnandosi il prezioso appoggio dell’esercito – ben disposto a sostenere un ragazzo che aveva dato prova di grande valore a Cheronea –, per eliminare tutti i potenziali avversari. Consolidata la propria posizione all’interno del paese, Alessandro fu costretto ad agire anche a nord, dove i barbari, vincolati a Filippo da patti di carattere personale, si erano sentiti in dovere di sottrarsi all’alleanza con la Macedonia alla morte del grande sovrano. Con una serie di decise e rapide campagne lungo il Danubio, il giovane ridusse all’impotenza i traci, i taulantini e gli illiri, senza poter tuttavia consolidare la propria autorità, poiché lo stesso tentativo di sottrarsi all’orbita macedone stava avvenendo anche più a sud, in Grecia.

    La rivolta era condotta da Tebe, che era sempre stata la più refrattaria al dominio macedone, tanto da essere costretta a sopportare la presenza di una guarnigione nella propria cittadella. In dieci giorni Alessandro giunse alle porte della città e, dopo un breve assedio, la espugnò con un assalto e la fece radere al suolo. Ribadita così anche la propria leadership sulla Grecia – ad eccezione di Sparta, che sarebbe stata sconfitta dal suo luogotenente Antipatro solo anni dopo –, il giovane re poté concentrarsi sull’impresa asiatica, portando l’intero esercito della Lega di Corinto sulla sponda orientale dell’Ellesponto nella primavera del 334 a.C.

    Poche settimane dopo, nel mese di giugno, affrontò lungo il Granico (l’attuale Kocabas), un fiume della Troade, una coalizione dei satrapi dell’Asia Minore, che avevano riunito una consistente forza di cavalleria, e qualche migliaio di mercenari greci al comando di Memnone di Rodi. La vittoria macedone, ottenuta con un attacco repentino subito dopo l’arrivo sulla sponda del fiume, fu schiacciante, anche se Alessandro, sempre in testa a condurre l’assalto della cavalleria, corse il grave rischio di essere ucciso e fu salvato da uno dei suoi generali; i mercenari furono sterminati fino all’ultimo uomo, e molti governatori rimasero sul campo. Non Memnone, che riuscì a fuggire coordinando da allora la difesa della parte occidentale dell’impero persiano, con una strategia imperniata sul blocco navale, valendosi delle città costiere ancora in mano persiana, che gli consentivano di tentare di isolare l’armata macedone dalle sue basi sul continente europeo.

    Senza rischiare un combattimento navale che, data la superiorità persiana in quel campo, avrebbe messo a repentaglio le conquiste acquisite, Alessandro si convinse che il miglior modo per rendere inefficace la flotta nemica fosse quello di operare sul fronte terrestre, per sottrarle le basi di attracco e di approvvigionamento. In breve il condottiero soffiò a Memnone i principali porti della Caria, come Mileto e Alicarnasso; in ogni caso, la morte improvvisa del comandante rodio mise il re macedone in condizione di proseguire la sua avanzata verso la Siria, anche se fu costretto a licenziare la sua già modesta flotta, privo com’era dei soldi per pagarla.

    illustrazione

    Alessandro Magno, l’imbattuto conquistatore, nell’arco di soli sette anni, di un impero che si estendeva dalla Grecia al Pakistan.

    A quel punto si era mosso il sovrano persiano, Dario III Codomanno, solo recentemente asceso al trono dopo un periodo di torbidi. Questi si era piazzato nella pianura siriaca a ridosso della catena dell’Amano, per trarre il massimo partito dal suo enorme potenziale di cavalleria e di carri, mentre Alessandro avanzava in Cilicia. Tuttavia, mentre il giovane condottiero discendeva il lato ovest dell’Amano per entrare in Siria, Dario preferì compiere una manovra aggirante risalendo le pendici orientali dei monti, per tagliare fuori Alessandro dalle sue vie di ritirata e obbligarlo a combattere.

    Ma Alessandro voleva combattere. Quando seppe che l’antagonista si trovava alle sue spalle, tornò subito indietro per affrontarlo, e i due eserciti si trovarono l’uno di fronte all’altro, nel 333 a.C., sulle due sponde del fiume Isso, l’attuale Deli Chai. L’esercito di Dario era di gran lunga superiore in termini di effettivi, ma Alessandro riuscì a prevalere con la stessa tattica di cui si era valso al Granico, pur lasciandosi sfuggire il sovrano. In compenso, si impossessò del ricco bottino lasciato da Dario nel suo campo, nonché delle sue familiari; la sconfitta costrinse inoltre il gran re a rinunciare a ogni velleità sull’Asia Minore, sulla quale Alessandro poté procedere a estendere la propria sovranità.

    Il passo successivo di Alessandro fu di completare la conquista delle città portuali in mano ai persiani. Rimaneva la Fenicia, che d’altronde rappresentava la principale regione fornitrice di flotte a Dario, ma che era anche piuttosto scontenta del dominio persiano. Non a caso, il giovane condottiero non ebbe difficoltà a impossessarsi dei suoi centri, che anzi gli aprirono le porte; l’eccezione rappresentata da Tiro, che evitò di prendere posizione a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti, costrinse Alessandro a un duro assedio che si protrasse per ben otto mesi. Si trattò di uno dei più celebri assedi dell’Antichità, non solo per la profusione di macchine e sistemi ossidionali escogitati dall’ingegnere del re, Diade di Pella, ma anche per la geniale costruzione dell’istmo, tuttora esistente, che Alessandro concepì per unire la città, sorta su un’isola, alla terraferma, al fine di rendere accessibili le mura alle macchine.

    L’assedio si risolse a favore dei macedoni nell’agosto del 332 a.C., solo dopo che il sovrano era riuscito ad allestire una flotta con le navi fenicie e cipriote delle città che aveva già tratto dalla sua parte, grazie alle quali poté completare anche dal mare il blocco alla roccaforte. A questo seguì un altro duro assedio di due mesi, a Gaza, in Palestina; la sua caduta gli coprì la via per l’Egitto, la più recente delle conquiste persiane, che lo aspettava come un liberatore.

    La conquista incruenta del paese dei faraoni sancì la chiusura della prima fase delle conquiste di Alessandro, che era già andato ben più in là dell’obiettivo dichiarato all’inizio della campagna. Tuttavia, la debolezza congenita della leadership di Dario lo aveva progressivamente persuaso di poter aspirare alla conquista dell’intero impero dell’antagonista e, a dispetto delle perplessità di alcuni componenti del suo stato maggiore, che anni dopo avrebbe fatto giustiziare, rifiutò le proposte di accomodamento del sovrano persiano e si preparò a proseguire verso est, oltre il Tigri e l’Eufrate, puntando verso il cuore dei domini persiani attraverso la Siria.

    Nella primavera del 331 a.C. entrò quindi in Mesopotamia marciando a ridosso dei monti armeni, per evitare il territorio reso sterile dai luogotenenti di Dario, che intanto stava radunando un esercito di dimensioni spropositate nell’ampia pianura di Gaugamela, nei pressi di Arbela, l’odierna Erbil; memore della lezione ricevuta a Isso, il gran re fece perfino spianare qualsiasi dislivello del terreno per consentire alla sua cavalleria e ai suoi carri di agire con la massima efficacia.

    illustrazione

    L’itinerario di Alessandro Magno.

    Ma l’esito della battaglia, che si combatté il primo ottobre, non fu diverso dal precedente scontro: anche in questo caso Alessandro riuscì a prevalere su un esercito numericamente superiore, valendosi anche di uno schieramento bifronte concepito appositamente per evitare tentativi di accerchiamento. Ancora una volta, però, Dario riuscì a fuggire, approfittando del fatto che l’ala vincente di Alessandro era stata costretta a interrompere l’inseguimento per dare manforte all’ala opposta di Parmenione, in difficoltà di fronte alla carica dei cavalieri catafratti.

    Tuttavia, la via per le grandi capitali dell’impero persiano era ormai aperta: Babilonia, Susa, Persepoli ed Ecbatana caddero rapidamente in mano macedone, mettendo Alessandro in condizione di fruire di una ricchezza straordinaria, con la quale risolse tutti i suoi problemi finanziari. L’inseguimento a Dario durò più a lungo, e si concluse, alla fine, grazie al tradimento dei satrapi più orientali, sui quali il sovrano persiano faceva affidamento per la riscossa, e che invece lo abbandonarono morente ai macedoni. In realtà, i governatori avevano intenzione di continuare a combattere in proprio, e tra essi si distinse in particolare Spitamene, che costituì l’unico vero avversario di Alessandro insieme a Memnone.

    Il satrapo della Battriana, infatti, tenne occupato il sovrano, ormai non più macedone ma persiano, in una logorante guerriglia per due anni, nelle estreme propaggini nordorientali dell’impero, nell’Afghanistan settentrionale; nel corso di quel biennio, le continue imboscate nemiche e le terribili marce tra deserti e picchi innevati causarono nell’esercito macedone molte più vittime dei caduti nelle grandi battaglie campali.

    Alla fine, anche Spitamene fu tradito – dai suoi alleati nomadi – e Alessandro, ormai padrone di tutto ciò che era appartenuto a Dario, fu libero di rivolgere le proprie attenzioni più a est, verso l’India, per dare al suo impero uno sbocco al mare anche a oriente, in base alla erronea convinzione che oltre l’Indo ci fosse solo il Punjab. Il suo esercito, largamente rinnovato nel numero e negli effettivi, che ormai annoveravano elementi di tutte le razze presenti nell’impero persiano, partì dalla zona di Kabul percorrendo il fiume omonimo all’inizio dell’estate del 327 a.C., contando sull’alleanza di alcuni dei rajah più occidentali. Tra costoro, tuttavia, Poro, sovrano del territorio tra i i due affluenti dell’Indo, l’Idaspe (Jehlum) e l’Acesine (Chenab), decise di opporglisi, costringendolo a una delle sue più dure battaglie.

    La nuova vittoria fruttò ad Alessandro la preziosa alleanza col rajah sconfitto, che lo accompagnò nella sua marcia verso sud-est, attraverso l’attuale Pakistan, nella quale il re si trovò ad affrontare popolazioni ostili che misero a dura prova la resistenza, ormai al limite, del suo stremato esercito. Sul Beas, i soldati si rifiutarono di procedere oltre, e ad Alessandro non rimase che tornare indietro, seguendo però un itinerario verso sud; il re decise infatti di percorrere l’Indo fino al delta, per raggiungere almeno da quella parte l’oceano e aprire poi nuove vie di comunicazione con l’occidente.

    Ci fu tempo, ancora, per battaglie e assedi particolarmente cruenti, e ripetute stragi di indiani. Nel corso di questi ultimi combattimenti, il condottiero e il suo esercito manifestarono un’impazienza crescente, frutto forse dell’esasperazione e della fatica, della frustrazione e della paura per una regione pervicacemente ostile: Alessandro corse infatti il suo più grosso rischio, cadendo in fin di vita sotto i colpi dei difensori indiani mentre combatteva pressoché isolato all’interno delle mura di una città, che solo lui aveva osato scalare.

    Giunto infine all’Oceano Indiano dopo otto mesi di navigazione fluviale, Alessandro divise le sue forze, mandandone una parte con il suo secondo, Cratero, attraverso l’Asia centrale, un’altra via mare, con fini esplorativi, al comando dell’ammiraglio Nearco. Portò con sé il grosso dell’esercito attraverso il deserto della Gedrosia, che fu costretto a percorrere quasi alla cieca dopo aver dovuto abbandonare la marcia lungo la costa, a supporto della flotta di Nearco. Furono due mesi terribili, durante i quali il re perse tutte le bestie da soma e i cavalli, ma anche molti uomini e non combattenti.

    Una volta tornato in Mesopotamia dove, a Babilonia, aveva stabilito la sua principale residenza reale, Alessandro fu impegnato a sedare le ribellioni nate in molte parti dell’impero durante le sue campagne più orientali, a smobilitare parte delle forze che combattevano con lui dall’inizio dell’impresa asiatica, e a concepire nuovi, grandiosi piani per aprire stabili vie di comunicazione con l’Estremo Oriente attraverso il mare meridionale. Sotto quest’ultimo aspetto, l’Arabia era il suo nuovo obiettivo, grazie alla sua posizione tra il Golfo Persico e il Mar Rosso, che la faceva apparire come il naturale ponte tra la regione fluviale mesopotamica e l’oceano. Ma nella primavera del 323 a.C. Alessandro si ammalò improvvisamente, forse in conseguenza della ferita al polmone che aveva ricevuto in India, e morì dopo pochi giorni di agonia, senza aver dato alcuna disposizione sulla successione.

    Lasciava un figlio che doveva ancora nascere e un fratellastro demente, ma anche una cospicua messe di generali che avevano combattuto con lui in pressoché tutte le sue campagne senza che il re permettesse a uno di essi di ergersi al di sopra degli altri. Costoro iniziarono le lotte per la successione proclamandosi reggenti o sostenitori degli eredi legittimi che, in progresso di tempo, finirono per togliere di mezzo, per spartirsi l’impero attraverso quarant’anni di conflitti dai quali sarebbero emersi tre regni: il seleucide, per opera di Seleuco Nicatore, con sovranità sull’Asia centrale e parte della Minore; il tolemaico, grazie a Tolomeo, incentrato sull’Egitto, e l’antigonide, comprendente Macedonia e Grecia. Tutti e tre furono poi inglobati, nell’arco di tre secoli, all’impero romano.

    Valutazione

    Le imprese di Alessandro Magno coprirono un arco di tempo di nove anni, durante i quali il condottiero rimase pressoché imbattuto, guadagnandosi una gloria imperitura e un impero sterminato, dai Balcani all’Indo, che però fu costituito troppo fugacemente per non sfaldarsi subito dopo la morte del suo artefice. Ciononostante, dalle sue ceneri nacquero tre regni secolari dall’eredità comune, un’eredità che fondeva matrici autoctone con un sostrato greco, traducendosi in una cultura universale che caratterizzò un’epoca storica e preparò il terreno all’espansione universale di Roma e alla sua lunga sopravvivenza, fino alla fine dell’età medievale, attraverso forme di espressione greco-bizantine.

    Alessandro era dotato, e in abbondanza, di due caratteristiche apparentemente in contrasto tra loro: un grande intuito strategico e un coraggio formidabile, al limite dell’incoscienza. La sua visione d’insieme dello scacchiere nel quale operava era guidata da una straordinaria pazienza, che lo induceva a consolidare qualsiasi conquista prima di procedere alla successiva, assicurandosi sempre che le vie di comunicazione con le retrovie fossero sicure; ciò garantiva alle sue truppe costanti approvvigionamenti, vitali in campagne che coprivano distanze enormi in territori ostili e inospitali, ed evitava al loro comandante di disperdere forze per tappare le falle che si sarebbero continuamente aperte in regioni sottomesse troppo frettolosamente. La sua grande capacità organizzativa e logistica, sicuramente ereditata dal padre, faceva il resto, permettendogli oltretutto di individuare sempre il numero ideale di effettivi da portarsi dietro in funzione dell’obiettivo da raggiungere.

    Tuttavia, in prossimità di una battaglia, Alessandro diveniva impaziente, comunicando ai suoi uomini la sua frenesia di aggredire il nemico e spingendo pertanto al massimo il loro spirito combattivo. Era lui stesso a condurre la prima carica, alla testa dei suoi Compagni della cavalleria, esponendosi a gravi rischi e perdendo di vista lo sviluppo globale dello scontro. Peraltro, la sua visione tattica era altrettanto lucida di quella strategica, e la ricognizione che compiva prima del combattimento gli consentiva di trovare sempre il modo più efficace per ottenere la vittoria.

    Solitamente, studiava lo schieramento avversario per individuarne non i punti deboli, ma quelli che il nemico riteneva più inattaccabili, e lì concentrava il suo assalto, certo che il senso di sicurezza degli antagonisti li rendesse più vulnerabili. La sua tattica, fondamentalmente, era sempre la stessa, mutuata dal padre che, a sua volta, aveva tratto spunto da quella di Epaminonda. Sulla destra del proprio schieramento concentrava la cavalleria e un cospicuo supporto di truppe leggere, di cui si valeva per l’assalto al fianco dell’ala sinistra nemica. Quando quest’ultima si trovava pressata, avanzava anche la falange al centro, che fungeva da incudine contro la quale il martello, costituito da Alessandro e dai suoi Compagni, la spingeva inesorabilmente. L’ala sinistra, più debole, rimaneva passiva, a contenimento dell’inevitabile assalto delle soverchianti forze dell’ala destra avversaria; ma prima che fosse troppo a mal partito, solitamente il combattimento negli altri settori si era già risolto a favore dei macedoni.

    La battaglia: l’Idaspe

    Giunto sulle rive dell’Idaspe, Alessandro vide che il re indiano Poro aveva costituito uno sbarramento sulla sponda opposta con il proprio esercito schierato, nel quale spiccavano molti elefanti; la presenza dei pachidermi escludeva qualsiasi tentativo di passare il fiume da parte dei cavalli, che tendevano a spaventarsi. Il sovrano macedone fece quindi accampare il suo esercito di fronte a quello avversario, dando l’impressione di voler rinunciare a ogni tentativo immediato di guado, per attendere che trascorresse la stagione delle piogge e approfittare del calo del livello dell’acqua. Ma, intanto, cercò di nascosto un punto di attraversamento alternativo, e lo trovò diversi chilometri più a nord del proprio accampamento, all’altezza di un’isola che avrebbe celato i movimenti delle sue truppe e reso più comoda la traversata.

    La notte prescelta per il passaggio, Alessandro lasciò una forza cospicua al proprio campo, perché Poro credesse che il grosso dell’esercito macedone fosse ancora lì; quindi marciò con la vera forza di attacco alla volta del guado prescelto, che passò all’alba, comparendo sull’altra sponda senza trovare una grande resistenza e minacciando direttamente il fianco destro nemico. Poro ci mise parecchio per capire che quella che aveva a nord non era un’azione diversiva, e in più impiegò altrettanto per decidere quale delle due forze nelle quali si era divisa l’armata nemica dovesse affrontare. Se, infatti, muoveva contro Alessandro, rischiava di farsi prendere alle spalle dal contingente rimasto al campo; se, al contrario, rimaneva a fronteggiare il campo macedone, si sarebbe fatto prendere sul fianco dal sovrano avversario.

    Decise infine di marciare contro Alessandro, lasciando comunque una parte del proprio esercito ad arginare l’eventuale attacco delle forze del campo macedone. Ma il terreno paludoso lungo l’argine del fiume complicò la sua marcia; inoltre, nel corso dello scontro il re macedone seppe usare gli elefanti dell’avversario come muro contro cui fare andare a sbattere la fanteria indiana, pressata dalla manovra a tenaglia della sua ala di cavalleria e di un contingente di riserva, cui aveva affidato il compito di aggirare lo schieramento avversario e sorprenderlo da tergo. In pratica, gli elefanti svolsero il ruolo rivestito solitamente dalla falange, ovvero quello dell’incudine.

    FONTI: Arriano, Anabasi di Alessandro, a cura di D. Ambaglio, Milano 1994; Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, a cura di J.E. Atkinson e T. Gargiulo, Milano 1998; Frediani A., Le grandi battaglie di Alessandro Magno, Roma 2004; Fuller J.F.C., The Generalship of Alexander the Great, London 1998; Keegan J., La maschera del comando, Milano 2003; Plutarco, Alessandro, a cura di D. Magnino, Milano 1987; Tarn W.W., Alexander the Great, Cambridge 1948.

    Alfredo il Grande

    L’eroe della resistenza anglosassone ai vichinghi è Alfredo, detto il Grande, nato nell’848 quale ultimo figlio del re del Wessex Etelwulf, e perciò non destinato alla successione, che venne assunta dal fratello maggiore Etelredo. Tuttavia, sebbene non fosse di costituzione fisica particolarmente robusta, Alfredo si distinse presto non solo come uomo di lettere, ma anche come cacciatore e combattente, perfino in battaglia al fianco dei suoi fratelli maggiori, che finirono per morire tutti in guerra, uno dopo l’altro.

    Nell’870 i vichinghi, stabilitisi, a partire dagli anni ’50, in Northumbria e in Anglia orientale, puntarono più decisamente che mai sul Wessex, stabilendo un campo fortificato a Reading, tra il Tamigi e il Kennet. In dicembre l’armata sassone condotta da Etelredo e da Alfredo tentò di assalire l’accampamento, ma venne respinta con gravi perdite, ritirandosi a pochi chilometri di distanza, ad Ashdown, dove rimase ad attendere rinforzi. All’inizio del gennaio 871 furono i vichinghi ad attaccare; l’8 gennaio, mentre il sovrano era impegnato nelle funzioni religiose che precedevano lo scontro, i due re Bagsecg e Halfdan fecero avanzare l’esercito, che Alfredo decise di contrastare avanzando a sua volta con l’ala di cui era al comando; la mischia che ne derivò fu risolta a favore dei sassoni dal pur tardivo intervento di Etelredo.

    I sassoni inseguirono i danesi in rotta fino al campo di Reading, ma l’armata vichinga rimase relativamente integra, tanto che fu in grado di prendersi una rivincita due settimane più tardi a Basing, poco più a sud, e poi in aprile a Meretun. In quest’ultimo scontro Etelredo fu ferito a morte e Alfredo, ormai il capo più autorevole del regno, fu chiamato a succedergli dall’assemblea dei nobili, consapevoli che i tempi di guerra richiedevano un sovrano forte, in luogo dei suoi nipoti, ancora piccoli.

    Tuttavia, il nuovo re non fu in grado di migliorare la situazione dei sassoni, che subirono una nuova sconfitta a Reading; lo stesso Alfredo fu ancora battuto da due armate congiunte a Wilton, e non ebbe altra scelta che versare un tributo ai danesi per ottenere la pace. I vichinghi svernarono a Londra e poi tornarono a volgere la loro attenzione a nord, dove consolidarono le loro conquiste con epicentro in Northumbria, creando un dominio relativamente omogeneo con l’Anglia orientale e parte della Mercia, che costituì il Danelaw.

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    Alfredo il Grande, l’eroe della resistenza anglosassone alle invasioni vichinghe.

    Negli anni seguenti, però, continuarono ad affluire dal continente nuove armate e nuovi leader nordici, in cerca anch’essi di terra entro cui insediarsi. Tra questi, il più determinato era Guthrum, che si pose come obiettivo la conquista del Wessex, cui puntò nell’875. La sua pressione costrinse Alfredo, dopo un anno di combattimenti, a una nuova capitolazione, con la quale, però, il re salvò i propri territori cedendo ancora ricchezze e ostaggi. Tuttavia, una parte degli invasori si ostinò a rimanere in territorio sassone, svernando a Exeter. Alfredo dovette pertanto riprendere le ostilità, correndo da un capo all’altro del paese per arginare i raid degli invasori, che una tempesta privò dei rinforzi distruggendone la flotta; il sovrano riuscì a mandare via gli invasori solo nell’877, stipulando una nuova tregua.

    Illudendosi di aver posto fine alle ostilità, Alfredo sciolse l’esercito e si ritirò nei propri quartieri invernali a Chippenham; ma fu proprio allora, nei primi giorni dell’878, che Guthrum lanciò una nuova offensiva. Il re lasciò che i vichinghi, partiti da Gloucester, avanzassero in profondità, impossessandosi di Chippenham, mentre lui, con uno sparuto gruppo di seguaci, si rifugiava nell’isola di Athelney, a ovest di Selwood, riparando tra le paludi, dove fece costruire una fortezza nella quale trascorse tutto l’inverno.

    Il condottiero sassone rimase sulla difensiva, in attesa di poter disporre di un numero sufficiente di forze per affrontare gli invasori, mentre intanto cospicue porzioni del suo regno si sottomettevano ai vichinghi, e parte della popolazione emigrava sul continente. Dal suo nascondiglio, tuttavia, orchestrò una solida guerriglia che mise in difficoltà Guthrum, il quale si diede a organizzare un’azione congiunta di due armate per stanarlo. Ma il conte Odda fece fallire il piano, sconfiggendone una a Countisbury Hill nel Devon, dove i vichinghi persero 800 uomini su 1200. A quel punto, Alfredo si sentì pronto per reagire: convocò i suoi sudditi del Somerset, del Wiltshire e dell’Hampshire, allestendo prontamente una nuova armata con i rispettivi fyrd, ovvero le leve distrettuali; con il nuovo esercito, sette settimane dopo Pasqua, colse la decisiva vittoria di Edington, che sembrò preludere a una pace duratura.

    Ma nell’885 i vichinghi attaccarono Rochester, inducendo Alfredo a rompere la tregua. Nell’886 il re tolse Londra ai danesi e la diede a Etelredo di Mercia, suo genero e vassallo, e ciò confermò la sovranità che Alfredo, sottraendo al leader danese la parte occidentale dei suoi domini, aveva acquisito su gran parte degli anglosassoni al di fuori del giogo vichingo. Nello stesso anno, il sovrano del Wessex stipulò un nuovo trattato con Guthrum, a salvaguardia dei diritti dei sudditi sassoni del Danelaw.

    I danesi, tuttavia, scatenarono una nuova, grande offensiva nell’892. I vichinghi, infatti, si erano fatti battere dai franchi sul continente, e ciò li aveva indotti a interessarsi più attivamente dell’Inghilterra. Secondo la tradizione, da Boulogne salparono ben 800 navi, alla guida di un capo di nome Hastings; la flotta prese terra a Benfleet, nell’Essex, con l’obiettivo della valle del Severn, che fino ad allora era rimasta relativamente indenne dalle calamità che avevano afflitto l’isola in quel torno di tempo.

    Dalle loro basi di Chester e Brignorth, gli invasori si diedero a devastare soprattutto la Mercia di Etelredo, senza che Alfredo fosse in grado di arginare le razzie. L’anno seguente, tuttavia, il re fece terra bruciata nelle Midlands, sottraendo al nemico le risorse della campagna e spingendolo a ritirarsi nel Galles. Nell’895 costrinse i danesi ad abbandonare il loro campo sul Lea, una trentina di chilometri a nord di Londra, bloccando il corso del fiume con la costruzione di due forti, che impedirono ai vichinghi di far uscire le loro navi.

    Nel complesso, comunque, i danesi della Northumbria e dell’Anglia orientale non diedero manforte ai loro confratelli e, nell’896, a conclusione della guerra, Alfredo si tolse anche la soddisfazione di veder prevalere la propria flotta, di recente costruzione, sul più sperimentato naviglio vichingo, sgominando sei navi che stavano saccheggiando le coste del Devon e l’isola di Wight. Da allora, il re poté riprendere la sua opera di organizzazione del regno, fino alla sua morte, che avvenne il 26 ottobre 899.

    Valutazione

    Alfredo fu il primo re anglosassone a concepire un piano organico di organizzazione militare, politica e culturale dello stato, nonché il primo sovrano a governare su un aggregato di regni, sebbene non si trattasse di tutti i territori popolati da anglosassoni; in realtà, il suo dominio diretto fu limitato alle sole zone a sud del Tamigi, che riuscì a preservare dalle invasioni straniere, esercitando anche un velato controllo su altri principi. Tuttavia la sua casata, estintasi con Edoardo il Confessore poco prima dell’invasione normanna, avrebbe progressivamente regnato su gran parte dell’Inghilterra.

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    Territori anglosassoni e danesi nell’Inghilterra di Alfredo il Grande.

    Il re trovò il modo di far fruttare al massimo le risorse militari di cui disponeva, dividendo i coscritti in due gruppi, uno dei quali si manteneva in servizio attivo mentre l’altro era a casa; in tal modo, i suoi contadini-soldati furono in grado di salvaguardare le loro occupazioni nei campi, senza per questo sottrarre effettivi al sovrano in guerra. Alfredo creò anche un’armata mobile, tra i cavalieri che vivevano nelle campagne, mentre quelli più vicini ai borghi costituivano la difesa territoriale. Inoltre, allestì un imponente sistema difensivo di fortezze e valli, della cui manutenzione si faceva carico, in ciascun distretto, la stessa popolazione che vi trovava rifugio in caso di invasione, svolgendo anche servizio di guarnigione. Fu anche l’artefice della creazione di una flotta, ingaggiando gli esperti marinai frisoni.

    Alfredo fu il principale avversario dei vichinghi in Europa; si deve essenzialmente a lui se l’Inghilterra non divenne interamente scandinava, sebbene i normanni se ne impossessassero per altre vie un secolo e mezzo dopo. Fu un maestro della guerra difensiva, con strategie basate sulla guerriglia, sulla rapidità di movimento, sulla terra bruciata e sul ripiegamento dietro le linee fortificate; perfino a livello tattico, in battaglia, lasciò che fosse il nemico a prendere l’iniziativa, per operare il contrattacco quando lo vedeva sufficientemente sfiancato.

    Per finire, Alfredo fu anche un grande riformatore che, in tempo di pace, seppe dotare il proprio regno di un solido apparato amministrativo e culturale, provvedendo all’istruzione, anche in prima persona, in territori nei quali, da tempo, si pensava solo a sopravvivere alle invasioni.

    La battaglia: Edington

    Nella seconda settimana di maggio dell’878, Alfredo abbandonò il suo nascondiglio nelle paludi del Somerset e mosse alla volta di Iley Oak, nei pressi di Warminster, puntando su Chippenham, dove era acquartierata l’armata di Guthrum. Questi avanzò a sua volta e i due eserciti si incontrarono a Etandhun, l’attuale Edington nel Wilshire, 24 chilometri a sud della base danese.

    Non si conoscono i particolari della battaglia che si combatté, ma gli scarni accenni delle fonti ci permettono di stabilire che Alfredo operò costantemente sulla difensiva, ordinando ai suoi uomini di serrare i ranghi e costituire un muro di scudi con il quale resistere agli impetuosi assalti nemici. Guthrun sfiancò la propria armata mandandola ripetutamente all’attacco senza riuscire a ottenere una breccia, fino a quando, esausti, i suoi uomini non si esposero alla reazione sassone, che dopo lungo combattimento condusse alla vittoria le truppe di Alfredo.

    I danesi si diedero alla fuga alla volta del campo di Chippenham, che il re sassone cinse subito d’assedio, sottoponendolo a un blocco talmente serrato che, dopo due settimane, Guthrum fu costretto alla resa; per la prima volta, i vichinghi cedettero ai sassoni degli ostaggi senza richiederne. In base al trattato di Wedmore, Guthrum, insieme ad altri 29 capi nordici, rinunciò al Wessex e si fece cristiano, accettando il battesimo e il nome di Atelstano.

    FONTI: Abels R.P., Alfred the Great: War, Kingship and Culture in Anglo-Saxon England, London 1988; Campbell J. (a cura di), The Anglo-Saxons, London 1982; Garmansway G.N., The Anglo-Saxon Chronicle, London 1953; Reuter T. (a cura di), Alfred the Great: Papers from the Eleventh-Century Conference, Ashgate 2003; Stenton F.M., Anglo-Saxon England, Oxford 1943; Williams P., Alfred the King, London 1951; Yorke B., Wessex in the Early Middle Ages, London 1995.

    An Lu-shan

    L’uomo che minò irrimediabilmente l’unità della Cina, a fatica raggiunta sotto la dinastia Tang, nacque fuori dai confini dell’impero cinese, nella regione di Bukhara, in Sogdiana, l’attuale Uzbekistan, nel 703. An Lu-shan era mezzo turco e mezzo iranico, figlio di un guerriero e di una donna di nobili natali che, si diceva, esercitava funzioni di sciamano. Il padre morì presto, e la madre si risposò col fratello di un signore della guerra, prima che la sua tribù, travolta dal caos seguito alle lotte tra i principali clan turchi, fosse costretta a emigrare entro i confini nord-orientali dell’impero cinese.

    Il giovane si industriò, forse sfruttando la sua conoscenza delle lingue barbare, per guadagnarsi un posto di funzionario nei mercati di frontiera dove l’impero acquistava prodotti stranieri. Secondo un’altra versione, però, si diede al brigantaggio, per essere infine catturato a vent’anni per il furto di una pecora. Portato al cospetto di Chang Shou-kuei, governatore militare di Fanyang, l’attuale Pechino, An Lu-shan evitò in extremis l’esecuzione convincendo il comandante di poter risultare utile nelle lotte contro i barbari che premevano lungo i confini. Fu pertanto arruolato come esploratore, guadagnandosi molti apprezzamenti nelle schermaglie di cavalleria leggera che condusse contro le tribù mongole Khitan, provenienti dalla Manciuria, che compivano frequenti incursioni in territorio cinese.

    Il giovane ebbe così svariate occasioni di mettersi in mostra, salendo la scala gerarchica fino a divenire il principale luogotenente del governatore, grazie ai numerosi successi che colse come comandante sul campo, e alla sua capacità di gestire i numerosi contingenti barbari che combattevano al servizio dell’impero. Ma nel 736, mentre il governatore era in visita alla capitale, dovette fronteggiare una nuova rivolta dei mongoli Khitan e degli Hsi tibetani, finendo pesantemente sconfitto e subendo numerose perdite. Il suo mentore avrebbe voluto giustiziarlo per incompetenza, ma poi ci ripensò, e si limitò a privarlo di qualsiasi incarico militare, ma solo fino alla fine dell’anno.

    An Lu-shan poté quindi riprendere il corso della sua carriera e raggiungere, nel 742, la carica di governatore militare del distretto periferico di P’ing-lu, sull’estrema frontiera nordorientale, contiguo a quello nel quale aveva agito agli ordini di Chang Shou-kuei. Ebbe così occasione di compiere frequenti viaggi nella capitale, Ch’ang-an, l’attuale Xi’an, guadagnandosi una lusinghiera reputazione a corte grazie alla corruzione e all’intrigo. Finì per essere nominato governatore militare del più importante distretto di Fanyang – che inglobava P’ing-lu –, e tra il 750 e il 751 si vide assegnare anche le province di Ho-pei e Ho-tung, lungo la Grande Muraglia. In pratica, l’intera frontiera nordorientale della Cina era sotto la sua autorità, e ciò faceva di lui uno dei più potenti signori di un impero sempre meno centralizzato, con molti grandi vassalli di fatto autonomi e un potere imperiale sempre più debole.

    Tuttavia, An Lu-shan si preoccupò di ribadire costantemente la propria fedeltà all’imperatore, inviando frequenti doni alla capitale e presidiando con spietata efficienza i territori di sua competenza, rendendosi nel contempo sempre più potente. Costruì un imponente baluardo a nord di Fanyang, la fortezza di Hsiung-wu, nella quale stipò, tra le altre cose, 15.000 cavalli da guerra, e attirò decine di capi mongoli al proprio servizio. Quelli refrattari, invece, li invitò a pranzo offrendogli del vino drogato, che li rese del tutto inconsapevoli quando i suoi soldati tagliarono loro la testa, il cui mucchio costituì un nuovo regalo per il sovrano.

    Meno lusinghieri furono però i suoi risultati quando si trattò di passare all’offensiva. Nel 751 invase il territorio dei Khitan, alla testa di un’armata di 50.000 uomini, della quale facevano parte alcuni contingenti di cavalleria Hsi. Il viaggio lungo il fiume Lao fu lungo e difficile, sollevando malumori nella truppa e in special modo tra i cavalieri mongoli. Sorsero dei contrasti con le truppe cinesi, e il capo dei barbari venne assassinato, determinando la diserzione degli Hsi, che andarono ad avvertire i Khitan. An Lu-shan si trovò pertanto a dover fronteggiare un’imboscata sul fiume Lao, in pieno territorio nemico; finì circondato, senza neanche poter utilizzare i suoi temibili arcieri, i cui archi furono resi privi di efficacia da un violento temporale. Riuscì a stento a cavarsela, dopo essere stato anche ferito da una freccia, aprendosi una via di fuga verso il P’ing-lu.

    Nel 755 l’imperatore, sobillato dal nuovo primo ministro Yang Kuo-chung, finì per convincersi di avere in An Lu-shan un potenziale antagonista, e lo chiamò a corte; ma il condottiero aveva ragione di temere per la sua vita spostandosi nella capitale, e rifiutò l’invito. Consapevole di aver ormai perso il credito presso la corte imperiale, An Lu-shan decise di assumere l’iniziativa e, proclamando di voler agire contro il primo ministro in base a un fantomatico editto segreto del sovrano, marciò sulla capitale alla testa del proprio esercito, prevenendo così la mobilitazione delle truppe imperiali.

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    Testa di guerriero turco-iranico. Presumibilmente tali erano le sembianze di An Lu-shan, la cui ribellione minò irreparabilmente la coesione dell’impero Tang.

    Il condottiero, in realtà, non era più in grado di compiere grandi imprese. Era divenuto obeso in modo grottesco, e doveva essere trasportato su una portantina di ferro; inoltre, era quasi cieco, tanto da dover essere guidato da due consiglieri quando camminava, e soffriva di una malattia della pelle. Tuttavia, il 16 dicembre 755 intraprese lo stesso il viaggio, alla testa di un’armata di 150.000 uomini, in gran parte turchi e mongoli, che fece marciare di notte e riposare di giorno, facendogli percorrere oltre 30 chilometri al giorno. Il suo cammino non conobbe ostacoli e gli consentì di giungere al Fiume Giallo l’8 gennaio 756. Il corso d’acqua era gelato, e i guerrieri dovettero sradicare gli alberi intorno e lanciarli contro la superficie per romperla. Dopodiché, si affrettarono a trainare le zattere verso l’altra riva, prima che il fiume si congelasse nuovamente.

    Quindi i ribelli avanzarono nel cuore dell’impero, seminando terrore e devastazione dovunque passassero; sgominarono anche un’armata di 60.000 uomini sul Passo di Hulao, che presidiava la strada per la capitale orientale, Luoyang, dove arrivarono in soli 33 giorni di marcia. La sua guarnigione si diede alla fuga non appena vide comparire lo sterminato esercito di An Lu-shan; il condottiero poté così prendere possesso dell’abitato il 19 gennaio e accantonare la finzione che lo aveva condotto fin lì, proclamandosi imperatore il 5 febbraio.

    L’usurpatore indugiò nella città, dando così modo alle forze imperiali di costituire una linea difensiva lungo il Passo di T’ung-kuan, tra le montagne e il Fiume Giallo. Quando An Lu-shan si decise ad avanzare, la loro posizione era divenuta talmente solida che non osò attaccarla, e dovette attendere la controffensiva nemica all’inizio dell’estate per aprirsi la strada verso la capitale. La nuova vittoria ribelle provocò un colpo di stato a Ch’ang-an, dove l’imperatore fu costretto ad assistere all’assassinio di Yang Kuo-chung e a cedere il comando al proprio erede, Su-tsung. Ma intanto An Lu-shan poteva entrare senza difficoltà in città, dove poté attestarsi tanto saldamente da respingere ben due assalti avversari.

    Tutto sembrava andare per il verso giusto, per l’usurpatore, sebbene egli non riuscisse a superare lo sbarramento di fortezze a protezione dello Yang-tze. Tuttavia, il suo carisma sui subalterni era tutt’altro che saldo. I suoi problemi fisici, sempre più marcati, lo avevano reso insofferente e feroce, inducendolo a giustiziare ufficiali e soldati per qualsiasi manchevolezza, anche lieve. Il suo comportamento provocò una cospirazione, di cui fece parte anche il figlio e suo erede designato, An Ch’ung-hsu. Il 29 gennaio 757 lo fecero uccidere a Luoyang dal suo eunuco personale, facendo poi circolare la voce che era morto a causa delle sue malattie. Le forze imperiali avrebbero impiegato altri sei anni per avere ragione dei rivoltosi, guidati con scarsa efficacia da An Ch’ung-hsu, poi giustiziato per l’assassinio del padre.

    Valutazione

    An Lu-shan rappresentò un modello e un eroe per tutti i barbari che ambivano a fare carriera nella struttura militare dell’impero cinese. Con una indubbia abilità politica e diplomatica, e inusuali doti di gestione delle truppe mercenarie, seppe rendersi indispensabile ai suoi superiori, conquistandosi grande considerazione anche come tattico di rilievo, grazie alla rapidità di movimento con cui interpretava la guerriglia di frontiera.

    Fruì della congiuntura favorevole ai governatori provinciali durante la dinastia Tang, costituendo un potentato pressoché autonomo e un esercito privato di 100.000 uomini, nel quale risaltava un corpo d’élite di 8000 effettivi di etnia turca e mongola, che chiamava figli.

    Il suo ruolo è fondamentale nella storia cinese, poiché la sua ribellione pose fine alla secolare unità dell’impero, dando la stura a una parcellizzazione dei poteri e alla separazione della periferia dal centro che, da allora in poi, avrebbero limitato l’estensione dell’impero stesso e impedito a qualsiasi dinastia indigena di raggiungere livelli di splendore e potenza pari a quelli del primo periodo Tang.

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    La Cina all'epoca della rivolta di An Lu-shan.

    La battaglia: Passo di T’ung-kuan

    Per mesi An Lu-shan non osò attaccare l’armata imperiale attestata al Passo di T’ung-kuan, e altrettanto prudenti furono gli avversari, riluttanti ad abbandonare la postazione. I due eserciti rimasero in stallo fino all’inizio dell’estate del 756, mentre An Lu-shan apprendeva che nei suoi territori si verificavano ribellioni e defezioni.

    La situazione apparentemente favorevole diede alla corte imperiale il coraggio di allestire una controffensiva, cui il primo ministro Yang Kuo-chung diede avvio in luglio, dopo aver radunato un’armata che si disse essere di 200.000 uomini, al cui comando aveva posto Geshu Han. L’avanzata verso est scattò il 5 luglio, ma si arenò due giorni dopo a ovest di Ling-Pao, quando la cavalleria barbara di An Lu-shan sorprese l’avanguardia imperiale in una stretta gola dove i lealisti erano impossibilitati a manovrare. Per dare lo scossone definitivo all’armata ribelle, i comandanti nemici immisero nello scontro, ormai degenerato in una feroce mischia di cavalleria pesante, la riserva costituita dalla guardia imperiale; ma i ribelli tennero e ripresero l’iniziativa, fino a mettere in fuga gli avversari.

    La ritirata di questi ultimi trasmise il panico anche a quelli che li seguivano e al corpo principale; in breve, l’intera armata imperiale fu in rotta, e molti annegarono nel Fiume Giallo, dove si erano gettati in maniera confusa e ostacolandosi l’un l’altro per nuotare verso la riva opposta. Le perdite furono altissime e lo stesso comandante finì nelle mani degli insorti, i quali trovarono il passo ormai quasi sguarnito e se ne impossessarono facilmente.

    illustrazione

    Cavaliere pesante dell’esercito cinese.

    FONTI: Graff D.A., Medieval Chinese Warfare 300-900, London 2002; Kwanten L., Imperial Nomads, Leicester 1979; Levy H.S., Biography of An Lu-shan, extracts from Chiu T’ang-shu, Berkeley 1960; Newark T., Medieval Warlords, London-NewYork-Sidney 1987; Pulleyblank E.G., The Background of the Rebellion of An Lu-shan, Oxford 1955; Roberts J.A.G., Storia della Cina, Roma 2002; Rotours R. des, Histoire de Ngan Lou-chan, Paris 1962.

    Annibale

    Il più grande e geniale nemico che i romani abbiano mai avuto era figlio d’arte. Le cronache ce lo descrivono allevato nell’odio per i capitolini dal padre, Amilcare Barca, il più valido comandante cartaginese nella prima guerra punica. Nato nel 247 a.C., Annibale trascorse la sua adolescenza in Spagna, dove operò con suo padre a partire dal 237, e rilevò quasi naturalmente il comando dell’esercito punico dopo la morte del genitore nonché, nel 221, del genero di Amilcare, Asdrubale.

    Fermamente determinato a riaprire le ostilità con Roma, nel 219 Annibale si diede ad assediare Sagunto, città iberica alleata dei capitolini, espugnandola dopo otto mesi. Creato così il pretesto per farsi dichiarare guerra, mosse alla volta dell’Italia, seguendo l’esempio di Pirro, di cui si dichiarava convinto emulo, ma con il fermo proposito di superarne i limiti strategici; il suo obiettivo, infatti, consisteva nel guadagnare alla propria causa i popoli della penisola che facevano parte della confederazione guidata da Roma.

    Nel 218 Annibale passò dapprima i Pirenei e poi le Alpi, che valicò attraverso il Monginevro o il Piccolo San Bernardo in settembre ma con la neve, il che gli costò la perdita di quasi tutti gli elefanti che si era portato dietro. Una volta a sud della catena alpina, suo primo intento fu di conquistare l’adesione alla propria causa delle tribù galliche, in rapporti blandi se non addirittura conflittuali con Roma.

    La conquista della capitale dei taurini, l’odierna Torino, iniziò a orientare la scelta dei celti, il cui favore però Annibale si conquistò pienamente quando inflisse una prima sconfitta all’esercito romano condotto dal console Lucio Cornelio Scipione, sul Ticino. Entro la fine dell’anno i romani furono nuovamente vittime della sua genialità tattica, subendo una batosta ben più grave sulla Trebbia, dove il condottiero sgominò ben due eserciti consolari. La nuova sconfitta indusse i capitolini ad abbandonare all’avversario l’intera pianura padana e a trincerarsi a difesa dell’Italia centrale.

    A tal fine, i due nuovi consoli si posero a presidio delle vie di accesso al Lazio, con uno di essi, Caio Flaminio, a ridosso dei valichi montani. Annibale si mosse non appena si sciolsero le nevi, per affrontare gli Appennini la cui traversata, però, nella fanghiglia primaverile, si rivelò ben più ardua di quella alpina; lo stesso condottiero perse un occhio, aggredito da un’infezione. Una volta giunto a portata dell’esercito di Flaminio, iniziò una partita a scacchi nella quale il console cercava di stringere l’avversario tra la propria armata e quella del collega, mentre Annibale tentava di costringerlo alla battaglia prima che arrivasse l’altro.

    Nel giugno del 217, sul lago Trasimeno, il condottiero punico riuscì ad attirare il nemico nella ristretta piana tra l’acqua e le alture adiacenti, sterminandolo col contestuale attacco delle sue forze disposte frontalmente e di quelle nascoste lungo le colline. Cadde anche il console, e la grave disfatta indusse i romani a evitare, da quel momento in poi, qualsiasi contatto campale con l’armata d’invasione. D’altronde Annibale, lungi dal voler puntare su Roma, continuò a perseguire la sua strategia di accerchiamento, e a tal fine scese verso il Meridione, stanziandosi in Puglia. Tuttavia, la tattica temporeggiatrice dei romani durò solo fino a quando rimase in carica il dittatore Fabio Massimo. A Canne, il 2 agosto 216 a.C., i due nuovi consoli avevano con loro ben otto legioni, ciononostante subirono una disfatta di proporzioni immani.

    A quel punto Roma, che aveva perso più di 100.000 uomini in un triennio di lotta, era priva di difese; ma Annibale rifiutò ancora una volta di lanciarsi alla sua conquista, preferendo stazionare nell’Italia meridionale negli anni successivi, attenendosi a una guerra di logoramento che, unitamente alle frequenti defezioni degli alleati, si augurava avrebbe spinto l’Urbe a chiedere la pace.

    Ma le adesioni alla sua causa non furono così ampie come aveva sperato, mentre la sua relativa inazione diede tempo all’Urbe di rifiatare, grazie all’azione temporeggiatrice di Fabio Massimo e alle sortite di Claudio Marcello, che riuscì a sottrarre ai cartaginesi la Sicilia, isolando Annibale nella punta dello stivale. Nel 207 a.C. il condottiero punico tentò di allestire un’invasione della penisola su scala più ampia, cercando un collegamento con il fratello Asdrubale, giunto dalla Spagna per la stessa via seguita da lui un decennio prima; ma i romani sconfissero e uccisero quest’ultimo sul Metauro.

    Quando Scipione sottrasse ai cartaginesi anche la Spagna, la sorte di Annibale parve segnata. La strategia offensiva del generale romano, che portò la guerra direttamente in Africa, indusse infine i punici a richiamare a Cartagine il vecchio condottiero, che si imbarcò a Crotone nel giugno del 203, dopo sedici anni di guerra nella penisola senza una sconfitta. Dopo oltre un anno di schermaglie, Annibale fu

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