I Mille. La battaglia finale
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Sul Volturno o vittoria o morte.
Il primo ottobre 1860 Garibaldi si trova ad affrontare la battaglia più difficile della sua lunga carriera militare. Deve combattere contro il Real esercito del Regno delle Due Sicilie, superiore al suo per numero di uomini, artiglieria, posizione e mezzi. Nessuna delle tattiche da guerriglia a lui note può essere utilizzata; trincerati in fretta e furia, i soldati devono fronteggiare un nemico determinato e consapevole. Francesco II di Borbone e i suoi generali sanno di non avere alternative: devono superare la barriera del Volturno e battere sul campo le temute camicie rosse di Garibaldi. Il generale sa che, se i borbonici sfonderanno le sue linee, tutto sarà perduto.
La preparazione della battaglia è una corsa contro il tempo e una sfida alle croniche carenze di un esercito di volontari, che manca di tutto quello che i borbonici hanno in abbondanza: cannoni, polvere, munizioni, cibo, cavalleria leggera e pesante. I garibaldini affrontano il nemico in contrattacchi furibondi, lanciando sassi, combattendo a mani nude.
I preparativi, le tattiche utilizzate negli scontri, il contrapporsi di due diversi modi di combattere e di due differenti mentalità rivivono nel saggio di Andrea Marrone, che guida il lettore passo dopo passo nei momenti salienti della battaglia decisiva per l’Unità d’Italia.
Le tappe della battaglia decisiva per l’Unità d’Italia.
• In mille contro centomila
• Gli scontri di Caiazzo
• La spedizione di Csudafy
• Domenica, 30 settembre 1860: la vigilia
• Lunedì primo ottobre 1860: la resa dei conti
• La sacca di Caserta
• Cronologia della battaglia del Volturno
• Organizzazione e struttura del Real esercito del regno delle due Sicilie
• I reggimenti esteri del Regno delle due Sicilie, la rivolta
• La tecnica militare di Garibaldi
• Epilogo: l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II
Andrea Marrone
ha vissuto e lavorato per vent’anni in Estremo Oriente. Collabora con testate giornalistiche italiane ed estere. Ha scritto i romanzi Lettera a un archivista fedifrago e Kaffir, ambientato in Afghanistan. Per la Newton Compton ha pubblicato il saggio I Mille. La battaglia finale e La disfatta del Terzo Reich.
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Anteprima del libro
I Mille. La battaglia finale - Andrea Marrone
1
In Mille contro centomila
Si dice che un uomo sul punto di morte a volte possa apparire improvvisamente in buona salute, i lineamenti gli si distendano e riprenda un colorito sano per pochi momenti prima di esalare l’ultimo respiro. Quella era la situazione in cui si trovava il Regno delle Due Sicilie nel settembre del 1860.
Il pugno di garibaldini sbarcati a Marsala l’11 maggio dello stesso anno si era rafforzato, passando di vittoria in vittoria, fino a contare circa 21.000 uomini tra volontari settentrionali giunti a più riprese e volontari meridionali, specialmente siciliani e calabresi. Napoli, che pure si era mostrata entusiasta e tripudiante per l’ingresso di Garibaldi e la fuga di re Francesco II, aveva dato solo uno sparuto contributo di ottanta volontari. Sotto l’urto di questi pochi uomini il Regno delle Due Sicilie si era accartocciato su sé stesso fino a giungere ai suoi confini settentrionali e a non avere altra scelta che quella di battersi o scomparire. I garibaldini, in cinque mesi di campagna, si erano forgiati in un esercito disciplinato, coeso e determinato. Erano stati temprati dalle ripetute vittorie mentre, dall’altra parte, il Real esercito del Regno delle Due Sicilie era ormai demoralizzato dalla apparente invincibilità garibaldina e dalla accoglienza che, in Sicilia e in Calabria, il popolo gli aveva tributato.
All’inizio delle ostilità il Real esercito del Regno delle Due Sicilie era difeso da una forza armata che contava 93.000 uomini e 2800 ufficiali eppure, fin dalle prime battaglie, le sue sconfitte furono nette. Bisogna anche dire che sia in Sicilia che in Calabria la popolazione locale, quando non si schierò apertamente con i garibaldini, non prestò comunque nessun tipo di supporto al Real esercito, colpevole di essere stato protagonista di numerose e spietate campagne di repressione dei numerosi moti popolari antiborbonici. In Sicilia, in particolare, la rivolta del 1848 e la sua repressione erano ancora ben vive nella memoria collettiva e questo causò una rara saldatura tra gli intellettuali mazziniani, come Rosolino Pilo e Corrao, o comunque antiborbonici, e il popolo. Francesco II poteva contare sulla fedeltà delle popolazioni solo di alcune zone della Campania. La maggior parte dei suoi ufficiali, o per aderire all’ideale dell’unità d’Italia o per opportunismo, quando non tradiva apertamente si prestava a combattere i garibaldini con una volontà assai blanda.
2
La situazione dei Mille
alla partenza da Quarto
Sembra incredibile che un pugno di uomini determinati possa avere, nel giro di cinque mesi scarsi, invaso e occupato un regno di dodici milioni di abitanti, e ancora più incredibile è la mancanza di materiale bellico a disposizione dei garibaldini nella fase dello sbarco. D’altra parte si era ancora nel periodo in cui coraggio e impeto valevano tanto quanto cannoni e fucili.
Quanti erano, in effetti, i Mille e da dove provenivano? Ippolito Nievo, nel suo Giornale della spedizione di Sicilia ha registrato questi dati:
Bresciani 150; Genovesi 60; Bergamaschi 190; Pavesi e studenti d’Università 170; Milanesi ed Emigrati abitanti in Milano 150; Bolognesi 30; Toscani 50; Parmigiani e Piacentini 60; Modenesi 27; Emigrati Napoletani e Siciliani 110; Emigrati Veneti 88; Totale: 1085.
A Talamone, nella prima tappa del viaggio avventuroso verso la Sicilia, già un pugno sparuto di repubblicani radicali si ritira dall’impresa a seguito di due episodi che vale la pena di raccontare. Uno è relativo all’enfasi di Garibaldi a inneggiare all’Italia e Vittorio Emanuele, ovviamente uno sberleffo per i mazziniani più intransigenti; l’altro è per l’aver indossato una giacca da generale dell’esercito sabaudo. Garibaldi pare ben conscio del fatto che solo la monarchia sabauda può condurre, in tempi ragionevoli, l’Italia all’unificazione e del resto questa consapevolezza era condivisa anche da molti garibaldini. Abba riporta nel suo resoconto dell’impresa dei Mille, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, il sentimento di molti: «Vittorio. Gran fortunato questo Principe! Chi vuol fare qualcosa per la Patria, sia pure non amico di re, deve contentarsi di dar gloria a lui». Questo per buona pace dei repubblicani mazziniani, il fatto invece di avere indossato quella giacca fu una delle tante scaltrezze di Garibaldi come rivoluzionario. L’idea, rivelatasi giusta, era quella di dare l’impressione al comandante del forte di Talamone e all’ufficiale di sanità, presente all’incontro con Garibaldi, che l’impresa dei Mille avesse l’egida esplicita del Piemonte. Convinto della legittimità dell’impresa di Garibaldi, il comandante del forte, Salvatore de Labar, cedette ai Mille quasi tutte le scorte militari in suo possesso, motivo per il quale venne poi incarcerato e liberato solo dopo che l’invasione del Regno delle Due Sicilie fu coronata da successo.
I garibaldini erano partiti da Quarto con 1019 fucili obsoleti e rugginosi che Abba nel suo Storia dei Mille così descrisse: «Di avanti il ’48, trasformati da pietra focaia a percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri», e ottomila lire concesse a malincuore da Cavour forse proprio con la speranza che Garibaldi, così male equipaggiato, finisse i suoi giorni da rivoluzionario in Sicilia, dove avrebbe dovuto affrontare un esercito moderno di quasi centomila soldati. Lo stesso generale, in una lettera dell’8 maggio da Talamone, racconta di come due barche, condotte da un certo Profumo, all’atto della partenza da Quarto, si smarrissero con duecentotrenta fucili, tutte le pistole, le capsule fulminanti e tutte le carabine. Dopo averle attese invano, Garibaldi dovette dare l’ordine di partire senza di esse. È abbastanza giustificato pensare che si trattasse di un ennesimo sgambetto maligno del conte di Cavour. Oltretutto Abba riporta come i due incaricati di fare da guida per le barche smarrite fossero gli stessi che avevano già fatto smarrire
una barca, su cui si trovava Rosolino Pilo, che avrebbe dovuto rifornire la spedizione di Pisacane del 1857 di armi e munizioni. Pisacane partì senza le armi e l’epilogo della sua spedizione è ben noto.
A Talamone, Garibaldi si prese la rivincita svuotando il forte di «10 quintali e mezzo di polvere, 9 quintali di piombo, 70.000 capsule, 29.000 cartucce, 704 quinterni di carta, 2 cannoni da 6 senza affusto, uno da 3 con affusto ed una vetusta colubrina, nonché altro materiale». Tutto materiale periziato dalla direzione d’artiglieria di Torino in 8156 più 2362,21 lire, evidentemente al fine di recuperare il danno se i responsabili fossero stati condannati. Una nota curiosa riguarda la giacca da generale piemontese portata in quel giorno da Garibaldi. La stessa divisa venne indossata nuovamente e ancora una volta, sicuramente per dare l’impressione di avere la piena legittimità, il 30 maggio quando, su iniziativa dell’ammiraglio inglese a capo della squadra navale spedita a sorvegliare la situazione, a bordo della HMS Hannibal, Garibaldi incontrò i generali del regio esercito del Regno delle Due Sicilie per discutere l’armistizio che avrebbe messo fine ai combattimenti nella città di Palermo. In quell’occasione, Garibaldi stesso annota come venisse, per la prima volta, chiamato eccellenza
e non farabutto. Poi, nel 1864, la giubba spunta fuori a Caprera quando Garibaldi si accorse che uno dei suoi tuttofare, Luca Spano, addetto ai lavori più umili nella grande tenuta agricola del generale, era vestito di stracci. L’umanità di Garibaldi lo spinse a cercarne una nell’armadio e, trovata proprio quella da generale, gliela mise sulle spalle. Il destinatario di quel regalo insolito e generoso, che poi andò a morire eroicamente a Bezzecca nel 1866, indossò la giacca per qualche mese fino a che una delle tante inglesi infatuate del generale, la signora Chambers, gliela comprò per una sterlina. La giacca venne poi battuta all’asta a Londra per una grossa somma e probabilmente si trova ancora in quel Paese, in un museo o in qualche collezione privata di cimeli.
I cannoni, preda garibaldina a Talamone, erano sostanzialmente dei ferrivecchi che, però, fecero anche così tanto rumore da spaventare i soldati napoletani. Anche dalla guarnigione di Orbetello, comandata dal colonnello Giorgini, Garibaldi riuscì a ottenere bocche da fuoco e materiale. Alla fine, Garibaldi arrivò a Marsala con due pezzi in bronzo da campagna dai garruli nomi di Ardito e Gioioso, entrambi fusi nel 1802, come attestato dal rilievo sulla culatta, un pezzo in ferro e una improbabile colubrina fusa nel bronzo a Firenze nel 1600 da Cosimo Cenni. Su quest’ultima arma, che fu perfino messa in batteria e che tirò anche qualche colpo nei primi combattimenti in Sicilia, c’è un altro curioso aneddoto da raccontare. I volontari della legione italiana che, al comando di Garibaldi all’inizio della sua carriera di guerrigliero, combatterono in Uruguay, nel 1845 conquistarono la piccola piazzaforte di Lavalleja dove, oltre alla guarnigione, presero anche una gemella della colubrina dei Mille, anche quella fusa da Cosimo Cenni a Firenze nel Seicento e portata sul Rio de la Plata o dai primi spagnoli o dai portoghesi.
Garibaldi ottenne anche dal maggiore Pinelli, comandante del XXV reggimento bersaglieri di stanza temporanea a Orbetello, un centinaio di carabine Enfield e qualche migliaio di capsule fulminanti, promettendogli, però, di rispedire a terra, cosa che lealmente fece, tutti i soldati che disertarono per unirsi a lui. Oltre alle armi, la spedizione ottenne anche cibo, riporta nel suo I Mille: da Genova a Capua il garibaldino Giuseppe Bandi: «I quarti de’ bovi e i caci maremmani e le corbe del pane e i barili del vino erano sul cassero» e, a Porto Santo Stefano, tanto carbone che Bixio dichiarò sarebbe bastato per arrivare in Sicilia e, se necessario, anche all’inferno.
A Talamone, Garibaldi organizzò anche l’organigramma delle compagnie e si diede una struttura logistica di facciata affidando l’Intendenza militare a dei reduci mutilati e al poeta e scrittore Ippolito Nievo che, già famoso per i suoi romanzi, morì nel naufragio di un vapore al largo di Napoli, nel 1861, mentre portava i libri contabili della spedizione sui quali era stata ordinata dalle autorità piemontesi una verifica. La sua morte lasciò incompiuto il suo capolavoro, Le confessioni di un ottuagenario, che aveva interrotto per accorrere alla spedizione dei Mille. Venne anche creato un minuscolo corpo di sanità e una sezione del genio in cui militarono degli esperti artigiani. Non mancavano i talenti, sia pratici che artistici, tra i Mille. Ecco cosa riporta Cesare Abba nel suo I Mille:
La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più che per metà composta d’uomini di studio e d’intelletto. Ne contava più d’un centinaio e mezzo che erano già o divennero poi avvocati; e così come questi un centinaio di medici, un mezzo centinaio di ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci pittori o scultori, parecchi scrittori o professori di lettere e di scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi.
La sosta a Talamone fu provvidenziale anche per la sicurezza della spedizione. Una squadra navale napoletana inviata a intercettare Garibaldi lo sopravanzò e andò a fargli la posta nel golfo di Genova mentre lui, indisturbato, faceva vela per la Sicilia.
Cavour, dopo la sosta a Orbetello e a Santo Stefano, dove Bixio depredò astutamente le scorte immagazzinate per l’unica unità navale del Granducato di Toscana, Il Giglio, che rimase in servizio nella marina sarda fino al 1879, ordinò all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, al comando di tre pirofregate, di arrestare Garibaldi se fosse sbarcato in Sardegna, ma di lasciarlo indisturbato se lo avesse incrociato in mare aperto. Di fatto Persano, uomo di mare di singolare incompetenza a cui si deve la clamorosa disfatta navale italiana nella battaglia di Lissa del 1866, non giunse mai in vista della minuscola flotta garibaldina. Scaltrezza, immaginazione, spirito d’iniziativa e carisma furono gli ingredienti che spianarono la strada a un’impresa epica e, sulla carta, destinata a un fallimento sicuro come quella di Pisacane. In Sicilia, estremo lembo d’Italia, preda per millenni di ogni sorta di invasori e avventurieri, un pugno di italiani guidati da un rivoluzionario attempato, malato d’artrite e alto un metro e sessantacinque, dotato di inventiva, caparbietà, coraggio e fortuna, avrebbe cominciato la sua lotta senza quartiere per l’unità d’Italia.
3
«Qui si fa l’Italia o si muore»
I Mille arrivarono a Marsala, dopo essere stati avvertiti da navi inglesi che quel porto non era presidiato dalla marina borbonica, l’11 maggio 1860. Dopo lo sbarco, la marina borbonica, comandata dal capitano di fregata Guglielmo Acton, arrivò a Marsala e affondò il piroscafo Lombardo, già fatto incagliare all’entrata del porto da Nino Bixio proprio per contrastare un attacco della squadra navale borbonica. Due navi da guerra inglesi, poste a difesa degli interessi della ditta britannica che a Marsala produceva e stoccava il vino di Marsala, che cominciava a concorrere con il Porto prodotto sempre da altri inglesi in Portogallo, ostacolarono con la loro presenza i movimenti delle navi borboniche. Qualche cannonata arrivò, come riportato dalle cronache contemporanee, sulle banchine del porto tra i garibaldini appena sbarcati, ma senza produrre danni apprezzabili. Da Marsala Garibaldi raggiunse, il 14 maggio, Salemi da dove proclamò la dittatura in nome del re Vittorio Emanuele II. Nel frattempo accorrevano, sotto la sua bandiera di Montevideo, donata dagli italiani lì residenti, centinaia di volontari siciliani, i picciotti
.
Il 15 maggio, a Calatafimi, ebbe luogo la prima battaglia tra i garibaldini e il Real esercito. In realtà, si trattò di una battaglia d’incontro, entrambi i contendenti non avevano avuto il tempo di preparare una seconda linea fortificata da utilizzare in caso di ripiegamento e, oltretutto, i borbonici erano convinti di fronteggiare, come altre volte in un passato anche recente, una banda di banditi, impressione avvalorata dalla vista delle camicie rosse indossate da molti garibaldini, camicie identiche a quelle dei prigionieri dei bagni penali del Regno delle Due Sicilie.
I borbonici si trovavano in un’ottima posizione, sull’altura Piano Romano, in posizione dominante rispetto ai garibaldini che, per arrivare a loro, dovevano percorrere un lungo tratto in salita su un pendio pietroso. Il Real esercito aveva, a Piano Romano, circa quattromila effettivi con un distaccamento di cavalleria e quattro pezzi d’artiglieria di cui due di moderna concezione a canna rigata. I reparti di cacciatori erano dotati di armi moderne a lunga gittata che gli permettevano di bersagliare i garibaldini senza essere minacciati dai loro tiri, a eccezione della quarantina di carabinieri genovesi comandati da Mosto, che disponevano delle loro armi personali, moderne carabine a canna rigata in grado di competere con le armi borboniche.
Un contingente del Real esercito, comandato dal maggiore Michele Sforza tentò subito, dopo averle avvistate, l’attacco alle avanguardie garibaldine ma venne respinto e dovette risalire in disordine il pendio. I garibaldini li inseguirono alla baionetta incuranti degli squilli di tromba che segnalavano di fermarsi. Solo l’intervento del grosso della colonna Landi riuscì a inchiodarli sul terreno dove i muretti a secco offrivano loro un riparo precario.
Davanti a Garibaldi c’era una colonna comandata dal generale Landi, che poi perse un figlio, tenente delle guardie del corpo a cavallo sul Volturno, e composta dall’8° battaglione cacciatori del maggiore Sforza, il II battaglione del X di linea del tenente colonnello Pinie, il battaglione carabinieri del tenente colonnello De Cosiron, che ritroveremo a combattere, con coraggio e perizia, sul Volturno al comando di unità di tiragliatori. La colonna comprendeva anche uno squadrone di cacciatori a cavallo e quattro obici. I garibaldini, a volte guidati personalmente da Garibaldi che, a sciabola sguainata, li conduceva all’assalto, cercarono molte volte di guadagnare la cima contesa. Nell’azione, Simone Schiaffino, amico di Garibaldi e alfiere dei Mille, fu ucciso e la bandiera, cucita dalle italiane di Valparaiso e donata a Garibaldi, cadde in mano ai borbonici e poi venne nuovamente strappata da un furioso attacco alla baionetta.
Alla fine, stremati e privi di munizioni, preoccupati per le retrovie rese insicure dalle rivolte popolari, furono proprio i borbonici che iniziarono una precipitosa e disordinata ritirata, perdendo perfino uno dei cannoni che precipitò giù da un sentiero durante il trasporto. Fecero una breve sosta a Partinico dove si abbandonarono a saccheggi e violenze e dove la loro retroguardia, sorpresa e annientata dalla reazione popolare, rimase insepolta fino all’arrivo di Garibaldi. Quando arrivarono a Palermo il loro aspetto disperato e lacero fu un duro colpo per il morale delle truppe che vi si trovavano e, al contrario, galvanizzò i rivoltosi che, in città, si preparavano all’arrivo dei garibaldini. Si parlò immediatamente di tradimento, sembrava impossibile che uno sparuto gruppo di guerriglieri sconfiggesse sul campo un esercito moderno schierato in posizione vantaggiosa.
Le inchieste del governo borbonico prosciolsero da ogni addebito il generale Landi. Il successivo esito della campagna intrapresa da Garibaldi sembra avvalorare la tesi che il Real esercito non avesse in sé la determinazione di combattere e vincere, e questo non solo per vigliaccheria o per disamore per la causa borbonica, ma anche per la ritrosia nell’affrontare altri italiani. Molti reparti si batterono con onore affrontando gravi perdite, come attesta questo brano di Giuseppe Cesare Abba, il cronista dei Mille:
Li abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina, per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare sogno, ma a loro!… Passavano umiliati, o baldanzosi. Superbi i cacciatori dell’ottavo battaglione che combatterono a Calatafimi e qui, lasciando qualche morto in ogni punto della città! Certo li comandava un valoroso.
Se ne vadano, e che ci si possa rivedere amici!
Lo scacco di Calatafimi causò, nei siciliani, l’inizio del mito della invincibilità di Garibaldi che molto contribuì all’affluire di nuovi volontari tra le file di quello che si apprestava a diventare l’esercito meridionale
. Lo stesso mito sarebbe diventato anche un significativo fattore di insicurezza tra le file del Real esercito, insicurezza diffusa trasversalmente tra ufficiali e truppa e concausa del crollo militare borbonico.
Anche l’episodio truce del massacro della retroguardia a Partinico sortì degli effetti. Garibaldi, impressionato dalla vista dei cadaveri borbonici denudati, straziati e lasciati insepolti tra i cani randagi, decise di emanare una serie di editti volti a evitare che le sollevazioni popolari si risolvessero in atti