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Questa non è l'Italia
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E-book300 pagine4 ore

Questa non è l'Italia

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Info su questo ebook

Il nuovo sconvolgente libro del giornalista americano più amato dagli italiani

Primo in classifica

Storie segrete e verità shock dietro il nuovo volto del nostro Paese

Con un accattivante taglio saggistico-narrativo Alan Friedman ci racconta in tempo reale quali sono i maggiori cambiamenti cui sta andando incontro il nostro Paese. L’autore, uno dei più attenti e autorevoli osservatori delle dinamiche politico-economiche di casa nostra, ci guida attraverso i temi caldi del momento per districarci tra le innumerevoli informazioni da cui ogni giorno veniamo raggiunti, separando il grano dal loglio. La situazione attuale è molto critica e tante sono le questioni su cui riflettere o interrogarsi. L’immigrazione è veramente un’emergenza nazionale? Le regole della moneta unica possono essere realmente riviste? Il nostro sistema bancario è solido? Quanto è affilata la spada di Damocle del nostro debito pubblico? Rischiamo un’altra crisi? Nella sua lucida analisi, Friedman non ferma il proprio sguardo all’interno dei confini dello stivale, ma si spinge oltre, guardando al futuro dell’Europa, alle mutevoli dinamiche geopolitiche e alle travagliate relazioni tra l’Europa e la Russia, la Cina e gli Stati Uniti di Donald Trump. E le conclusioni potrebbero essere sorprendenti. Un’analisi a tutto tondo del nostro Paese dove, come è successo con il bestseller Ammazziamo il Gattopardo, l’autore è capace di mettere a fuoco le questioni che più stanno a cuore ai lettori, dando risposte semplici e chiare. Senza lasciare spazio a inutili catastrofismi, perché le ricette ci sono e basta solo seguirle. Un libro divulgativo che non mancherà di suscitare polemiche tra i detrattori della verità e tra tutti coloro che pensano che gli italiani abbiano ancora voglia di essere manipolati per favorire il successo personale di pochi a discapito delle sorti del Belpaese.

La classe politica italiana ci sta conducendo sull’orlo del baratro. 
Riusciremo ad aprire gli occhi prima di precipitare?

• Quale significato dare al risultato delle ultime elezioni europee?
• Quella dell’immigrazione è davvero un’emergenza?
• Quali saranno le conseguenze sull’economia italiana dell’addio di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea?
• Quali le prospettive future per lavoro e crescita nell’era del populismo?
• Le politiche economiche del governo giallo-verde sono un successo o un fallimento?

Scioccante, lucido, ironico, onesto, spietato, graffiante, potente

Il nuovo libro di Alan Friedman, l’unica bussola affidabile per orientarci in un Paese alla deriva

Alan Friedman
È un giornalista statunitense esperto di economia e politica. All’inizio della carriera fu collaboratore del presidente Jimmy Carter, poi è stato per lunghi anni corrispondente del «Financial Times», in seguito inviato dell’«International Herald Tribune» e editorialista del «Wall Street Journal». Tra i suoi libri: Tutto in famiglia, La madre di tutti gli affari, Il bivio, Ammazziamo il Gattopardo (Premio Cesare Pavese), My Way. Berlusconi si racconta a Friedman da cui ha realizzato il documentario distribuito da Netflix in tutto il mondo. Con la Newton Compton ha pubblicato Questa non è l’America, per settimane in vetta alle classifiche dei libri più venduti e vincitore del Premio Roma per la Saggistica 2017, e Dieci cose da sapere sull’economia italiana, il libro di saggistica più venduto del 2018.
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2019
ISBN9788822736642
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    Anteprima del libro

    Questa non è l'Italia - Alan Friedman

    Prologo

    In alto, sovrastante la città di Francoforte, nell’ex quartiere popolare di Ostend, un imponente grattacielo grigio di centottantacinque metri svetta accanto alla riva destra del fiume Meno, innalzandosi sulle strutture primonovecentesche che una volta ospitavano un famoso mercato all’ingrosso di frutta e verdura, la Grossmarkthalle, un pezzo di storia della metropoli tedesca.

    Due torri di vetro, giustapposte e di differente altezza, sono collegate tra loro da un atrio: una costruzione impressionante costata all’incirca 1,3 miliardi di euro. Quarantacinque piani dove oggi lavorano quasi tremila banchieri. Al quarantesimo piano dell’edificio principale, una figura solitaria si aggira in uno spazioso ufficio colmo di luce, lancia un’occhiata furtiva allo skyline della città, prima di raccogliere alcuni documenti e qualche ricordo personale scelto con cura.

    Mario Draghi sta facendo gli scatoloni.

    Con un piccolo sforzo di fantasia e un pizzico di immaginazione non è difficile vederlo. Provate a figurarvelo, quest’uomo di settantadue anni, posato e dal fisico asciutto, dotato di un’intelligenza acuta e un carattere schivo, impeccabile nel suo completo a righe abbinato a camicia bianca e cravatta scura.

    Immaginate che oggi sia il 31 ottobre 2019, l’ultimo giorno del mandato di Draghi come presidente della Banca Centrale Europea. Provate a figurarvelo lì, ora, in piedi, nel suo ufficio.

    Quali saranno i suoi pensieri, mentre si prepara a lasciare il luogo in cui ha passato buona parte dell’ultimo decennio? Quante battaglie! Quante crisi! Quanti momenti di tensione drammatici ai vertici dell’economia europea e mondiale, fianco a fianco con i più grandi leader del pianeta. Mario Draghi, immancabilmente presente sul palcoscenico globale a ogni

    G

    7 e

    G

    20, a ogni summit europeo. L’insider degli insider. Il più autorevole. Il presidente Draghi. In certe fasi è stato lui il policy maker più potente di tutto il continente. La personalità più importante dell’unione monetaria, il vero, autentico custode dell’euro, odiato dai populisti, rispettato e temuto dal mondo finanziario, l’uomo che per lunghi anni ha spostato i mercati dall’epicentro della valuta unica. Colui che ha avuto il potere di decidere quanto denaro stampare, fissare i tassi d’interesse, influenzare i mutui e gli interessi bancari per più di 340 milioni di cittadini e aziende di ben 19 diverse nazioni.

    Cosa passa per la testa di questo navigato banchiere mentre sta per lasciarsi tutto alle spalle? Mentre contempla il suo ufficio di Francoforte per l’ultimissima volta?

    Forse pensa che non prenderà più l’ascensore che lo portava in pochi secondi alla grandiosa sala riunioni del quarantatreesimo piano, dove si tengono gli incontri mensili in cui si determinano le politiche della

    BCE

    . Perché è lì, sotto una cupola di vetro così alta da fendere quasi le nuvole, in quella stanza gigantesca con una vista maestosa su Francoforte, che si riunisce il consiglio che governa la Banca Centrale. È lì che vengono prese le decisioni fondamentali.

    O forse rammenta il giorno in cui la sua avventura europea ebbe inizio, il primo novembre 2011, quando il suo predecessore, il francese Jean-Claude Trichet, gli passò il calice avvelenato: una pericolosissima e galoppante crisi finanziaria. Magari ricorda con fierezza come riuscì a imporsi in quella circostanza, nel bel mezzo della tempesta, con la sua tipica determinazione pacata ma efficace. Fin dalla prima riunione del consiglio della

    BCE

    , che si tenne solo quarantotto ore dopo il suo arrivo al comando, quando subito iniziò a tagliare i tassi di interesse, con una brusca inversione di marcia rispetto alla politica monetaria adottata fino a quel momento.

    O chissà se Draghi, guardando fuori dalla parete vetrata del suo ufficio, in cima al grattacielo, non pensi al drammatico

    G

    20 di Cannes di quello stesso anno, quando Sarkozy e Merkel cercarono di defenestrare Silvio Berlusconi e l’Italia sembrava la prossima tessera destinata a cadere in quel domino della crisi iniziato con la Grecia. Proprio la cancelliera Angela Merkel, la stessa con la quale nel corso del tempo ha saputo creare un’alleanza produttiva e di grande successo, nonostante il profondo scetticismo che i tedeschi nutrivano verso di lui, l’italiano alla presidenza della

    BCE

    .

    O forse sta tornando con la mente alla torrida estate del 2012, quando annunciò solennemente al mondo intero che la

    BCE

    avrebbe fatto «tutto il necessario per preservare l’euro». Quel famoso whatever it takes che ha cambiato la Storia e ha inaugurato l’era Draghi, improntandola alla sua epocale opera di contrasto alla crisi. Super Mario! L’uomo che ha imbracciato il bazooka, l’uomo disposto a sfidare i giganti dei mercati.

    O magari, mentre ripone gli effetti personali, il suo sguardo si sofferma per un attimo sull’elmo chiodato appeso al muro, un Pickelhaube della fine dell’Ottocento, il tradizionale copricapo militare prussiano a punta. Draghi non è mai stato un beniamino dei prussiani, né mai molto amato dai falchi tedeschi. All’inizio del suo mandato, il tabloid «Bild» era scontento del fatto che un italiano fosse stato nominato a capo della Banca Centrale Europea.

    Per ricordare al signor Draghi la frugalità prussiana e dissuaderlo dall’impostare una politica espansiva basata sull’inflazione, la redazione del quotidiano gli inviò allora in regalo un Pickelhaube originale, un gesto dal significato simbolico. Il neopresidente lo accettò di buon animo, ma in seguito fu accusato nuovamente di essere tutt’altro che parsimonioso nelle sue manovre monetarie, di sprecare i soldi dei contribuenti tedeschi per salvare la prodiga Grecia. In Germania, c’è chi non ha mai accettato il Quantitative Easing, una delle iniziative che più segneranno il lascito di Draghi, ovvero l’iniezione di oltre 2600 miliardi di euro di liquidità nel sistema finanziario europeo, effettuato dal 2015 in poi, in gran parte per stabilizzare il sistema bancario. Attraverso questa colossale operazione, Draghi ha inoltre tenuto i tassi di interesse a zero, o comunque vicini allo zero, permettendo così a industrie e governi pesantemente indebitati di respirare un po’ durante gli anni della crisi. Ma non appena ha iniziato a mettere a punto il suo piano di acquisti massicci di bond governativi, il «Bild» ha protestato duramente, sostenendo che i soldi dei tedeschi non sarebbero dovuti finire nelle casse di «Stati bancarottieri». Ha persino chiesto a Draghi di restituire il Pickelhaube. Eppure, negli ultimi giorni del suo mandato, il copricapo prussiano a punta è ancora lì, sulla parete dell’ufficio nel quartier generale della Banca Centrale Europea di Francoforte.

    Le decisioni prese da Draghi hanno avuto un impatto davvero significativo sulle nostre vite. Hanno mantenuto i tassi bassi per diversi anni e aiutato l’Italia a pagare gli interessi del suo gigantesco debito pubblico, nonostante le difficoltà derivate dalla recessione e dalla crisi.

    La nostra amata Italia è seduta sopra a una bomba a orologeria, ed è stato proprio Mario Draghi, più di qualsiasi politico, banchiere e uomo d’affari, a permetterci di evitare un’implosione economica nel corso degli ultimi otto anni.

    Dal 2011 nessun leader, nel nostro Paese o in Europa, è stato più importante per l’Italia, per la sua economia e per il benessere del suo popolo. Nessuno ha fatto di più per salvare l’economia mondiale ed europea, per salvaguardare l’euro e la stabilità del sistema bancario. Quando la Storia avrà giudicato la sua opera, Mario Draghi finirà probabilmente nel pantheon di grandi statisti europei come Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Jean Monnet, François Mitterrand, Konrad Adenauer, Helmut Schmidt, Helmut Kohl e Angela Merkel.

    Sì, è così importante. Il suo operato è stato determinante per la stabilità dell’Europa dei primi anni del Ventunesimo secolo e per la resurrezione delle maggiori economie del continente, dopo la peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione del 1929.

    Ma chi è davvero Mario Draghi? E come ha fatto quest’uomo a scalare le vette delle istituzioni finanziarie europee?

    Mario Draghi nasce a Roma nel settembre del 1947. Suo padre Carlo è stato un funzionario della Banca d’Italia, successivamente dell’

    IRI

    e infine della Banca Nazionale del Lavoro: un alto dirigente di Stato. La madre, Gilda Mancini, è una farmacista. Mario è il maggiore di tre figli: la sorella Andreina è una storica dell’arte, il fratello Marcello fa l’imprenditore. Da ragazzo, frequenta l’Istituto Massimiliano Massimo, una scuola gesuita tra le più prestigiose ed esclusive della capitale.

    Un suo vecchio compagno di classe, che poi è diventato attore e presentatore, una star della televisione italiana, ha avuto modo di osservare molto da vicino il giovane Mario Draghi.

    «Era un tipo simpatico, un po’ riservato, con un grande senso dell’ironia», sospira un gioviale e paffuto Giancarlo Magalli, mollemente adagiato su un divano nel suo enorme salotto in legno scuro, zeppo di oggetti e ricordi della sua carriera televisiva. Alle sue spalle, un’ampia vetrata si apre su un parco con piscina; accanto, su una consolle dell’Ottocento, sono impilate le più recenti riviste di gossip che lo ritraggono in copertina. Sul tavolino che ci separa ci sono delle grosse ciotole ricolme di cioccolatini e caramelle. È un pomeriggio invernale, e ci troviamo in una grande villa immersa nel verde dell’Olgiata, un comprensorio residenziale alla periferia nord di Roma. Un servizio di vigilanza privata sorveglia l’area, chiusa da sbarre elettriche, dove sorgono le dimore di lusso, talvolta di dubbio gusto, di personaggi dello spettacolo, calciatori e imprenditori.

    Prima di iniziare la nostra chiacchierata, Magalli impartisce un ordine al suo nuovissimo Amazon Echo. Chiede ad Alexa, l’assistente vocale, di spegnere la musica. «Lo adoro», mi confida Magalli, caloroso e accogliente. «Ne ho uno qui e un altro nel mio appartamento di New York. E ne ho persino uno più piccolo in camera da letto. Ti dice le previsioni del tempo, accende le luci, mette la musica… Ha accesso a una libreria con venti milioni di brani». Poi, prima di parlare di Mario Draghi, da vero professionista, prende il suo iPhone 10 e toglie la suoneria. «Ha il riconoscimento facciale», dice con orgoglio tecnologico. Scopro così che Giancarlo Magalli può vantare competenze degne di un nerd della generazione dei post millennial e una casa che, a dispetto delle apparenze, è dotata di ogni sorta di gadget wireless e hi-tech.

    «Di Mario ho un ricordo divertente. Era simpatico, ironico», ricorda lo showman, con un’espressione da gatto sornione. «Io infatti un po’ lo compiango, perché è andato a fare un lavoro noiosissimo, il lavoro più noioso… I numeri, le banche… Mi fa tenerezza, perché so che lui non è così». E qui ridacchia di gusto, prima di procedere con i ricordi.

    «Aveva sempre questo sorriso, che ha mantenuto negli anni. Era una persona molto carina, molto gentile. Ovviamente non faceva chiasso, non era tra quelli incriminati, come me, però era un compagno piacevole. Eravamo abbastanza amici».

    Per sei anni sono stati assieme, Draghi e Magalli: tre anni di medie, due di ginnasio e uno di liceo. Allora, com’era il giovane Mario da teenager?

    «Era di quelli che non si mettono in mostra, né nel bene né nel male. Insomma, si faceva gli affari suoi, studiava, andava bene, però era benvoluto da tutti». Magalli fa una pausa e il suo volto si apre di nuovo in un sorriso, che stavolta esprime compiacimento.

    «La nostra era una classe abbastanza composita, c’era più di una persona che poi sarebbe diventata conosciuta. Per esempio, Luca di Montezemolo, che era già Luca di Montezemolo. Gli mancavano le Ferrari, ma tutto il resto lo faceva già. Poi Gianni De Gennaro, che è diventato capo della polizia. E Luigi Abete, altro banchiere… C’erano anche alcuni nipoti di cardinali, che lì, ovviamente, in una scuola di preti, avevano una corsia preferenziale. Però era una classe simpatica».

    «Quando Mario diventò governatore della Banca d’Italia», ricorda sghignazzando, «un settimanale lo mise in copertina: Mario Draghi, nuovo governatore della Banca d’Italia, e poi in un riquadro: Era a scuola con Magalli, come se fosse stato un master o una nota di merito… Allora gli scrissi: Dico, hai visto che essere stato a scuola con me è un titolo in più? Mi ha fatto molto ridere questa cosa, ti faccio un in bocca al lupo… Tutti mi chiedono se passavi i compiti. Io, onestamente, non me lo ricordo, però per farti fare bella figura rispondo di sì».

    «Non era il leader della classe, ma uno con cui tutti andavano d’accordo, era piacevole. Uno carino. Intelligente, sicuramente, e poi molto corretto, non era di quelli che fanno la spia al professore, che se gli chiedi il compito ti dice adesso no, non copiare…. Lo ricordo ragazzino, però era uguale a oggi, pettinato come adesso, con la sua riga tra i capelli, e quel sorriso che è il suo biglietto da visita. Pensa quanto s’annoia lì, a fare quello che fa!».

    E dopo quest’ironico sfoggio di compassione nei confronti del povero Draghi, Magalli esplode di nuovo in una fragorosa risata. Il sottoscritto, seduto lì sul divano davanti al grande showman, non riesce a fare altro che ridere insieme a lui. Ha una risata contagiosa.

    Giancarlo Magalli, con il suo fisico rotondetto ma tonico, è divenuto un personaggio nazionalpopolare, un volto familiare presente ogni giorno nei salotti di milioni di italiani. Il giovane Draghi, invece, era proiettato verso un destino diverso. Dopo essersi laureato alla Sapienza ha conseguito un dottorato in economia presso il Massachusetts Institute of Technology nel 1976, sotto l’egida di due tra i più grandi economisti del Ventesimo secolo, i premi Nobel Franco Modigliani e Robert Solow.

    Poi, a partire dal 1981, ha insegnato all’Università di Firenze, e dal 1984 al 1990 è stato Italian Executive Director della Banca Mondiale a Washington. Nel 1991, il ministro del Tesoro Guido Carli gli chiese di diventare direttore generale del Tesoro, incarico che ha svolto per un decennio, fino al 2001. È stato il più potente dirigente di via

    XX

    Settembre, ha trattato con tutti i primi ministri della sua epoca: Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, e poi di nuovo Amato e Berlusconi. Per dieci anni è stato membro del consiglio di amministrazione dell’

    IRI

    , dell’Eni e della

    BNL

    .

    Al Tesoro, Draghi ha dato un contributo essenziale alla messa a punto di uno dei più grandi programmi di privatizzazioni mai visti in Italia, allo scopo di ridurre il debito pubblico ed entrare così nella prima fascia dei Paesi che avrebbero aderito all’euro. Ha avuto un ruolo fondamentale nell’ideazione e nella stesura del trattato di Maastricht. Inoltre, ha riorganizzato la complessa e farraginosa macchina del ministero per renderla più efficiente e professionale. È stato anche il padre ispiratore del famoso Testo Unico della Finanza, il

    TUF

    , altrimenti conosciuto come legge Draghi, che ha migliorato il funzionamento dei mercati finanziari e della Borsa, nonché le leggi sulle offerte pubbliche. Alla fine degli anni Novanta, si era già guadagnato la fama di manager esperto, di politico abile e di profondo conoscitore della finanza internazionale. La stampa lo aveva soprannominato Super Mario.

    Nel 2001, quando Silvio Berlusconi torna al potere con Giulio Tremonti come ministro dell’Economia, Draghi rassegna le dimissioni dal Tesoro e si trasferisce a Londra. Per tre anni lavora alla Goldman Sachs, dove si vocifera abbia fatto un sacco di soldi. Poi, alla fine del 2005, il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio viene travolto da sospetti di attività illecite di ogni sorta e accusato di legami inappropriati con banchieri corrotti. Si rende necessario un cambio al vertice. Perciò, Draghi viene richiamato a Roma da Berlusconi, il quale, il 29 dicembre di quello stesso anno, lo nomina nuovo governatore della Banca d’Italia, incarico che mantiene fin quando non assume, nel 2011, la presidenza della Banca Centrale Europea.

    Dire che Draghi le ha viste tutte non è un’iperbole.

    Per coloro che comprendono come funziona davvero il mondo, Draghi è stato effettivamente l’angelo custode del suo Paese. L’uomo che ha salvato l’euro e l’economia italiana tra il 2011 e il 2019. È per questo che è ora di incrociare le dita e pregare che Christine Lagarde, designata a succedergli in un’economia globale con caratteristiche assai diverse, in circostanze profondamente mutate, e nel contesto di un’Europa che ha cambiato volto, si riveli degna del lascito del suo predecessore e riesca a portare avanti il lavoro di cruciale importanza che quest’ultimo ha compiuto nel corso degli anni – un’opera che è stata fondamentale per proteggere e preservare l’intera Eurozona, e l’Italia in particolare, in una lunga fase di instabilità politica e stagnazione economica.

    Questo periodo di grave incertezza fa parte del nuovo disordine mondiale, sorto non solo a causa della crisi e di una prolungata fase di recessione e sofferenze finanziarie, ma anche per l’influsso di forze molto più profonde e dirompenti che plasmano il mondo odierno. Le forze del populismo sovranista, che si nutrono del malcontento sociale ed economico.

    L’Italia ha alle spalle un decennio perduto, durante il quale ha subito una grave perdita di produttività dell’industria e sofferto a causa delle complesse problematiche nate con la globalizzazione. Numerose sono state le delocalizzazioni, che hanno impoverito il territorio; la mancanza di una crescita reale dei salari netti ha diminuito il potere d’acquisto della classe media e la disoccupazione ha raggiunto livelli aberranti, mentre oltre cinque milioni di italiani si ritrovano a vivere sotto la soglia di povertà. Tutto questo contribuisce a spiegare la rabbia e la paura di ampie fasce della popolazione, lo stesso disagio che si osserva in buona parte dell’Occidente. Quello che succede qui accade ovunque, ma il Belpaese è stato forse colpito con maggiore durezza.

    Gli italiani hanno un fardello ulteriore da portare sulle spalle: quell’altissimo debito pubblico creato da Andreotti e Craxi, dai politici della Prima e della Seconda Repubblica, e che continua a crescere anche adesso, con l’attuale governo. È un gravame brutale e schiacciante, una terribile eredità per i nostri figli che nascono già, ognuno, con 38mila euro di debito a testa. L’Italia vive un’epoca di notevole irrequietudine sociale e politica: una benedizione per i demagoghi, che possono facilmente canalizzare il malcontento a beneficio dei loro partiti. Promettono soluzioni facili e miracolose creando capri espiatori a cui poter addossare la colpa di tutto ciò che non va: gli immigrati, gli intellettuali, l’Europa, le banche, George Soros, l’establishment. Fanno crescere ancora più rabbia e frustrazione grazie alla loro retorica incendiaria, promettendo di sistemare tutto con uno schiocco delle dita – così, in un attimo! –, di cancellare le storture del passato, abolire la povertà e azzerare i vertici della classe dirigente. Assicurano che il futuro che ci aspetta sarà bellissimo e che solo loro sanno come fare per risollevare le sorti del Paese, basta fidarsi, basta votarli.

    Il problema è che il Paese oggi è messo male. L’Italia si trova a dover affrontare una miriade di sfide e pericoli, e in buona parte sono problemi che si è creata da sola. Con le elezioni di maggio, il Parlamento europeo è diventato più frammentato, ma l’Italia si trova comunque in minoranza. Nonostante questo, nella visione dell’uomo forte dell’esecutivo gialloverde è cominciata una nuova partita: la battaglia per l’anima del Vecchio Continente. Ma Salvini non troverà grande soddisfazione nella Commissione di Ursula von der Leyen. E anche se Lagarde sarà disposta a tenere bassissimi i tassi di interesse, e di conseguenza il livello dello spread, non è di certo una persona incline a fare sconti a un governo irresponsabile nella gestione dei conti pubblici. Né la

    BCE

    a guida francese né la Commissione a guida tedesca offriranno la chiave di volta che cerca il leader leghista.

    Il nuovo esecutivo europeo non salverà l’Italia. Solo l’Italia può salvare l’Italia.

    Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, il calvario di Trump continua. Ci avviciniamo a un periodo di paralisi politica e di crisi istituzionale. Questa non è più l’America di una volta, che faceva la parte del leone in un ordine mondiale basato sul diritto internazionale e sulla cooperazione multilaterale. Il Paese che poteva parlare con orgoglio di tradizioni democratiche e libertà di espressione. Non è più l’America dei nobili ideali.

    È un mondo sempre più pericoloso e complesso, quasi irriconoscibile. E se quella di oggi non è più l’America di una volta, anche l’Italia appare ben diversa da quella che conosciamo. Che fine ha fatto il Belpaese, quel popolo dotato di fantasia, energia, ottimismo e speranza per le sorti delle generazioni future? Che fine ha fatto l’Italia della civiltà e della cultura?

    Oggi viviamo in un’Italia incattivita, in un mondo arrabbiato e impaurito. Come ha fatto il continente europeo a finire così? E il Belpaese a ritrovarsi in uno stato di crisi permanente e continua? È colpa dei risultati delle elezioni di maggio e delle difficoltà economiche dell’Eurozona? Oppure la causa è rintracciabile nel gigantesco debito pubblico, o in un governo populista che non si è fatto scrupoli ad attaccare ogni istituzione pur di continuare a rimestare nel torbido, sobillare i disperati, incitare le folle, con l’obiettivo di acquisire consenso in una campagna elettorale che sembra non avere fine? Una politica così cupa, basata sull’odio e sulla ricerca di un capro espiatorio, non si vedeva dagli anni Venti. E tutto questo nel bel mezzo di un prolungato periodo di recessione e stagnazione.

    Come mai Letta, Renzi e Gentiloni non hanno reagito con efficacia, non sono riusciti a capire le sofferenze del loro popolo? Non sono colpevoli anche loro? Eppure i segnali c’erano, ed erano chiari per chi voleva coglierli. Da anni, ormai, nuvoloni scuri e carichi di pioggia si stavano addensando sopra il cielo dell’Italia e dell’Europa. La tempesta era in arrivo.

    1

    Tempesta in arrivo

    Il mondo che Draghi si sta lasciando alle spalle è radicalmente cambiato rispetto a quando si era insediato alla

    BCE

    , nel 2011. Politicamente, l’Europa è molto meno coesa. I populisti sovranisti ed euroscettici non hanno riportato le grandi vittorie sperate alle europee del maggio 2019, ma le forze moderate che mantengono la maggioranza risultano indebolite in un’Europa più frammentata. L’Italia, come tutta l’Unione del resto, si trova ad affrontare un momento epocale, storico: è di fronte a un bivio di importanza cruciale. Quella che è in corso è una battaglia campale che divampa per tutta l’Europa. In palio c’è l’anima del Vecchio Continente, una sfida tra i populisti dell’estrema destra e i moderati del centro, coloro che ancora credono nei principi della nostra democrazia – le forze del centrosinistra, del centrodestra, dei liberali. Fiaccati e divisi, ma ancora maggioritari se calcolati tutti insieme.

    L’unica similitudine tra l’autunno del 2011 – l’alba dell’era Draghi – e quello del 2019 è la debolezza dell’economia italiana, che all’epoca vedeva un aumento del

    PIL

    pari a un misero 0,5 per cento mentre oggi è tornata a zero, trascinando il Paese verso un prolungato periodo di stagnazione. Una condizione economica da cui fatica a riemergere, ed è molto improbabile che nell’immediato futuro il prodotto interno lordo torni a crescere in modo significativo, sempre ammesso che cresca. Ieri come oggi lo spread, cioè la differenza dei tassi di interesse pagati dall’Italia per i suoi

    BTP

    decennali rispetto a quelli pagati dalla Germania per i suoi Bund di uguale durata, resta elevato, nonostante si sia ridotto a seguito della manovra correttiva varata dal governo gialloverde e alla tregua con Bruxelles. Nell’autunno del 2011 lo spread aveva superato i 500 punti, mentre il governo Berlusconi vacillava, fino al

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