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La mafia nera
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E-book354 pagine4 ore

La mafia nera

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I depistaggi tra eversione neofascista e Cosa Nostra: storia di un’Italia oscura 

I depistaggi sono un capitolo della storia politica del nostro paese. In particolare, riguardano quella storia che è cominciata alla fine della seconda guerra mondiale: sostanzialmente un nuovo tipo di guerra.
Esiste una ideologia stragista, che costituisce un tratto della nostra modernità, si distingue dalla semplice violenza e il cui nucleo essenziale consiste nel considerare la morte di innocenti come un obiettivo strategico da perseguire. È stata seguita nell’Ottocento da gruppi anarchici; lo è oggi dagli aderenti al terrorismo jihadista; e, dal secondo dopoguerra in poi, ha trovato sostenitori nel nostro Paese all’interno di determinati ambienti politico-criminali, ben identificabili in una larga parte della destra più radicale e della mafia siciliana. Questo libro vuole portare un contributo alla memoria collettiva attraverso documenti pubblici, atti processuali e storie su cui vale la pena fare luce.

La storia di un’Italia oscura che, dal secondo dopoguerra, emerge in modo inquietante dalle inchieste giudiziarie 

Gli argomenti trattati:

Il lungo massacro: dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra 
I manifesti cinesi
I tecnici delle bombe e la scuola slovena di Trieste
La pista anarchica per Piazza Fontana
Le operazioni di esfiltrazione dei servizi
De Mauro e il golpe Borghese
Venti di golpe nel palazzo e tecniche di diversione
Piazza della Loggia, l’Italicus e un cadavere assolto
Il suicidio simulato di Peppino Impastato
I ragazzini della strage alla stazione di Bologna
Una pista nera per Piersanti Mattarella
Il finto sequestro Sindona
La prima trattativa
Il depistaggio perfetto o il paradigma di via D’Amelio
Post scriptum: la morte improvvisa dell’anarchico Franco Mastrogiovanni

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un pugno nello stomaco. [...] Una ricostruzione di storie emblematiche che corrono accanto agli ultimi decenni di storia di mafia “ufficiale”.»
Attilio Bolzoni, autore di Il capo dei capi

«È un libro durissimo, quello di Ceruso [...]. Ricostruisce le troppe ambiguità a cavallo tra la mafia e una religiosità distorta e oscena.»
Gian Antonio Stella, autore di La casta
Vincenzo Ceruso
È nato a Palermo, dove vive e lavora. Allievo di padre Pino Puglisi, ha lavorato per circa vent’anni con la Comunità di Sant’Egidio con minori a rischio di devianza, in alcuni dei quartieri più difficili di Palermo. Collabora con il Centro studi Pedro Arrupe, la Link Campus University e scrive di mafia su diverse testate. Per la Newton Compton ha pubblicato Uomini contro la mafia; I 100 delitti della Sicilia; Provenzano. L’ultimo padrino, La mafia nera e, con Pietro Comito e Bruno De Stefano, I nuovi padrini.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2018
ISBN9788822725233
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    Anteprima del libro

    La mafia nera - Vincenzo Ceruso

    579

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso e sono riportati nel rispetto dei principi di verità, di continenza e di pertinenza della notizia. Tutte le persone, coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei vari gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: ottobre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2523-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Vincenzo Ceruso

    La mafia nera

    I depistaggi tra eversione neofascista e Cosa Nostra: storia di un’Italia oscura

    Indice

    Introduzione. Agenzie di depistaggio, bande armate e associazioni sovversive

    Prologo. I protagonisti: Ordine Nuovo e Cosa Nostra

    1. Il lungo massacro: dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra

    2. I Manifesti cinesi

    3. I tecnici delle bombe e la scuola slovena di Trieste

    4. La pista anarchica di piazza Fontana

    5. Le operazioni di esfiltrazione dei servizi

    6. De Mauro e il golpe Borghese

    7. Venti di golpe nel Palazzo e tecniche di diversione

    8. Piazza della Loggia, l’Italicus e un cadavere assolto

    9. Il suicidio simulato di Peppino Impastato

    10. I ragazzini della strage alla stazione di Bologna

    11. Una pista nera per il delitto Mattarella

    12. Il finto sequestro Sindona

    13. La prima trattativa

    14. Il depistaggio perfetto o il paradigma di via d’Amelio

    15. Post scriptum: la morte improvvisa dell’anarchico Franco Mastrogiovanni

    Conclusioni. Una struttura di condizionamento

    Bibliografia

    A Pietro Ceruso

    Antifascista

    Antimafioso.

    A Salvatore Motisi

    Cattolico democratico

    Lettore appassionato.

    «Se vado in Sicilia gli amici mi proteggono».

    LICIO GELLI

    «Vecchi e nuovi testimoni dell’immonda

    e impantanata notte della Repubblica in onda –

    l’assassino sconfitto e la vittima disfatta,

    l’attentatore e lo stragista con l’angelica faccia,

    e l’irato scorato parente, il giudice, il giornalista,

    il sociologo, il generale, l’avvocato, lo statista».

    GIANNI D’ELIA

    ¹

    ¹ G. D’Elia, Congedo della vecchia Olivetti, Einaudi, Torino 1996, p. 49.

    Introduzione

    Agenzie di depistaggio, bande armate e associazioni sovversive

    «Il faut faire de l’ordre avec du désordre».

    Marc Caussidière, 1848,Prefetto durante i moti di Parigi².

    Il soldato della guerra non ortodossa

    I depistaggi sono un capitolo della storia politica del nostro Paese.

    Non sono un argomento di polizia giudiziaria.

    In particolare, riguardano quella storia che è cominciata alla fine della seconda guerra mondiale. Con la sconfitta dei nazifascisti, iniziava per l’Europa il più lungo periodo di pace che avesse mai conosciuto. Ma non era così per tutti. Per altri iniziava solamente un nuovo tipo di guerra.

    E occorreva un nuovo genere di soldato.

    Nei giorni dal 3 al 5 maggio 1965 si tenne a Roma, presso l’hotel Parco dei Principi, un convegno, organizzato dall’Istituto di studi storici e militari Alberto Pollio, dal titolo La guerra rivoluzionaria. Era il primo convegno dell’istituto, ma sarebbe stato anche l’ultimo, poiché il centro studi finanziato dal

    SIFAR

    ³, il Servizio informazioni delle forze armate, conobbe un’attività intensa ma breve. Infatti, fu attivo tra il 1964 e il 1966. L’incontro non ebbe all’epoca particolare pubblicità, ma vedeva tra i suoi iscritti alti ufficiali, insieme a studenti universitari (circa venti, selezionati per l’occasione), a uomini del mondo dell’impresa, a giornalisti e a ragguardevoli esponenti dell’ultradestra italiana.

    I partecipanti al convegno manifestavano tra loro una vicinanza di natura ideologica e politica, né i magistrati avrebbero trovato alcun riscontro a un presunto «accordo criminoso di natura eversiva»⁴. Eppure, il fatto stesso che diversi militari di alto grado dell’esercito fossero vicini politicamente a degli esponenti neofascisti, avrebbe dovuto suscitare qualche perplessità in più nelle autorità dell’epoca. Al contrario, un uomo solitamente ben informato come il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti avrebbe dichiarato, molti anni dopo, che il convegno «sul momento era considerato quasi una cosa ridicola, una delle tante manifestazioni di piccoli gruppi di studio»⁵. Giulio Andreotti si mostrava anche ottimista sulla fedeltà alla Repubblica delle nostre forze armate, che non avevano mai aderito ad avventure antidemocratiche.

    Eppure il convegno faceva emergere quanto fossero radicati gli impulsi di avversione e di distanza, in molti militari, rispetto alle forze di sinistra presenti in parlamento. Questi sentimenti derivavano, per una parte, dal retaggio ideologico fascista ancora diffuso; per un’altra, erano dovuti all’identificazione del Partito comunista con il campo opposto a quello occidentale, che suscitava una naturale ostilità. Era forse la visione del mondo che ispirava il generale De Lorenzo, comandante dell’Arma, capo di Stato maggiore della Difesa e al vertice del

    SIFAR

    , coinvolto nel 1964 nelle vicende legate al cosiddetto Piano Solo, un progetto di colpo di Stato che avrebbe dovuto essere portato avanti solo dai carabinieri⁶. Peraltro, il piano era stato preceduto dalla predisposizione, da parte del

    SIFAR

    , di ben 157.000 fascicoli, 34.000 dei quali furono giudicati illegittimi dalle commissioni parlamentari d’inchiesta⁷.

    Erano quei sentimenti per cui il generale Arpino, capo di Stato maggiore dell’esercito, poteva dichiarare davanti a una commissione parlamentare: «Per noi ancora negli anni Ottanta un terzo del parlamento italiano era il nemico»⁸. Il convegno dell’Istituto Alberto Pollio fu il catalizzatore di queste passioni. Seppure non possa essere stabilito alcun rapporto di causa-effetto tra la stagione delle stragi e le tesi del convegno, quest’ultimo, per dirla con Nicola Rao, esprimeva «l’humus culturale che ha prodotto la strategia della tensione»⁹; diede forma a un magma di pensieri che in tanti tenevano dentro di sé e manifestò quella che si potrebbe chiamare una connessione sentimentale con vasti strati sociali; contribuì a canalizzare una corrente che scorreva nelle viscere della società italiana: tra i militari, negli apparati di sicurezza, nella grande impresa, nei settori più conservatori dei partiti di governo. Leggere oggi le tesi di allora provoca la vertigine che deriva da un salto indietro nel tempo, in un’altra epoca e in un altro mondo, quello della Guerra Fredda, del conflitto tra Est e Ovest, tra occidente e Paesi comunisti. Sono parole che restituiscono, sotto un particolare punto di vista, un clima e un ambiente storico-politico. Il conflitto che lacerava la società italiana appare feroce, come può esserlo solamente una guerra ideologica.

    I contributi dei relatori al convegno sarebbero stati pubblicati dopo appena un mese, dall’editore Volpe di Roma¹⁰. Il curatore del volume si chiamava Edgardo Beltrametti e, oltre a essere un giornalista e un uomo di destra, era collaboratore del capo di Stato maggiore della Difesa.

    La relazione di Beltrametti s’intitolava La guerra rivoluzionaria¹¹ e si poneva il problema di quale risposta il mondo libero potesse dare di fronte alla guerra rivoluzionaria intrapresa dal comunismo mondiale.

    Innanzitutto, secondo l’autore, occorreva prendere consapevolezza di quanto il mondo fosse cambiato, che la terza guerra mondiale era un fatto e, di conseguenza, fosse ormai impossibile, dal punto di vista militare, «una ben netta distinzione tra stato di pace e stato di guerra […]. Lo stato di pace formale è contraddetto da uno stato reale di guerra permanente e multiforme»¹². Successivamente, dopo aver esaminato le caratteristiche della guerra rivoluzionaria perseguita dai comunisti, Beltrametti si chiedeva se la reazione delle democrazie a questo pericolo fosse adeguata. La sua risposta era perentoria: «I sistemi democratici nella generalità sono inadeguati»¹³. Non solo, ma la situazione nuova creata dalla guerra rivoluzionaria voluta dai comunisti imponeva scelte radicali – «noi dobbiamo considerarci in stato permanente di guerra, anche se qualche volta la lotta si presenta sotto forma non militare»¹⁴ –; fino a ipotizzare di dover togliere «ai movimenti, ai partiti e ai gruppi al servizio della guerra rivoluzionaria la libertà d’azione»¹⁵. Se il comunismo era impegnato con tutte le sue forze a forgiare un nuovo tipo di uomo, che fosse una macchina senz’anima, un docile strumento al servizio della guerra totale, anche i difensori del mondo libero dovevano liberarsi da ogni preconcetto morale, per rispondere adeguatamente alle sfide che li attendevano. Lo studioso coniava la nozione di «soldato controrivoluzionario»¹⁶, educato al nuovo tipo di guerra che il comunismo aveva imposto, addestrato tecnicamente e dotato di un’adeguata «educazione morale». Un «soldato di élite»¹⁷, ideologicamente preparato al suo compito. Questo combattente non avrebbe dovuto essere necessariamente un militare. Al contrario, il coinvolgimento dei civili nella guerra non ortodossa in corso era una necessità e, insieme, una conseguenza dei tempi nuovi.

    Un autore la cui relazione, stranamente, non ha trovato posto tra gli atti pubblicati del convegno, era Clemente Graziani. Il leader neofascista aveva preparato un corposo lavoro sulla guerra controrivoluzionaria e sulla cooperazione civili-militari, che venne pubblicato sul n. 3-4 del mensile «Ordine Nuovo» (maggio-giugno 1965)¹⁸.

    Un altro dei relatori era l’ufficiale Adriano Magi Braschi che, una volta divenuto generale, sarebbe stato coinvolto nelle indagini sul progetto golpista Rosa dei venti. L’alto ufficiale, all’epoca maggiore ma presente in abiti borghesi, avrebbe assunto per la precisione la presidenza dei lavori¹⁹. Durante i giorni del convegno, a cui avrebbe partecipato su incarico del capo di Stato maggiore della Difesa²⁰, Magi Braschi non mancava di rendere partecipe la platea dell’Istituto Pollio dei suoi fervidi sentimenti militareschi:

    Nella guerra l’uomo si riumanizza, l’uomo cerca nella guerra di ritrovare sentimenti profondi che lo fanno tale. È nella pace che l’uomo esalta i suoi più deteriori aspetti, non nella guerra, anche se la guerra pone in evidenza forme deteriori di esistenza umana; nella guerra l’uomo ritrova la fratellanza, la pietà, il sentimento dell’umanità. E l’uomo non può fare a meno della guerra.²¹

    Ma, quel che più conta, ai fini di questo lavoro, è l’analisi storica che il futuro generale svolgeva a proposito delle tecniche militari e le sue proiezioni nel tempo presente. Egli scriveva:

    Se la prima guerra mondiale vide gli Stati maggiori combinati, cioè dalla prima guerra mondiale si ricavò la necessità di avere comandi composti dalle tre armi, vale a dire Stati maggiori che ragionassero in funzione tridimensionale; se dalla seconda guerra mondiale sono usciti gli Stati maggiori integrati, cioè Stati maggiori che comprendono personale di più nazioni; questa guerra vuole gli Stati maggiori allargati, gli Stati maggiori che comprendano civili e militari contemporaneamente.²²

    Il convegno aveva carattere propedeutico, infatti era stato deciso di istituire una commissione permanente di studi e venne programmato un secondo incontro, che però non avrebbe mai visto la luce. Il titolo avrebbe dovuto essere La risposta occidentale alla guerra rivoluzionaria.

    In realtà, nel 1971 venne organizzato un secondo convegno, che aveva ancora una volta per tema la guerra rivoluzionaria. Vi presero parte alcuni generali, tra cui il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, mentre il ministro della Difesa, il socialdemocratico Mario Tanassi, inviò un telegramma di adesione²³. Per fortuna, non tutti i militari della Repubblica avevano la stessa sensibilità. Il direttore del

    SID

    , Vito Miceli, aveva inviato a partecipare il generale Siro Rossetti, il quale non apprezzò il clima da crociata del convegno e inviò una nota al suo superiore: «Fu detto esplicitamente che scopo della riunione era quello di sollecitare una coscienza anticomunista»²⁴.

    Altri avevano deciso che era giunta l’ora di passare dalla coscienza all’azione.

    Come si costruisce una falsa pista

    Il conflitto tra Est e Ovest trovò in Italia il terreno ideale per manifestarsi, a causa della presenza del più grande Partito comunista in occidente e, si dimentica troppo spesso, grazie al radicamento di formazioni neofasciste e mafiose, le quali, per convinzione e per interesse, misero le loro capacità militari al servizio di soggetti che erano espressione di una parte degli apparati statali, si vogliano o meno definire deviati. Non si poteva certo definire deviata una struttura come quella che faceva capo alla rete stay-behind in Europa occidentale, nata all’indomani della seconda guerra mondiale. La rete clandestina era stata costituita nell’eventualità di dover rispondere a un’occupazione sovietica, qualora un’invasione fosse avvenuta in territori, come la stessa Italia, che gli equilibri internazionali avevano assegnato all’influenza americana. Una volta cessato il pericolo di un’invasione da parte dell’Unione Sovietica, la rete clandestina anticomunista, denominata Gladio, non venne sciolta.

    Il sospetto, leggendo la storia del nostro Paese, è che venne usata per contenere l’eventuale avanzata delle forze di sinistra. Almeno fino al crollo del muro di Berlino e alla fine del mondo costruito a Yalta. Nel 1991 il presidente Giulio Andreotti avrebbe rivelato al parlamento e all’opinione pubblica l’esistenza di questo esercito clandestino, operante nel quadro della

    NATO

    , pur rivendicando il fatto che questa struttura avrebbe operato in un ambito di assoluta legalità interna.

    A questo quadro inquietante si aggiunga la presa sulle istituzioni che, in un determinato periodo storico, ha avuto una struttura occulta e dalle finalità in parte oscure come la Loggia P2, guidata da Licio Gelli, e a cui erano affiliati, tra gli altri, i vertici dei nostri servizi segreti.

    Questo è uno dei motivi per cui tanti delitti sono rimasti a lungo impuniti. Un altro risiede nel fatto che esistevano dei professionisti del depistaggio. È esistito un vero e proprio protocollo per le azioni depistanti, che i magistrati hanno tratteggiato più volte nelle indagini sulle stragi. Si trattava di una «tecnica piduista e mistificatoria: fornire una massa di informazioni difficilmente verificabili e orchestrare campagne di stampa, confondendo fatti veri e falsi»²⁵.

    Il tema dei depistaggi ha assunto piena rilevanza penale solo in tempi recenti, grazie all’introduzione di un apposito reato nel nostro ordinamento, tramite l’articolo 375 c.p., che punisce con la reclusione da tre a otto anni il pubblico ufficiale che compia una serie di azioni volte «a impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale»²⁶.

    In sé, al di là dei risvolti giudiziari, l’attività depistatoria si configura quindi come una condotta post factum, legata pertanto a un evento principale e finalizzata a proteggere i reali autori del fatto stesso, «mescolando sapientemente (secondo una consolidata tecnica di disinformazione) il vero, il falso e il verosimile»²⁷.

    L’Italia ha avuto numerose agenzie di depistaggio.

    Si tratta di soggetti collettivi che hanno agito talora in collegamento, altre volte indipendentemente l’uno dall’altro, eppure con le stesse modalità operative. Talora per propri fini, altre volte su incarico di un’entità sovraordinata. O in seguito a uno scambio di favori. In tanti si sono adoperati per attuare una sistematica azione di depistaggio, a partire dal secondo dopoguerra e almeno fino agli anni Novanta della cosiddetta Prima Repubblica, con lo scopo di impedire l’individuazione dei colpevoli dei molti delitti eccellenti e delle diverse stagioni stragiste che hanno insanguinato l’Italia. I principali protagonisti di queste azioni sono ben identificabili dentro i nostri apparati di sicurezza, abituati a muoversi al confine tra il legale e l’illegale e le cui azioni, pertanto, non sono agevolmente sanzionabili in sede penale. Più facilmente definibile è la natura delle operazioni commesse da coloro che militavano dentro l’universo mafioso e nel perimetro della destra radicale, due territori spesso contigui l’uno all’altro²⁸. Alcune delle principali associazioni di natura criminale e sovversiva che il nostro Paese ha avuto, infatti, hanno svolto anche le funzioni di agenzie di depistaggio.

    Naturalmente, suscitano maggior scandalo i reati commessi da uomini posti nel cuore delle istituzioni. È stato scritto recentemente: «I depistaggi furono così capillari, sistematici e continuati nel tempo, ben oltre la strage di piazza Fontana, da rendere evidente che non furono opera di singoli uomini o di settori deviati degli apparati di sicurezza, ma dei loro vertici»²⁹.

    Si può con certezza affermare che alcune figure apicali dei nostri servizi segreti, prima ai vertici del

    SID

    e poi di quelli che saranno il

    SISMI

    e il

    SISDE

    , hanno ritenuto che spettasse svolgere ai servizi stessi un ruolo di agenzia di depistaggio rispetto ad alcuni dei fatti più sanguinosi della cronaca eversiva. D’altronde, una commissione parlamentare ha potuto scrivere:

    Il generale Maletti ha riferito alla commissione [stragi] che fino al 1974 il potere politico non aveva spiegato agli uomini dei Servizi che dovevano difendere la Costituzione. Il senatore Andreotti ha confermato che solo nel 1974, una volta tornato a reggere il Ministero della difesa, chiarirà ai Servizi la necessità di cambiare registro.³⁰

    In particolare, per quanto riguarda le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, le responsabilità parziali degli agenti segreti sono state definitivamente individuate. Rimane la domanda: perché lo hanno fatto?

    Senza entrare adesso nei particolari giudiziari, emerge un dato. Nella storia del nostro Paese esiste una prassi consolidata, che ritorna nel lungo periodo, consistente nell’utilizzo delle forze sovversive e criminali da parte degli uomini che sarebbero preposti alla loro repressione.

    In questo libro scorreremo soprattutto le vicende legate ad alcuni dei principali casi di depistaggio avvenuti in Italia a partire dalla seconda metà del Novecento. L’elenco è lontano dall’essere esaustivo e già questo ci dice molto sui limiti che sono stati imposti alla nostra democrazia nel secolo scorso. I casi presi in esame coinvolgono realtà che, in base al sentire comune, sono molto distanti tra loro, per natura e per le finalità perseguite.

    Consideriamo due entità, in particolare.

    Il metodo: confrontare e distinguere

    Un ottimo magistrato e un uomo di cultura come Giovanni Salvi, ha detto: «Non vi è somiglianza tra criminalità organizzata e terrorismo»³¹. Eppure, nonostante questo autorevole parere, credo che la mafia abbia sviluppato, lungo la sua storia, somiglianze e convergenze con le organizzazioni terroriste. Cosa nostra, durante i cosiddetti anni di piombo, ha mutuato tecniche e linguaggio delle formazioni eversive. Lo stesso giudice Salvi ha detto: «La metodologia dell’indagine è condizionata dal suo oggetto, ma l’oggetto stesso è influenzato dall’indagine»³².

    Ci lasceremo dunque guidare dal criterio ermeneutico sintetizzato così efficacemente dall’illustre magistrato, nello sforzo di utilizzare la sua analisi per esplorare le connessioni tra il sodalizio criminale e la destra radicale.

    Una delle tesi che guidano questo lavoro, infatti, è che Cosa Nostra si sia adattata alle indagini dell’apparato repressivo, fino a modificare profondamente alcune sue caratteristiche genetiche. Ritengo che la mafia, sfruttando quelle capacità di adattamento alle diverse epoche che le sono proprie, abbia adottato, in determinati periodi cruciali per la sua storia e per la storia d’Italia, l’habitus proprio dell’organizzazione terrorista. Ciò ha comportato: l’enfasi posta sul suo apparato clandestino e militare; una maggiore segretezza e compartimentazione al proprio interno; l’uso di attentati contro la popolazione civile, oltre che contro le istituzioni. Si spiegherebbe in questo modo la riorganizzazione che il sodalizio criminale ha attuato all’inizio degli anni Novanta, finalizzato al compiersi di un disegno terroristico-eversivo, di cui era protagonista insieme ad altri attori. Anche se l’uso di un’autobomba per l’eliminazione di un avversario, cioè «mediante un sistema e una metodologia tipicamente terroristica»³³, si è verificato per la prima volta il 29 luglio 1983, con l’uccisione del capo dell’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Rocco Chinnici.

    Alcuni dei migliori magistrati italiani, quali Ciaccio Montalto e Paolo Borsellino, non hanno avuto esitazioni nell’assimilare l’organizzazione nata nell’isola a una forma di «criminalità politica», al pari del terrorismo³⁴.

    Alla sua mutazione in senso terroristico hanno contribuito anche le sollecitazioni provenienti da determinati organismi statali, su cui non è stata fatta pienamente luce, che avrebbero visto nella mafia siciliana un partner utile per realizzare quello che, a loro parere, sarebbe stato l’ordine giusto per il nostro Paese. Penso, in particolare, a quanto è avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra e tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.

    In questo lavoro ricorrono i nomi del movimento neofascista Ordine Nuovo e dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, che qui consideriamo principalmente nella loro attività stragista e depistatoria. Viene dato loro notevole spazio per alcuni motivi: il particolare contributo che i due gruppi hanno dato alle stragi; la necessità di delimitare un campo altrimenti vastissimo, dati gli innumerevoli casi di violenza politica e di depistaggio che hanno coinvolto i tanti soggetti operanti, seppure con diversa caratura criminale, nel nostro Paese; l’enorme mole di documentazione, storica e giudiziaria, che è stata prodotta sui due fenomeni delinquenziali; le numerose sentenze passate in giudicato, con l’individuazione dei colpevoli di strage e di favoreggiamento in diversi casi, anche nelle vicende che hanno riguardato l’organizzazione neofascista (affermazione che non si può fare per molti degli eccidi perpetrati in Italia, come ad esempio per la strage di Ustica del 27 giugno 1980, che causò 81 morti, rimasta senza colpevoli e senza una verità definitiva³⁵). Da un punto di vista metodologico, questo non significa appiattirsi sulle risultanze degli atti giudiziari, poiché le indagini e le sentenze vanno lette con riferimento al complesso delle acquisizioni che abbiamo su un determinato periodo storico.

    All’opposto di quel che sostiene un celebre aforisma, dove la legge non distingue, noi abbiamo il dovere di distinguere³⁶.

    L’accostamento tra i due soggetti è nato, inizialmente, da una osservazione: al contrario di quanto comunemente si crede, l’eversione nera – nella sua accezione più ampia, che comprende diversi gruppi ed esponenti di quella che è stata definita la «tormentata geografia delle organizzazioni di estrema destra»³⁷ – e le mafie italiane hanno stabilito, in particolari momenti della loro storia, relazioni significative. Questi collegamenti, secondo approfondite ricerche storiche, risalirebbero addirittura al secondo dopoguerra e fanno intravedere un legame di lunga durata, tra clandestinismo neofascista e terrorismo di marca mafiosa³⁸.

    Ha osservato il giornalista Giorgio Bocca: «Le premesse del terrorismo nero sono già poste nell’immediato dopoguerra, negli anni 1945-1946»³⁹.

    Alcuni di questi rapporti, che negli anni di piombo evolveranno lungo il duplice binario dello scambio di armi e delle cointeressenze nei sequestri di persona, sono noti. Su altri, l’indagine storica e, in parte, giudiziaria ha ancora molto da scoprire. Se ci limitiamo all’associazione che ha la sua base in Sicilia, basti ricordare due momenti significativi della nostra storia politico-criminale: la partecipazione degli uomini d’onore al tentato golpe Borghese⁴⁰ e la strage del rapido 904, con la condanna del cassiere della mafia Pippo Calò, considerato vero e proprio «elemento di collegamento tra il potere mafioso e ambienti eversivi di destra»⁴¹. In altri episodi, quali l’assassinio di due carabinieri ad Alcamo Marina nel 1975⁴² e l’omicidio di Piersanti Mattarella, nel 1980, emergono, al di là delle responsabilità giudiziarie che sono state accertate, connessioni solide tra la mafia siciliana e il mondo del neofascismo, tali da andare ben oltre la seconda metà del Novecento. Emblematica è la figura di Pietro Rampulla, già vice-rappresentante della famiglia mafiosa di Mistretta e legato a Benedetto Santapaola, uno dei principali colonnelli di Totò Riina.

    Rampulla, soprannominato l’Artificiere, non era solo il tecnico degli esplosivi prescelto per la strage di Capaci da Giovanni Brusca (su ordine di Salvatore Riina). Egli si era anche occupato, o aveva supervisionato, una serie di operazioni specialistiche, come

    l’assemblaggio della ricevente e il collegamento con la trasmittente; la sperimentazione della metodica empirica per saggiare l’efficacia della trasmissione e di ricezione del segnale attraverso il collegamento dell’apparecchio ricevente con le lampadine flash; la direzione dei lavori durante l’attività di travaso dell’esplosivo; la scelta di confinare delle frazioni della carica sotto terra ricoprendole di letame; il collegamento del detonatore alla ricevente perfezionato nel corso del caricamento del condotto; l’aiuto prestato a Ferrante per il trasporto dei bidoni al condotto; e infine la partecipazione alle prove di velocità e la presenza durante gli appostamenti.⁴³

    Rampulla aveva anche ascendenze ordinoviste, che non hanno un legame trascurabile

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