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Un altra donna: Una missione per Gabriel Allon
Un altra donna: Una missione per Gabriel Allon
Un altra donna: Una missione per Gabriel Allon
E-book508 pagine6 ore

Un altra donna: Una missione per Gabriel Allon

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Info su questo ebook

"Lei era il suo segreto meglio custodito..."

In un villaggio isolato tra le montagne dell'Andalusia, una misteriosa donna francese sta scrivendo un pericoloso memoir. È la storia dell'uomo che ha amato molto tempo prima nella vecchia Beirut e di un bambino che le è stato strappato in nome del suo tradimento. Quella donna è a conoscenza di un segreto che il Cremlino custodisce gelosamente. Molto tempo prima, il KGB ha infiltrato una talpa nel cuore dell'Occidente... Una talpa che ora è molto vicina ai massimi gradi del potere. Solo un uomo può svelare la cospirazione: Gabriel Allon, il leggendario restauratore d'arte e agente segreto israeliano.


Gabriel ha combattuto le forze oscure della nuova Russia in passato, e ne ha pagato personalmente il prezzo. Ora lui e i russi s'impegneranno in un'epica resa dei conti, che vedrà l'ordine mondiale del Dopoguerra pericolosamente in bilico. 

La ricerca della verità lo porterà indietro nel tempo, al più grande tradimento del XX Secolo e, infine, a una conclusione imprevedibile lungo le rive del fiume Potomac che lascerà i lettori senza fiato.

LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2019
ISBN9788858997055
Un altra donna: Una missione per Gabriel Allon
Autore

Daniel Silva

Pluripremiato autore regolarmente ai primi posti nella New York Times Bestsellers List, ha raggiunto il successo grazie alla fortunata serie che ha come protagonista Gabriel Allon: i suoi romanzi, tra cui La spia inglese, La vedova nera, La casa delle spie, L’altra donna, La ragazza nuova, L’Ordine, La violoncellista e Ritratto di donna sconosciuta pubblicati da HarperCollins, sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Vive in Florida con la moglie, la giornalista televisiva Jamie Gangel, e i due figli Lily e Nicholas.

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    Anteprima del libro

    Un altra donna - Daniel Silva

    PARTE PRIMA

    TRENO NOTTURNO PER VIENNA

    1

    Budapest, Ungheria

    Non ci sarebbe stato nulla di tutto ciò – la ricerca disperata del traditore, le alleanze difficili o le morti inutili – se non fosse stato per il povero Heathcliff. Era la loro figura tragica, la loro promessa infranta. Alla fine, si sarebbe dimostrato l’ennesimo fiore all’occhiello di Gabriel. Detto questo, Gabriel avrebbe preferito che Heathcliff fosse ancora vivo: non capitava di incontrare tutti i giorni risorse valide quanto lui; poteva accadere una sola volta nel corso di una carriera, due volte era un’eventualità rarissima. Lo spionaggio era fatto così, si lamentava Gabriel. La vita stessa era fatta così.

    Heathcliff non era il suo vero nome; era stato generato a caso da un computer, o per lo meno così sostenevano i suoi superiori. Il programma aveva appositamente scelto un nome in codice che non avesse la minima somiglianza con quello vero, né con la nazionalità dell’agente o il campo in cui lavorava. E ci era riuscito. L’uomo a cui era stato attribuito il nome di Heathcliff non era un trovatello né un inguaribile romantico. E non era nemmeno acido, vendicativo o di indole violenta. In realtà, non aveva nulla in comune con l’Heathcliff della Brontë, a parte la carnagione scura, dato che la madre proveniva dall’ex repubblica sovietica della Georgia. La stessa repubblica, sottolineava lei con fierezza, del compagno Stalin, il cui ritratto era ancora appeso nel salotto del suo appartamento di Mosca.

    Tuttavia, Heathcliff parlava e leggeva l’inglese senza alcun problema ed era un appassionato di romanzi vittoriani. Anzi, aveva accarezzato l’idea di studiare Letteratura inglese prima di tornare in sé e di iscriversi all’Istituto di lingue straniere di Mosca, considerato la seconda università più prestigiosa dell’Unione Sovietica. Il suo consulente di facoltà era un talent scout dell’SVR, il servizio di intelligence internazionale, e, una volta ottenuta la laurea, Heathcliff era stato invitato a entrare nell’accademia dell’SVR. Sua madre, ebbra di gioia, aveva sistemato fiori e frutta fresca davanti al ritratto del compagno Stalin. «Ti sta osservando» gli aveva detto. «Un giorno, sarai un uomo con cui la gente dovrà fare i conti. Un uomo da temere.» Ai suoi occhi, quella era la massima aspirazione per chiunque.

    Servire all’estero in una rezidentura, una stazione dell’SVR, dove reclutare e gestire spie nemiche, era l’ambizione di quasi tutti i cadetti. Era necessario un tipo particolare di agente per svolgere quell’incarico: doveva essere sfrontato, sicuro di sé, loquace, dinamico e scaltro, un seduttore nato. Heathcliff, purtroppo, non disponeva di nessuna di tali qualità, così come non possedeva gli attributi fisici richiesti per alcuni dei compiti più sgradevoli dell’SVR. Aveva però una grande predisposizione per le lingue – parlava bene il tedesco e l’olandese, oltre che l’inglese – e una memoria che, persino per gli standard elevati dell’SVR, era ritenuta eccezionale. Gli fu data la possibilità di scegliere, una rarità nel mondo gerarchico dell’SVR. Avrebbe potuto lavorare alla Centrale di Mosca come traduttore oppure operare sul campo come corriere. Scelse la seconda opzione, firmando così la propria condanna a morte.

    Un lavoro non affascinante ma fondamentale. Con le sue quattro lingue e una valigetta zeppa di passaporti falsi, scorrazzò per il mondo al servizio della patria, un fattorino clandestino, un postino che agiva nell’ombra. Ripuliva recapiti segreti, metteva contanti in cassette di sicurezza e, di quando in quando, interagiva con veri e propri agenti a pagamento della Centrale di Mosca. Non era insolito per lui passare trecento notti all’anno fuori dalla Russia, il che lo rendeva inadatto al matrimonio e persino a una relazione seria. L’SVR gli forniva compagnia femminile quand’era a Mosca – splendide ragazze che, in circostanze normali, non lo avrebbero degnato di uno sguardo – ma, in viaggio, era incline a momenti di intensa solitudine.

    Fu in una situazione del genere, nel bar di un albergo di Amburgo, che incontrò la sua Catherine. Lei, una donna attraente che aveva superato la trentina, capelli castano chiaro e braccia e gambe abbronzate, stava bevendo vino bianco a un tavolo d’angolo. Heathcliff aveva l’ordine di evitare donne simili quand’era in viaggio, perché si rivelavano invariabilmente agenti dell’intelligence nemica oppure prostitute al suo servizio. Ma Catherine non sembrava una di loro. E, quando sbirciò Heathcliff da dietro il cellulare e sorrise, lui si sentì attraversare da una scarica elettrica che dal cuore arrivò dritta all’inguine.

    «Ti va di unirti a me?» gli chiese. «Detesto bere da sola.»

    Il suo nome non era Catherine, bensì Astrid. Per lo meno, fu quello il nome che lei gli sussurrò in un orecchio mentre faceva scorrere con delicatezza un’unghia sull’interno coscia di Heathcliff. Era olandese e quindi lui, che si era spacciato per un uomo d’affari russo, avrebbe potuto parlarle nella sua lingua madre. Dopo diversi drink, lei si autoinvitò nella sua camera, dove lui si sentiva al sicuro. Il mattino seguente, si svegliò con un gran mal di testa, cosa insolita per lui, e senza il minimo ricordo di aver fatto l’amore. Astrid era appena uscita dalla doccia e indossava un accappatoio di spugna. Alla luce del giorno, la sua bellezza era più che evidente.

    «Sei libero, stasera?» gli chiese.

    «Non dovrei.»

    «Perché no?»

    Non aveva una risposta.

    «Mi porterai fuori per una serata come si deve. Una bella cena. E dopo in discoteca, magari.»

    «E poi?»

    Lei aprì l’accappatoio, mostrando un seno dalla forma perfetta. Malgrado i suoi sforzi di memoria, Heathcliff non ricordava di averlo accarezzato.

    Si scambiarono i numeri di telefono, l’ennesimo gesto proibito, e si salutarono. Quel giorno, Heathcliff aveva due commissioni da sbrigare ad Amburgo che prevedevano diverse ore di lavaggio a seccoper accertarsi di non essere sotto sorveglianza. Mentre ultimava il secondo compito – lo svuotamento di routine di un recapito segreto – ricevette un SMS con il nome di un ristorante alla moda nei pressi del porto. Arrivato all’ora prestabilita, trovò una radiosa Astrid già seduta al tavolo, con una bottiglia stappata di un Montrachet terribilmente costoso. Heathcliff si accigliò: avrebbe dovuto pagare il vino di tasca sua, dato che la Centrale di Mosca monitorava scrupolosamente le sue spese e lo rimproverava quando sforava il budget.

    Astrid parve cogliere il suo imbarazzo. «Non ti preoccupare, offro io.»

    «Pensavo di dover essere io a portare fuori te per una serata come si deve.»

    «L’ho detto davvero?»

    Fu in quell’istante che Heathcliff capì di aver commesso uno sbaglio tremendo. Il suo istinto gli disse di darsela a gambe, ma capì che non sarebbe servito a nulla: se l’era cercata. E, dunque, rimase al ristorante e cenò con la donna che lo aveva tradito. La loro conversazione fu artificiosa e forzata – degna di un brutto sceneggiato televisivo – e, quando giunse il conto, fu Astrid a pagare. In contanti, naturalmente.

    All’esterno li attendeva una macchina. Heathcliff non obiettò quando Astrid gli ordinò in tono sommesso di salire sul sedile posteriore. E non protestò nemmeno quando l’automobile prese la direzione opposta rispetto al suo albergo. L’autista era chiaramente un professionista: non disse una parola mentre effettuava svariate manovre da manuale per seminare eventuali inseguitori. Astrid nel frattempo inviò e ricevette SMS. A Heathcliff non disse nulla.

    «Abbiamo mai…»

    «Fatto l’amore?» gli chiese.

    «Sì.»

    Lei guardò fuori dal finestrino.

    «Bene» le disse. «Meglio così.»

    Quando finalmente si fermarono, lo fecero davanti a una villetta sul mare. Dentro, li aspettava un uomo. Si rivolse a Heathcliff in un inglese dal forte accento tedesco. Disse di chiamarsi Marcus e di lavorare per un servizio di intelligence straniero. Non specificò quale. Dopodiché, mostrò a Heathcliff diversi documenti altamente riservati che Astrid aveva preso e copiato dalla sua valigetta chiusa a chiave la sera prima, mentre le droghe che gli aveva somministrato lo rendevano incapace di intendere e di volere. Heathcliff avrebbe continuato a fornire quei documenti, disse Marcus, e molto altro. In caso contrario, lui e i suoi colleghi avrebbero utilizzato il materiale di cui erano in possesso per convincere la Centrale di Mosca che lui era una spia.

    A differenza del suo omonimo, Heathcliff non si mostrò risentito né vendicativo. Tornò a Mosca con mezzo milione di dollari in più in tasca e attese il nuovo incarico. L’SVR mandò una splendida ragazza al suo appartamento sulla Collina dei passeri. Per poco non svenne di paura quando si presentò, dicendo di chiamarsi Ekaterina. Le preparò un’omelette e la congedò senza averla nemmeno sfiorata.

    L’aspettativa di vita per un uomo nella posizione di Heathcliff non era lunga. La punizione per il tradimento era la morte. Ma non una morte rapida, bensì una morte indicibile. Come tutti quelli che lavoravano per l’SVR, Heathcliff aveva sentito i racconti, le storie di uomini adulti che supplicavano di ricevere una pallottola che mettesse fine alle loro sofferenze. E prima o poi quella pallottola arrivava, in pieno stile russo, ovvero alla nuca. L’SVR la definiva vysshaya mera, la punizione somma. Heathcliff decise che non sarebbe mai caduto nelle loro mani, e si fece dare da Marcus una fiala di veleno. Sarebbe bastato un morso. Dieci secondi e sarebbe finito tutto.

    Marcus, inoltre, gli consegnò un apparecchio trasmittente camuffato che gli consentiva di inviare rapporti via satellite attraverso microburst crittati. Heathcliff lo usava raramente, preferiva aggiornarlo di persona durante i suoi viaggi all’estero. Laddove possibile, consentiva a Marcus di fotografare il contenuto della sua valigetta portadocumenti, ma per lo più parlavano. Heathcliff era un uomo irrilevante che però lavorava per uomini rilevanti, di cui trasferiva i segreti. Inoltre, conosceva i luoghi dei recapiti russi in giro per il mondo, che conservava nella sua prodigiosa memoria. Era attento a non divulgare troppo né troppo in fretta, a beneficio di se stesso e del suo conto bancario in rapida crescita. Distribuiva i segreti a spizzichi e bocconi, in maniera da accrescerne il valore. Nel giro di un anno, mezzo milione divenne un milione. Poi due. E poi tre.

    La coscienza di Heathcliff rimase serena – era un uomo privo di ideologia o convinzioni politiche – ma la paura lo tormentava giorno e notte. La paura che la Centrale di Mosca fosse a conoscenza del tradimento e stesse tenendo d’occhio ogni sua mossa. La paura di aver rivelato un segreto di troppo o che una delle spie della Centrale in Occidente alla fine lo tradisse. In diverse occasioni, implorò Marcus di concedergli asilo. Ma lui, talvolta con una sorta di dolcezza, altre facendo la voce grossa, rifiutava. Heathcliff avrebbe dovuto continuare a fare la spia fino al momento in cui la sua vita non fosse stata realmente in pericolo. Solo allora gli sarebbe stato permesso di chiedere asilo. Dubitava, comprensibilmente, che Marcus fosse in grado di giudicare il preciso momento in cui la spada si sarebbe abbattuta, però non aveva altra scelta che continuare. Costringerlo a eseguire i suoi ordini era stato il ricatto di Marcus che, prima di liberarlo, gli avrebbe estorto fino all’ultimo segreto.

    Ma non tutti i segreti sono fatti allo stesso modo. Alcuni sono banali, ordinari, e il messaggero può svelarli senza correre alcun rischio, o al massimo un rischio modesto. Altri, però, sono ben più pericolosi da tradire e, alla fine, Heathcliff trovò un segreto del genere in un recapito nascosto, nella lontana Montréal. Il recapito, in realtà, era un appartamento vuoto utilizzato da un immigrato clandestino russo che operava sotto massima copertura negli Stati Uniti. Nell’armadietto sotto il lavandino della cucina c’era una chiavetta USB. Heathcliff aveva ricevuto l’ordine di ritirarla e di riportarla alla Centrale di Mosca, eludendo così la possente Agenzia per la sicurezza nazionale americana. Prima di abbandonare l’appartamento, inserì la chiavetta nel suo laptop; scoprì che non era protetta e che il contenuto non era crittato. Lesse i documenti senza problemi: provenivano da diversi servizi di intelligence americani e avevano tutti il livello di segretazione più alto possibile.

    Heathcliff non osò copiare i documenti. Al contrario, affidò ogni dettaglio alla sua memoria infallibile e tornò alla Centrale di Mosca, dove consegnò la chiavetta al suo controllore, insieme a un rimprovero arcigno sull’incapacità del clandestino di proteggerla come avrebbe dovuto. Il controllore, un certo Volkov, promise di occuparsi della faccenda. Dopodiché, offrì a Heathcliff un viaggetto a basso livello di stress a Budapest come ricompensa. «Considerala una vacanza completamente spesata, un dono della Centrale di Mosca. Non prendertela, Konstantin, ma hai l’aria di uno a cui potrebbe fare bene una vacanza.»

    Quella sera, Heathcliff utilizzò l’apparecchio trasmittente camuffato per informare Marcus che aveva scoperto un segreto la cui importanza lo costringeva a chiedere asilo. Con sua grande sorpresa, Marcus non obiettò. Ordinò a Heathcliff di sbarazzarsi dell’apparecchio. Heathcliff lo fece a pezzi e ne gettò i resti in una fogna a cielo aperto, convinto che nemmeno i segugi della direzione Sicurezza dell’SVR avrebbero guardato lì.

    Una settimana più tardi, dopo aver fatto visita alla madre nel suo modesto appartamento con il minaccioso ritratto del compagno Stalin, perennemente vigile, Heathcliff partì dalla Russia per l’ultima volta. Giunse a Budapest nel tardo pomeriggio, mentre la neve cadeva delicatamente sulla città, e raggiunse in taxi l’InterContinental Hotel. La sua camera si affacciava sul Danubio. Chiuse la porta a doppia mandata e abbassò il perno di sicurezza. Dopodiché, si sedette e attese che il cellulare squillasse. Al suo fianco c’era la fiala per suicidarsi. Sarebbe bastato un morso. Dieci secondi. Poi sarebbe finito tutto.

    2

    Vienna

    Duecentoquaranta chilometri a nordovest, a qualche pigra ansa del fiume Danubio di distanza, una mostra delle opere di sir Pieter Paul Rubens – pittore, erudito, diplomatico, spia – si stava trascinando verso la sua malinconica conclusione. Le torme di visitatori stranieri erano venute e se n’erano andate e, nel tardo pomeriggio, solo qualche avventore abituale del vecchio museo si aggirava con passo esitante tra le sale tinteggiate di rosa. Uno era un uomo sulla sessantina. Studiò le enormi tele su cui campeggiavano nudi corpulenti che turbinavano in fastosi ambienti storici, da sotto la tesa di un basco che si era calato sulla fronte.

    Un uomo più giovane stazionava, impaziente, alle sue spalle, controllando l’orologio da polso. «Quanto intende fermarsi ancora, capo?» sussurrò in ebraico. Ma l’uomo più anziano rispose in tedesco e a voce sufficientemente alta perché il custode assonnato lo potesse sentire. «Ne resta solo uno che vorrei vedere prima di andarmene, grazie.»

    Raggiunse la sala successiva e indugiò davanti alla Madonna con Bambino, olio su tela, 137x111 centimetri. Conosceva benissimo quel dipinto: lo aveva restaurato in una villetta sul mare nella Cornovaglia occidentale. Piegandosi appena in avanti, esaminò la superficie sotto la luce obliqua. Il lavoro che aveva fatto stava tenendo bene. Se solo avesse potuto dire altrettanto di se stesso, pensò, massaggiandosi la base della spina dorsale per lenire una forte fitta. Le due vertebre che si era fratturato qualche tempo prima erano il minore dei suoi guai fisici. Nel corso della sua lunga e onorevole carriera di agente dell’intelligence israeliana, Gabriel Allon era stato colpito due volte al petto da un’arma da fuoco ed era stato aggredito da un cane da guardia alsaziano e gettato nei sotterranei della Lubjanka di Mosca, dopo essere rotolato giù da diverse rampe di scale. Nemmeno Ari Shamron, il suo leggendario mentore, era in grado di rivaleggiare con il suo record di lesioni.

    Il giovane che seguiva Gabriel nelle stanze del museo si chiamava Oren. Era il capo della sicurezza di Gabriel, beneficio accessorio e indesiderato di una recente promozione. Nelle ultime trentasei ore erano stati in viaggio, in aereo da Tel Aviv a Parigi e poi in automobile da Parigi a Vienna. Ora stavano attraversando le sale deserte della mostra diretti ai gradini di ingresso del museo. Era iniziata una bufera di neve, grossi fiocchi soffici che scendevano dritti nella notte priva di vento. Un turista qualsiasi l’avrebbe forse trovata pittoresca, con i tram che serpeggiavano su strade spruzzate di bianco, fiancheggiate da palazzi e chiese vuoti. Non Gabriel, però. Vienna non mancava mai di deprimerlo, a maggior ragione quando nevicava.

    L’auto attendeva in strada, con l’autista al volante. Gabriel si strinse il bavero del vecchio Barbour intorno al viso e avvisò Oren che intendeva raggiungere a piedi l’appartamento sicuro. «Da solo» aggiunse.

    «Non posso lasciarla andare in giro a piedi per Vienna da solo, capo.»

    «Perché no?»

    «Perché ora lei è il capo. E, se succede qualcosa…»

    «Dirai che hai eseguito degli ordini.»

    «Proprio come gli austriaci.» Nel buio, la guardia del corpo consegnò a Gabriel una pistola Jericho calibro 9. «Almeno prenda questa.»

    Gabriel si fece scivolare l’arma nella cintura dei pantaloni. «Sarò all’appartamento sicuro tra trenta minuti. Comunicherò il mio arrivo al King Saul Boulevard.»

    Il King Saul Boulevard era l’indirizzo del servizio di intelligence di Israele. Aveva un nome lungo e volutamente fuorviante che aveva poco a che fare con la vera natura di ciò di cui si occupava. Persino il capo lo chiamava l’Ufficio e nient’altro.

    «Trenta minuti» ripeté Oren.

    «E non uno di più» promise Gabriel.

    «E se è in ritardo?»

    «Significa che sono stato assassinato oppure rapito dall’ISIS, dai russi, da Hezbollah, dagli iraniani o da qualcun altro che sono riuscito a offendere. Non conterei tanto sulla mia sopravvivenza.»

    «E noi?»

    «Non avrai problemi, Oren.»

    «Non era a quello che mi riferivo.»

    «Voglio che tu stia lontano dall’appartamento sicuro» disse Gabriel. «Continua a spostarti finché non mi metto in contatto con te. E ricorda: non tentare di seguirmi. È un ordine diretto.»

    La guardia del corpo fissò Gabriel in silenzio, con un’espressione preoccupata.

    «Che c’è adesso, Oren?»

    «Sicuro di non volere un po’ di compagnia, capo?»

    Gabriel si voltò senza dire una parola e scomparve nella notte.

    Attraversò il Burgring e si incamminò sui sentieri del Volksgarten. Aveva una statura inferiore alla media – un metro e settantatré, non di più – e un fisico asciutto, da ciclista. La sua faccia era lunga e affilata sul mento, con zigomi ampi e un naso sottile che sembravano intagliati nel legno. Gli occhi erano di una sfumatura innaturale di verde; i capelli erano scuri e corti, grigi sulle tempie. Era una faccia che poteva celare svariate nazionalità e Gabriel aveva le capacità linguistiche per farne buon uso. Parlava correntemente cinque lingue, compreso l’italiano, che aveva imparato prima di andare a Venezia a metà degli anni Settanta per studiare il mestiere del restauratore d’arte. In seguito, aveva vissuto nei panni di un certo Mario Delvecchio, restauratore tanto taciturno quanto talentuoso, operando al tempo stesso da agente dell’intelligence e da assassino per conto dell’Ufficio. Alcuni dei suoi lavori migliori li aveva svolti a Vienna. Anche alcuni dei peggiori.

    Costeggiò un fianco del Burgtheater, il palco di lingua tedesca più prestigioso del mondo, e seguì la Bankgasse fino al Café Central, una delle caffetterie più illustri di Vienna. Lì, sbirciò dentro i vetri smerigliati e vide, nei ricordi, Erich Radek, collega di Adolf Eichmann, aguzzino della madre di Gabriel, che sorseggiava un Einspänner da solo a un tavolo. Radek l’assassino era vago e indistinto, come la figura di un dipinto da restaurare.

    «È sicuro che non ci siamo mai incontrati prima? La sua faccia mi risulta molto familiare.»

    «Sinceramente, ne dubito.»

    «Magari ci rivedremo.»

    «Magari.»

    L’immagine si dissolse. Gabriel si girò e si incamminò verso il vecchio quartiere ebraico. Prima della Seconda guerra mondiale aveva ospitato una delle comunità ebraiche più vitali del mondo, che ormai era per lo più un ricordo. Osservò qualche anziano staccarsi con passo malfermo dalla poco vistosa entrata della Stadttempel, la sinagoga principale di Vienna, e poi si diresse verso una piazza vicina, zeppa di ristoranti. Uno era quello italiano in cui aveva consumato l’ultimo pasto con Leah, la sua prima moglie, e Daniel, il loro unico figlio.

    Nella strada adiacente, c’era il punto in cui la loro auto era stata parcheggiata. Gabriel rallentò suo malgrado, paralizzato dai ricordi. Gli vennero in mente le difficoltà con le cinture di sicurezza del seggiolino del figlio e il leggero sapore di vino sulle labbra di sua moglie quando le aveva dato l’ultimo bacio. E ricordò il rumore del motore che tentennava – come un disco che gira a velocità sbagliata – perché la bomba stava risucchiando energia dalla batteria. Aveva gridato a Leah di non girare la chiave per la seconda volta. Troppo tardi. Poi, con una vampata di luce bianca, lei e il bambino lo avevano abbandonato per sempre.

    Il cuore di Gabriel batteva come una campana di ferro. Non ora, si disse, mentre le lacrime gli annebbiavano la vista: aveva un lavoro da svolgere. Alzò la faccia al cielo.

    Non è bellissimo? La neve cade su Vienna mentre i missili piovono su Tel Aviv…

    Controllò l’orologio da polso: gli restavano dieci minuti per raggiungere l’appartamento sicuro. Mentre procedeva di buona lena sulle strade vuote, fu assalito da una sensazione inarrestabile di disastro imminente. Era solo il clima, si tranquillizzò. Vienna lo deprimeva sempre. A maggior ragione quando nevicava.

    3

    Vienna

    L’appartamento sicuro si trovava sull’altra sponda del Donaukanal, in un elegante, vecchio condominio nel Secondo Distretto. Era una zona più animata, un vero quartiere con un piccolo supermercato Spar, una farmacia, un paio di ristoranti asiatici, persino un tempio buddista. La strada era un viavai di automobili e moto; i pedoni si muovevano sui marciapiedi. Era il tipo di posto in cui nessuno avrebbe notato il capo dei servizi segreti israeliani. O un disertore russo, pensò Gabriel.

    Imboccò un vicolo, attraversò un cortile ed entrò in un atrio. Le scale erano immerse nell’oscurità e sul pianerottolo del quarto piano c’era una porta socchiusa. Sgattaiolò dentro, si chiuse la porta alle spalle ed entrò a passo felpato nel salotto, dove Eli Lavon sedeva dietro svariati notebook aperti. Lavon alzò gli occhi, vide la neve sul berretto e sulle spalle di Gabriel e si accigliò.

    «Ti prego, dimmi che non sei venuto a piedi.»

    «L’auto ha avuto un guasto. Non avevo scelta.»

    «La tua guardia del corpo non la racconta così. Sarà meglio che tu faccia sapere al King Saul Boulevard che sei qui. Altrimenti, con ogni probabilità, la nostra missione si trasformerà in una operazione di ricerca e soccorso.»

    Gabriel si chinò su un computer, digitò un breve messaggio e lo spedì per via sicura a Tel Aviv.

    «Crisi evitata» disse Lavon.

    Indossava un cardigan e una cravatta ascot sotto la giacca di tweed sgualcita. Aveva capelli ribelli e scarmigliati; i lineamenti del suo viso erano anonimi e facili da scordare, una delle sue qualità migliori. Eli Lavon sembrava appartenere alla schiera degli oppressi dalla vita. In realtà, era un predatore naturale in grado di seguire un agente segreto addestratissimo o un terrorista incallito su qualsiasi strada del mondo senza destare il minimo interesse. Sovrintendeva alla divisione dell’Ufficio nota come Neviot. Tra i suoi agenti figuravano artisti della sorveglianza, borseggiatori, ladri e persone specializzate nell’installazione di telecamere nascoste e cimici dietro porte chiuse. Le sue squadre avevano avuto un bel da fare, quella sera a Budapest.

    Rivolse un cenno a uno degli schermi, che mostrava un uomo seduto allo scrittoio di una lussuosa camera d’albergo. Ai piedi del letto c’era una sacca chiusa. Davanti a lui un telefono cellulare e una fiala.

    «È una fotografia?» chiese Gabriel.

    «Un video.»

    Gabriel toccò lo schermo del laptop.

    «Non può udirti, sai.»

    «Sei sicuro che sia vivo?»

    «È spaventato a morte. Non muove un muscolo da cinque minuti.»

    «Cos’è che gli fa tanta paura?»

    «È russo» disse Lavon, come se quel fatto fosse di per sé una spiegazione sufficiente.

    Gabriel studiò Heathcliff come se fosse la figura di un dipinto. Il suo vero nome era Konstantin Kirov ed era una delle risorse più preziose dell’Ufficio. Solo una minima parte delle informazioni riservate di Kirov aveva riguardato direttamente la sicurezza di Israele, ma l’enorme surplus si era rivelato fruttuoso per Londra e Langley, dove i direttori dell’MI6 e della CIA avevano accolto con gioia ogni lotto di segreti uscito dalla valigetta portadocumenti del russo. Ma avevano pagato un prezzo: entrambe le agenzie avevano contribuito alle spese dell’operazione e gli inglesi, dopo svariate pressioni tra i diversi servizi segreti, avevano accettato di garantire asilo politico a Kirov nel Regno Unito.

    La prima faccia che il russo avrebbe visto dopo la sua diserzione, però, sarebbe stata quella di Gabriel Allon. I precedenti di Gabriel con i servizi segreti russi e con gli uomini del Cremlino erano lunghi e insanguinati. Per tale ragione, voleva condurre di persona il debriefing iniziale di Kirov. Nello specifico, voleva sapere esattamente cosa aveva scoperto Kirov e perché, d’un tratto, gli era stato necessario chiedere asilo. A quel punto, Gabriel avrebbe messo il russo nelle mani del direttore della stazione viennese dell’MI6. Era più che felice di lasciare che a occuparsene fossero gli inglesi. Gli agenti compromessi, soprattutto quelli russi, erano invariabilmente un fastidio.

    Alla fine, Kirov si mosse.

    «Che sollievo» disse Gabriel.

    L’immagine sullo schermo si frammentò, riducendosi a una serie di riquadri digitali per qualche secondo, prima di tornare normale.

    «È tutta la sera che succede» spiegò Lavon. «La squadra deve aver piazzato il trasmettitore davanti a un’interferenza.»

    «Quando è entrata in quella stanza?»

    «Circa un’ora prima dell’arrivo di Heathcliff. Quando abbiamo manomesso il sistema di sicurezza dell’albergo, abbiamo fatto una deviazione nelle prenotazioni e abbiamo scoperto il numero della sua stanza. Entrare non è stato un problema.»

    I maghi del dipartimento tecnologico dell’Ufficio avevano creato una magica a tessera in grado di aprire qualsiasi stanza d’albergo del mondo. Il primo passaggio della tessera rubava il codice, il secondo apriva la serratura.

    «Quand’è iniziata l’interferenza?»

    «Non appena lui ha messo piede nella stanza.»

    «Qualcuno lo ha seguito dall’aeroporto all’albergo?»

    Lavon scosse la testa.

    «Qualche nome sospetto nel registro dell’albergo?»

    «Molti degli ospiti partecipano a una conferenza. La Società esteuropea di Ingegneria civile» ribatté Lavon. «Una vera festa di nerd. Un sacco di tizi con portapenne al taschino.»

    «Una volta eri uno di loro, Eli.»

    «Lo sono ancora.» La schermata tornò a essere un mosaico. «Dannazione» disse Lavon sommessamente.

    «La squadra ha verificato la connessione?»

    «Due volte.»

    «E?»

    «Nessun altro è connesso. E, anche se fosse, il segnale è talmente cifrato che ci vorrebbero un paio di supercomputer al mese per rimettere insieme i pezzi.» Lo schermo si stabilizzò. «Ora sì che si ragiona.»

    «Fammi vedere la hall.»

    Lavon digitò qualcosa sulla tastiera di un altro computer e apparve un’immagine della hall. Era un mare di abiti della taglia sbagliata, targhette con il nome e teste stempiate. Gabriel scrutò i volti, cercandone uno che sembrasse fuori posto. Ne trovò quattro: due maschili, due femminili. Utilizzando le telecamere dell’albergo, Lavon catturò qualche immagine di ciascuno e le inviò a Tel Aviv. Sullo schermo del computer adiacente, Konstantin Kirov stava controllando il suo telefono.

    «Quanto intendi farlo aspettare?» chiese Lavon.

    «Quanto basta per consentire al King Saul Boulevard di inserire quei volti nel database.»

    «Se non parte in fretta, perderà il treno.»

    «Meglio perdere il treno che farsi assassinare nella hall dell’InterContinental da un commando omicida della Centrale di Mosca.» Ancora una volta, l’immagine si trasformò in una serie di riquadri. Scocciato, Gabriel diede un colpetto allo schermo.

    «Lascia perdere» disse Lavon. «Ci ho già provato.»

    Passarono dieci minuti prima che l’ufficio operativo del King Saul Boulevard dichiarasse di non aver trovato corrispondenze per i quattro volti nella galleria digitale dei sospettati dell’Ufficio, tra agenti segreti nemici, terroristi noti o presunti e mercenari privati. Solo allora Gabriel compose un breve messaggio di testo su un BlackBerry crittato e premette il tasto INVIO. Un istante dopo, osservò Konstantin Kirov prendere in mano il suo cellulare. Dopo aver letto il messaggio di Gabriel, il russo si alzò bruscamente in piedi, si infilò il cappotto e si strinse una sciarpa intorno al collo. Si fece scivolare il cellulare in una tasca, ma tenne la fiala del veleno in mano. Si lasciò alle spalle la valigia.

    Eli Lavon digitò qualcosa sul laptop mentre Kirov apriva la porta della sua stanza e raggiungeva il corridoio. Le telecamere di sicurezza dell’albergo lo seguirono nel breve tragitto fino agli ascensori. Non erano presenti altri clienti o membri del personale, e l’ascensore in cui il russo mise piede era vuoto. Nella hall, invece, regnava il caos. Nessuno parve notare Kirov quando uscì dall’albergo, neppure due gorilla dei servizi segreti ungheresi dal giubbotto di pelle che stavano tenendo d’occhio la strada.

    Mancavano pochi minuti alle nove. Kirov aveva il tempo sufficiente per prendere il treno notturno per Vienna, ma doveva continuare a muoversi. Si diresse a sud su via Apáczai Csere János, tallonato da due sorveglianti di Eli Lavon, e poi imboccò via Kossuth Lajos, una delle arterie principali nel centro di Budapest.

    «I miei ragazzi dicono che è al sicuro» disse Lavon. «Niente russi o ungheresi.»

    Gabriel inviò un secondo messaggio a Konstantin Kirov, con l’istruzione di salire sul treno come da accordi. Lui lo fece con cinque minuti di anticipo, accompagnato dai sorveglianti. Per il momento, non c’era altro che Gabriel e Lavon potessero fare. Mentre si fissavano in silenzio, i loro pensieri furono identici. L’attesa. Sempre l’attesa.

    4

    Stazione di Vienna Ovest

    Ma Eli Lavon e Gabriel non furono soli nella loro attesa, perché quella sera avevano un partner operativo nel Secret Intelligence Service di Sua Maestà, l’agenzia di intelligence più antica e importante del mondo civilizzato. Sei agenti della sua leggendaria stazione viennese – il numero esatto sarebbe presto stato al centro di accese polemiche – vegliavano inquieti in un sotterraneo inaccessibile all’interno dell’ambasciata britannica e un’altra decina era china su una serie di computer e di telefoni lampeggianti a Vauxhall Cross, il quartier generale dell’MI6 con vista sul fiume, a Londra.

    Un ultimo agente dell’MI6, un uomo chiamato Christopher Keller, attendeva davanti alla stazione ferroviaria di Vienna Ovest, al volante di un’anonima berlina Volkswagen Passat. Aveva occhi azzurri luminosi, capelli sbiancati dal sole, zigomi squadrati e un mento spesso con una fossetta. La sua bocca sembrava perennemente piegata in un sorriso ironico.

    Non avendo sostanzialmente altro da fare quella sera, oltre che individuare eventuali malavitosi russi isolati, Keller aveva riflettuto sull’improbabile percorso che lo aveva fatto approdare in quel posto. L’anno perso a Cambridge, l’operazione sotto massima copertura nell’Irlanda del Nord, l’incidente del fuoco amico durante la prima Guerra del golfo che lo aveva proiettato verso un esilio autoimposto in Corsica. Lì aveva appreso un francese perfetto, seppure con accento corso. Aveva anche svolto dei servizi per conto di una nota figura del crimine locale che si sarebbero potuti definire omicidi su commissione. Ma tutto ciò era alle sue spalle. Grazie a Gabriel Allon, Christopher Keller era un rispettabile agente del Secret Intelligence Service di Sua Maestà. Era stato reintegrato.

    Keller guardò l’israeliano sul sedile del passeggero. Era alto e allampanato, con una carnagione pallidissima e occhi del colore del ghiaccio. Aveva un’espressione di profonda noia. Il tamburellio nervoso delle dita sulla consolle centrale, tuttavia, tradiva la sua vera condizione mentale.

    Keller si accese una sigaretta, la quarta in una ventina di minuti, e soffiò una nube di fumo contro il parabrezza.

    «Devi proprio?» protestò l’israeliano.

    «Smetterò di fumare quando tu la smetterai di muovere quelle dita, dannazione.» Keller si espresse con un accento affettato della parte occidentale di Londra, scampolo di un’infanzia privilegiata. «Mi stai facendo venire il mal di testa.»

    Le dita dell’israeliano si bloccarono. Si chiamava Mikhail Abramov. Come Keller, era un veterano di una squadra militare d’élite. Nel caso di Mikhail, si trattava del Sayeret Matkal dell’IDF. Avevano lavorato insieme diverse volte in passato, di recente in Marocco, dove avevano seguito le tracce di Saladin, il capo della divisione Operazioni esterne dell’ISIS, fino a un campo remoto sulle montagne del Medio Atlante. Nessuno dei due aveva sparato il colpo che aveva messo fine al regno del terrore di Saladin. Gabriel era arrivato al bersaglio prima di entrambi.

    «A proposito, come mai sei così nervoso?» chiese Keller. «Siamo nel centro dell’anonima, noiosa Vienna…»

    «Già» disse Mikhail, freddamente. «Qui non succede mai nulla.»

    Mikhail aveva vissuto a Mosca da bambino e parlava inglese con un leggero accento russo. Grazie al talento per le lingue e all’aspetto slavo era riuscito a spacciarsi per russo in diverse, importanti operazioni dell’Ufficio.

    «Hai già operato altre volte a Vienna?» chiese Keller.

    «Una volta o due.» Mikhail controllò la sua arma, una pistola Jericho calibro 45. «Ti ricordi quei quattro attentatori sucidi di Hezbollah che stavano pianificando un attacco allo Stadttempel?»

    «Pensavo che a occuparsene fosse stata l’EKO-Cobra.» L’EKO-Cobra era l’unità tattica della polizia austriaca. «Anzi, sono praticamente certo di averne letto sui giornali.»

    Mikhail rivolse a Keller un’occhiata inespressiva.

    «Sei stato tu?»

    «Mi sono fatto aiutare, ovviamente.»

    «Da qualcuno che conosco?»

    Mikhail non disse nulla.

    «Capisco.»

    La mezzanotte si stava avvicinando. La strada davanti alla moderna facciata di vetro della stazione era deserta e solo un paio di taxi attendevano le ultime corse della nottata. Uno avrebbe accolto il disertore russo e lo avrebbe portato al Best Western sullo Stubenring. Da lì, avrebbe coperto a piedi il resto del tragitto fino all’appartamento sicuro. A decidere se accoglierlo o meno sarebbe stato Mikhail, che lo avrebbe seguito a piedi. L’ubicazione dell’appartamento sicuro era forse

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