Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il gioco grande
Il gioco grande
Il gioco grande
E-book502 pagine7 ore

Il gioco grande

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

"Il gioco grande" era la definizione cara a Giovanni Falcone per indicare i territori della politica e dell'alta finanza lambiti ma non ancora invasi dalla mafia. Questo romanzo di Alfio Caruso riprende indirettamente fatti, misfatti e protagonisti dell'Italia anni Novanta. Al centro della vicenda c'è il controllo delle Assicurazioni Internazionali. Chi ne detiene il pacchetto di maggioranza domina l'economia. E' giusto ammettere a questa "camera di compensazione" del capitalismo italiano uomini e soldi di origine oscura? Il vecchio e schivo finanziere siciliano Michele Taibi ritiene di si, il suo antagonista Mion di Vallombrosa pensa di no. La partita non è tanto semplice perché alcuni capitali, puliti ma occulti, sono controllati da ambienti vicini al Vaticano, mentre altri fondi occulti (e sporchi) sono manovrati dalla mafia. E come in ogni thriller che si rispetti, un investigatore viene chiamato a risolvere i misteri. Un romanzo d’azione, caldo e senza respiro, ricco di inseguimenti, scontri a fuoco, omicidi, scene d’amore, ma anche un racconto dal tono pacato, riflessivo, che intreccia dialoghi tra potenti, siano essi cardinali, finanzieri o boss di mafia, nella tessitura di un "gioco grande".
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2013
ISBN9788898475513
Il gioco grande
Autore

Alfio Caruso

Alfio Caruso nasce a Catania nel 1950. Dopo la laurea esordisce nel giornalismo scrivendo per Il Corriere della sera e nel 1974 è fra i fondatori del Giornale. Negli anni Ottanta lavora al Corriere e alla Gazzetta dello sport, rispettivamente come caporedattore e vicedirettore, nel 1995 diventa co-direttore del Messaggero, mentre nel 1996 è direttore editoriale della Nazione, Resto del Carlino, Giorno. Parallelamente alla sua carriera giornalistica sviluppa una carriera letteraria scrivendo romanzi, thriller e saggi sulla storia italiana e sulla mafia. Ha pubblicato le sue opere con Leonardo, Rizzoli, Longanesi, Einaudi e Neri Pozza.

Leggi altro di Alfio Caruso

Correlato a Il gioco grande

Ebook correlati

Narrativa politica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il gioco grande

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il gioco grande - Alfio Caruso

    VandA Introvabili

    © Alfio Caruso

    © 2013 VandA.ePublishing S.r.l.

    Sede legale e redazione: Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN 978-889847-551-3

    Prima edizione: Novembre 2013

    Prima edizione cartacea: Rizzoli, 1994

    Edizione elettronica: eBookFarm

    Grafica di copertina: Network Comunicazione

    www.vandaepublishing.com

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    I

    Agatino Provvidenza alzò il capo e seppe che non avrebbe finito le trenette al pesto appena assaggiate. Il pensiero corse subito a Genny. Gli venne da sorridere: morire per un culo… Abbassò il capo e non assistette alla propria esecuzione.

    «Ha chinato la testa. Secondo me aveva capito tutto e ha preferito non guardare.» Puny parlava sottovoce. Un po’ per rispetto nei confronti del morto, un po’ per non farsi udire. Metà dei clienti era andata via, ma l’altra metà era rimasta, curiosa di qualche particolare in più. Un omicidio a Portofino, un morto da Puny, uno dei ristoranti più celebri d’Italia. Ci si poteva campare sopra per tutta la prossima estate che era vicinissima, nonostante il temporale durasse da tre ore. L’unico preoccupato appariva Puny. Sarebbe finito sui giornali e per una volta non gli garbava. Al suo naso di vecchio marinaio la storia puzzava. Parecchio.

    «Lei come mai stava seguendo la scena?» Il tenente dei carabinieri era paffuto e roseo.

    Con questa faccia fai il carabiniere? Puny cacciò via la domanda impertinente e provò a rispondere nel modo più convincente. «Stasera manca mia moglie e mi occupo anche della cassa. Ero lì a preparare un conto quando ho visto entrare nel locale un tipo alto, con un cappellaccio, l’impermeabile gocciolante. Ha girato gli occhi per la sala e io ho pensato che stesse cercando proprio quello lì…» Puny con la mano destra indicò il corpo finito quasi per metà sul tavolo con le trenette che sgusciavano da sotto la gola, il collo ingobbito sul piatto, la faccia poggiata di tre quarti sulla tovaglia.

    «Perché?» chiese il tenente.

    «Il morto» quello di Puny fu un sussurro di complicità, di rispetto, di timore «… era arrivato chiedendo un tavolo per due; ne aveva rifiutato uno in centro preferendo quello addossato alla parete. Aveva subito ordinato… Anzi, aspetti che la faccio parlare con il cameriere che era al tavolo… Mario, vieni qui… c’è il signor tenente che ha bisogno di te.»

    Mario si aggiustò la camicia, si schiarì la gola.

    «Ascolta, Mario,» disse Puny col suo bel timbro rauco che conferiva un tono di passionalità a ogni frase «adesso tu rispondi alle domande del signor tenente e cerchi di ricordare perbenino tutto… Intesi?»

    «Permette?» s’intromise il tenente indispettito dal vedersi anticipato. «Mi può ripetere tutto quello che le ha detto l’ucciso?»

    «Oh c’è poco da ripetere.» Mario sbirciò Puny per controllare se aveva cominciato nel modo giusto.

    «Questo lascialo giudicare al signor tenente» disse Puny sempre meno convinto dell’abilità professionale del tenente. Non ricordava di averlo mai visto, e dire che appena il mese prima aveva avuto a cena il comandante generale dell’Arma con un seguito sconfinato di ufficiali. Il tenente era così giovane e appariva così sprovveduto che doveva esser stato inviato a Santa Margherita da poco tempo.

    «La prima cosa che ha detto» riprese Mario «fu se non si poteva mangiar fuori, sotto la tettoia. Visto come vien giù l’acqua, bisogna proprio esser strambi per voler mangiar fuori.» Mario cercò con gli occhi una solidarietà che trovò in Puny e nella piccola corte di camerieri e di cuochi che gli stava intorno. «Poi aggiunse che gli serviva un tavolo per due. Scartò quello in mezzo, e sedette là…» Mario si voltò verso il tavolo e quasi vomitò.

    Due carabinieri avevano sistemato il cadavere con le spalle al muro e lo perquisivano. La parte sinistra del cranio non esisteva più: volata via, appiccicata sulla parete, sparpagliata in terra. Nessuno si era ancora preoccupato di chiudere i due occhi sbarrati.

    «Portate un bicchiere di vino per Mario» disse Puny. Mario bevve una prima volta, bevve una seconda volta.

    «Va meglio?» s’informò il tenente.

    «Sì, grazie… Poveraccio.» Mario con un movimento del capo indicò l’uomo ucciso.

    «Signor tenente, abbiamo trovato i documenti» annunciò un carabiniere che non dimostrava più di vent’anni.

    «E allora?» si spazientì il tenente.

    Intorno il silenzio era diventato assoluto. Molti avevano percepito la domanda, tutti attendevano la risposta.

    «Provvidenza Agatino, anni cinquantanove, di professione artista, nato a Somma… Somma…, si legge male… Ah sì: Sommatino.»

    «Sommatino, provincia di…?» Il tenente rimase in attesa.

    «Caltanissetta, signor tenente.»

    «Siciliano» mormorò Puny i cui peggiori sospetti si tradussero in una smorfia.

    «Che cos’ha addosso?» Il tenente lo chiese all’altro carabiniere che continuava a intrufolare le mani nelle tasche della giacca e dei pantaloni.

    «Portafoglio con trecentocinquantamila lire, una tesserina dei telefoni, la patente, la carta d’identità. Nient’altro.»

    «Bigliettini, ricevute, carte di credito…»

    «No, signor tenente.»

    «Il killer ha per caso prelevato qualcosa dall’uomo o anche dal tavolo?» Il tenente fece correre lo sguardo su Puny e sugli altri.

    «Non si è neanche avvicinato al tavolo» rispose Puny. «Ha estratto la pistola dalla tasca dell’impermeabile, ha sparato tre colpi ed è andato via. Semplice, no?»

    Il tenente annuì prima di girarsi verso Mario. «Continui il suo racconto.»

    «C’è poco da continuare. Io gli chiesi se gradiva un aperitivo immaginando che avrebbe atteso il suo ospite. Lui mi rispose che preferiva ordinare. Non ha guardato neppure il menù. Trenette al pesto, fritto di calamari, un bianco di Gavi.»

    «Era già stato qui? Come mai non ha consultato il menù?»

    «Mai visto prima, glielo garantisco, signor tenente» Puny mosse entrambe le mani per conferire maggior forza alla propria affermazione.

    «Non disse nient’altro?» Il tenente fissò nuovamente Mario.

    «Zero virgola zero.»

    «Com’era l’uomo che ha sparato?»

    «Ad averlo visto…» esclamò Puny. «Aveva questo cappellaccio che copriva tutto il volto, l’impermeabile bianco con i baveri rialzati. Era molto alto, ben messo. Ma per il resto…» Puny guardò il personale, guardò i clienti. «Se qualcuno ha visto qualcosa, lo dica. Cerchiamo di aiutare il signor tenente.»

    Ci furono espressioni desolate, braccia allargate.

    «L’unico che può averlo visto, non c’è.»

    Il tenente fissò la cameriera che aveva parlato.

    «Che vuoi dire?» Puny ebbe una nota di evidente rimprovero.

    «Quel tizio» proseguì la cameriera «dopo aver sparato uscì di corsa, io stavo morendo dalla paura ma allungai la testa per seguirlo. All’inizio della tettoia si scontrò con uno che entrava. Madonna santa, pensai, adesso ammazza anche questo. Invece cominciò a correre verso il porto. Quello con cui si era scontrato arrivò fino all’ingresso, guardò dentro e poi si allontanò anche lui in fretta. Io a quel punto mi avvicinai…»

    «Che cosa vide?»

    «Udii un motore che girava al massimo, proprio qui sotto. Era un piccolo motoscafo… E sul motoscafo c’era quello che aveva sparato.»

    La cameriera puntò il dito verso il porticciolo oltre la piazza deserta, i tavolini e le sedie accatastati, le tettoie intristite dalla pioggia, le insegne spente. L’unica luce era il lampeggiatore acceso sulla Uno con cui i carabinieri erano giunti invadendo l’isola pedonale.

    «Ne è sicura?» Il tenente ritornò alla carica.

    «Ho riconosciuto il cappello. L’aveva talmente enorme che non ci si poteva sbagliare…»

    «E l’altro, l’uomo con cui si era scontrato?»

    «Sparito.»

    «Potrebbe riconoscerlo?»

    «Chi? L’uomo che ha sparato?»

    «No, l’altro.»

    «Forse… Era un negro.»

    «Un nero, vuol dire.» Il tenente ci teneva a esser corretto e lontano da ogni possibilità di equivoco.

    «Un negro?» Puny non trattenne la sua sorpresa.

    «Proprio un negro.»

    «Era l’ospite che l’ucciso aspettava» affermò deciso Puny.

    «Che cosa glielo fa pensare?» Il tenente fu subito interessato.

    «Tenente caro, qui di negri ne vediamo pochi, soprattutto in maggio e con un tempo simile. Un negro e per giunta da solo, che appena realizza cos’è accaduto se ne va: uhm… Mi sa tanto che era il compare del siciliano.»

    Ma dove arriveremo? L’avvocato Giandomenico Pisoni rimase perplesso e senza risposta. Il titolo del «Corriere della Sera» l’aveva dolorosamente colpito, peggio di un calcio nelle palle: «La mafia uccide anche a Portofino». Addirittura da Puny, il suo ristorante preferito. Come si erano permessi? Chi si credevano di essere? Quell’omicidio era la dimostrazione del degrado in cui era sprofondata la società. Le parole non bastavano più… Avrebbe dovuto telefonare a Puny: per esprimere la propria solidarietà, per chiedere se serviva qualcosa, per avere qualche particolare in più.

    Pisoni rilesse l’articolo. Era ansioso di controllare che non gli fosse sfuggito qualche particolare. La sera insolitamente piovosa; la piazzetta deserta; i pochissimi turisti tutti accalcati nel locale di Puny; la spavalderia del killer nel colpire dentro il ristorante affollato; l’ampio cappello che ne aveva coperto i lineamenti; l’impermeabile zuppo di acqua; il pistolone estratto all’improvviso (i carabinieri ipotizzavano una 38 special canna lunga); la testa della vittima abbattutasi sul piatto di trenette dopo che le tre pallottole l’avevano mandato a sbattere contro la parete; la fuga del killer con un piccolo motoscafo in attesa accanto ai gradini della piazzetta digradanti nell’acqua; la presenza di un misterioso uomo di colore: aveva di sicuro visto il killer in faccia, ma era sparito.

    Le conclusioni dell’articolo restavano vaghe: un delitto misterioso. Se però c’era di mezzo uno nato in Sicilia, come faceva a non entrarci la mafia?

    La deduzione parve a Pisoni incontrovertibile nella sua inesorabilità. Ed essa aumentava il fastidio interiore. Ma perché quel barbaro era venuto a farsi uccidere proprio a Portofino? Se ormai uccidevano anche da Puny, in quale posto ci si poteva più ritenere al sicuro? Dove condurre una dolce signora per potersi perdere nei suoi occhi senza il timore di dover evitare pallottole vaganti?

    Bevve i resti di un caffè ormai freddo. Si alzò dalla poltrona e tirò in basso gli orli del panciotto: o era ingrassato o la vista del vecchio e frenetico Angelo, il sarto di via Solferino, scemava. Di sicuro il tre pezzi fumo di Londra che Angelo gli aveva modellato con un’unica prova, come faceva da oltre vent’anni, non era inappuntabile. Fu incerto se mettersi a dieta o se cambiar sarto. Probabilmente era stato Angelo a fidarsi troppo della propria abilità. Il pensiero gli dette un brivido: Angelo doveva consegnare fra due giorni lo smoking di seta per il ricevimento di domenica. La duchessa Morlotti l’aveva organizzato per festeggiare il suo terzo mandato alla presidenza del Credito Industriale. Che cara ragazza. Quindici anni prima avevano allacciato una breve relazione. Pisoni era ancora convinto che a un suo cenno lei sarebbe accorsa mollando marito, figli, nipoti. Non gli aveva detto che era il suo più grande amore in terra?

    Valle a capire le donne. Pur avendone collezionato un bel numero, Pisoni non si giudicava un esperto. Ma c’era poi un campo in cui poteva essere giudicato un esperto?

    Di umana sopravvivenza, si rispose con un bel sorriso premendo il pulsante dell’ascensore privato.

    Ne era servita tanta per arrivare a quella poltrona del Credito Industriale. E ne era servita ancora di più per mantenerla così a lungo. Con il nuovo mandato avrebbe toccato i nove anni di presidenza: si sarebbero ricordati di lui. Se poi avesse infilato il quarto mandato sarebbe entrato fra i primatisti della banca. Presidente per dodici anni c’era stato soltanto il leggendario Matteucci, uno dei padri fondatori.

    La Mercedes blu occupava tutta la fetta di via Moscova prospiciente il portone. L’autista parlottava con Giovanni, il custode dello stabile che ogni mattina pattugliava dalle 8 il marciapiede per tener libero il posto. L’avvocato Pisoni montò rapidamente e prese in mano il primo giornale della pila che era stata sistemata secondo un ordine prefissato dalla sua segretaria. Erano giornali di secondario interesse – quelli importanti li consultava appena sveglio – e servivano, più che a informarlo, a fargli compagnia lungo il tragitto. A quell’ora da via Moscova a corso Matteotti il traffico era intenso. Avrebbe fatto prima a piedi e la passeggiata gli sarebbe anche piaciuta. Temeva però che l’avrebbero preso per un imitatore di Taibi e invece, pur con il dovuto rispetto, almeno in questo voleva evitare di essere rapportato a Taibi, che nei giorni dispari era la sua disperazione e nei giorni pari anche.

    «Rivaroli!»

    Fu un ordine più secco di una frustata. Dopo averlo pronunciato Pisoni si allargò sulla poltrona.

    Nello studio, che aveva le dimensioni di un appartamento medio, entrò un uomo dietro la cui aria compassata trapelava il desiderio di far bene e presto. Spalancò un pannello di noce scurita in tono con il resto della libreria: comparve lo schermo rettangolare di una tv ad alta definizione. Rivaroli pigiò i tasti del telecomando. S’illuminò la sigla del Tg1.

    «Il colore» disse Pisoni. «Non ci siamo con il colore. Gliel’avevo già detto l’altro giorno…»

    Rivaroli continuò a trafficare con i tasti.

    «Ma non dipende dal telecomando» Pisoni si spazientì. «Ci vuole un signor tecnico. Quello che lei non è.»

    Eppure Pisoni era sicuro che Rivaroli pur di soddisfarlo sarebbe stato felice di trasformarsi in un tecnico televisivo. Soltanto uno continuamente ansioso di essere apprezzato poteva accettare tra le principali mansioni quella di sintonizzarsi sul telegiornale delle 13.30.

    Pisoni per alcuni secondi si distrasse dalle amate notizie, senza le quali non sarebbe riuscito a mettersi a tavola, per squadrare Rivaroli indaffarato con il telecomando. Tanta devozione lo insospettiva, gli metteva paura. Era sempre stato persuaso che se Rivaroli un giorno avesse avuto potere, qualsiasi tipo di potere, avrebbe dato ordine di gettarlo in strada dai balconi dell’ufficio al sesto piano. Magari conservando la stessa aria compassata, magari raccomandandosi di non farlo soffrire: che l’ammazzassero al primo tentativo.

    Si conoscevano da più di trent’anni… Cioè Rivaroli conosceva molto di lui avendo dovuto assolvere nel tempo a parecchie incombenze: dall’acquisto degli elettrodomestici al pagamento delle bollette. Pisoni, viceversa, sapeva a stento che l’altro era sposato e che la prima figlia era morta di eroina. Circa un mese dopo il decesso aveva scoperto che per fortuna il giorno del funerale qualcuno della segreteria aveva spedito un telegramma di condoglianze a suo nome. Rivaroli figurava quale suo assistente, in realtà era stato il suo factotum fin dal lontano mattino in cui si erano incrociati nell’ufficio legale del Credito Industriale. Pisoni ne era già il responsabile e Rivaroli l’ultimo assunto, ancora fresco di laurea. Alle sue spalle Rivaroli aveva compiuto una silenziosa carriera seguendolo da un incarico all’altro: per tutti era rimasto il dottor Rivaroli, nessuno gli aveva mai attribuito il titolo di avvocato, anche se gli spettava. Temevano di equipararlo all’unico che in banca poteva godere di simile titolo. L’eccelso, inarrivabile, magnifico presidente, avvocato Giandomenico Pisoni.

    Al termine del telegiornale s’imbatté di nuovo nell’omicidio di Portofino. L’operatore della Rai doveva esser giunto pochi minuti dopo l’assassinio. Mani e braccia del cadavere uscivano dalla tovaglia che era stata gettata sopra e che in prossimità della testa era sporca di sangue. Fu intervistato il tenente dei carabinieri della stazione di Santa Margherita. Disse che le indagini si sarebbero sviluppate a trecentosessanta gradi, nessuna pista sarebbe stata trascurata.

    Non bastarono queste assicurazioni a cancellare il malumore di Pisoni. Ce l’aveva talmente con il mondo che affrontò a piedi il tragitto fino a via Manzoni. A costo di giungere in ritardo all’appuntamento.

    Piovigginava. Tagliò da piazzetta Belgioioso rimirando gli ultimi due balconi sulla destra: l’appartamento che vanamente inseguiva da dieci anni. Entrò nel portone di via Manzoni accanto all’incrocio con via Andegari. Avrebbe potuto percorrere a occhi chiusi il corridoio stretto e lungo, illuminato dalle fioche lampadine dei candelabri appesi ai muri. Fu introdotto nella stanza a sghimbescio che continuavano a spolverare troppo poco e da lì nel saloncino con le pareti di velluto rosso.

    L’anziano signore, lungo e dritto, si alzò lentamente da un’ampia seggiola con i braccioli in legno e con lo schienale imbottito in raso. Abbassò la manica della giacca destra sull’orologio che aveva appena consultato per far rimarcare la scarsa puntualità. Strascicando i piedi imboccò la porta posteriore del saloncino. Entrarono in un soggiorno le cui finestre prendevano luce da via Manzoni. Per molti secondi il silenzio fu interrotto dalle goccioline che picchiettavano sui vetri.

    Pisoni conosceva a menadito il cerimoniale e vi si attenne con scrupolo. Un cameriere in giacca e guanti bianchi, che negli anni aveva visto invecchiare molto più velocemente del suo padrone, finì di apparecchiare due posti del tavolo rotondo. Dunque non vi sarebbero stati altri invitati. Avrebbe goduto in solitudine delle confidenze e dei desideri del dottor Michele Taibi. Questi appariva già sui giornali quando lui doveva essere ancora assunto all’ufficio legale del Credito Industriale: era l’amministratore delegato di Centro Sviluppo, il più appartato e potente istituto finanziario del Paese, crocevia di tutti gli accordi e di tutte le guerre economiche. Pisoni rifletté che Centro Sviluppo e il dottor Taibi dopo quarant’anni di esistenza erano sconosciuti alla stragrande maggioranza degli italiani, la stessa che a volte si era trovata più povera e più indebitata perché qualcuna delle brillanti operazioni studiate a tavolino dal dottor Taibi era risultata un fiasco.

    «Si vuole accomodare?» Taibi conservava una voce in falsetto nonostante gli ottant’anni compiuti il mese prima.

    Il cameriere fu congedato con un gesto della mano.

    Sul carrello in prossimità del tavolo rotondo, Pisoni adocchiò mozzarelle di bufala, salmone lesso, verdure cotte, insalata verde, pomodori sconditi, poche strisce di prosciutto crudo, grissini al papavero, acqua minerale senza gas, ananas affettato. E poi in disparte, quasi un segnale d’inaccessibilità, la ciotola di porcellana ricolma di ricotta fresca mescolata con zucchero e cannella. Arrivava ogni mattina con l’aereo da Palermo. Quando c’era nebbia a Linate, Taibi la mandava a prendere in una fattoria di Gorgonzola. «Però si sente che non è la stessa cosa» era, in questi casi, il suo commento alla prima cucchiaiata.

    In dodici anni che Pisoni veniva ammesso al rito delle due, il menù non era mai cambiato. E non era cambiato neppure il modo in cui Taibi avviava il colloquio.

    «Ci sono due notizie» disse infatti Taibi. «Una buona, una cattiva.»

    Per Taibi anche quando c’era una sola notizia questa non era mai né buona né cattiva, bensì presentava un aspetto buono e uno cattivo. Per lui il binomio buono-cattivo era inscindibile. Frequentandolo con assiduità Pisoni aveva appreso che persino gli uomini delle banche, delle aziende di Stato, delle holding private venivano scelti con questo sistema: passando al microscopio ciò che in loro sussisteva di buono e di cattivo. Pisoni aveva compiuto discrete indagini per comprendere quale fosse la sua personale mescolanza di buono e di cattivo che sei anni prima aveva indotto Taibi a suggerire il suo nome nella rosa dei papabili per il Credito Industriale. Ma persino coloro ai quali era spettato il compito ufficiale di nominarlo erano stati incapaci di svelare i segreti pensieri di Taibi. E Pisoni non aveva mai avuto la faccia tosta di azzardare una domanda così diretta a Taibi. Gli bastava la gratificazione di esser l’unico, fra quelli di sua conoscenza, con cui Taibi accettava di uscire dai prolungati mutismi.

    «Cominciamo dalla notizia buona» disse Taibi dopo aver spalmato sul piatto la ricotta che costituiva la colazione del mattino e la cena della sera. «La vicenda Elettroluce è a posto.» Taibi mise in bocca una minuscola porzione di ricotta e la tenne a lungo nel palato prima d’ingoiarla con un piccolo guizzo del pomo d’Adamo.

    Pisoni trasalì. L’Elettroluce non l’aveva fatto dormire per molte notti. E non aveva fatto dormire Taibi che l’aveva spesso svegliato a ore impossibili. L’Elettroluce figurava come una finanziaria di quart’ordine, una scatola pressoché vuota che le grandi famiglie e i gruppi dell’alta finanza usavano per i giochi sporchi. L’ultimo proprietario risultava una società anonima lussemburghese che le male lingue attribuivano a Centro Sviluppo. A tentare d’impossessarsene con furiosi acquisti dentro e fuori Borsa erano state mani senza volto. Pisoni se n’era disinteressato fino al giorno in cui Taibi gli aveva mormorato che se l’Elettroluce fosse stata conquistata dagli assalitori sarebbe stato un bene per i piccoli azionisti che ci avevano sempre rimesso un mucchio di quattrini, ma sarebbe stato un male per i detentori di alcuni pacchetti azionari che vi erano stati posteggiati.

    «Un brutto posto per acquattare segreti così scottanti,» aveva aggiunto Taibi «ma chi li ha acquattati non poteva comportarsi diversamente.»

    Pisoni aveva abbozzato. Dentro l’Elettroluce, per motivi che non aveva avuto modo di appurare e che a un certo punto era stato ben lieto di non poter appurare, avevano addirittura nascosto il 2 per cento delle Assicurazioni Internazionali, il bastione più importante del capitalismo italiano. Talmente importante che il suo capitale era frantumato in tante piccolissime quote e il controllo affidato a un sindacato con il 25 per cento del pacchetto azionario. Centro Sviluppo era a capo di questo sindacato e da un paio di lustri gli sforzi di Taibi erano indirizzati verso un notevole rafforzamento del sindacato. Nei rari interventi pubblici aveva espresso con chiarezza il timore che il gruppo di comando delle Internazionali fosse troppo esposto ad assalti esterni, che il 25 per cento era una quota troppo esigua per non scatenare le voglie di scalatori di passaggio e di strateghi dell’alta finanza, per non parlare delle forze politiche, delle lobbies vecchie e nuove del Paese. Non veniva detto e ripetuto con frequenza settimanale che chi possedeva le Internazionali possedeva mezza Italia?

    Pisoni non si era dunque stupito nello scoprire l’assoluto convincimento di Taibi che a guidare l’aggressione a Elettroluce fosse stato Giancesare Alpi, quarta generazione di industriali dell’acciaio, troppo furbo per esporsi in prima persona, ma così potente da far muovere alcuni storici alleati, anche stranieri, mentre lui se ne restava in Costa Smeralda a imbucare la pallina del golf. E in un mondo popolato da briganti di strada, pur con le maniere di un perfetto maggiordomo inglese, il convincimento interiore di Taibi bastava per mandare chiunque all’inferno.

    «Non è curioso di sapere in che modo la vicenda Elettroluce si è messa a posto?»

    Pisoni con la testa fece di sì e con lo sguardo puntò il piatto di Taibi pieno per metà.

    «Ho finito… Oggi pomeriggio alle diciotto lo studio Mambretti chiederà la convocazione in seduta straordinaria dell’assemblea della Fam.» Taibi tacque per godersi il disorientamento del suo ospite.

    Pisoni prolungò al massimo la masticazione per capirci qualcosa. La Fam apparteneva ai fratelli Calvini: che c’entravano con l’Elettroluce? Un momento… Nel consiglio d’amministrazione della Fam sedevano i principali amici di Giancesare Alpi, lo stesso Fabrizio Calvini, il presidente della Fam, era stato a volte indicato come una testa di turco di Alpi. E quasi tutti i componenti del consiglio d’amministrazione della Fam figuravano nel consiglio d’amministrazione delle Acciaierie Alpi.

    «Esatto» disse Taibi leggendogli nel pensiero. «Lo studio Mambretti ha intenzione di avviare un’azione di responsabilità per false comunicazioni ai soci e irregolarità in bilancio.»

    «Ma è un’enormità.»

    «Lei trova?»

    «È una dichiarazione di guerra ad Alpi.»

    «Nulla di personale, soltanto affari. Se un giorno dovessimo scoprire che dietro l’attacco a Elettroluce c’è Giancesare Alpi, non penseremmo mai che egli abbia mosso guerra a Centro Sviluppo o a un certo ordine del nostro sistema finanziario. Diremmo che ha concluso un affare… o che quanto meno ci ha provato.» Taibi socchiuse le palpebre.

    «Su Alpi esistono sospetti, non prove.»

    «Anche lui avrà sospetti, non prove su chi vuole portare i suoi amici davanti a un giudice. Pure noi abbiamo usato i guanti per non lasciare tracce.»

    «Ci saranno molte domande sulla provenienza dei quattrini, perché ne saranno serviti un bel mucchio per mettere assieme il 20 per cento della Fam. La Consob non potrà fare a meno d’intervenire.»

    «Ho l’impressione che si sia trattato di una scalata avvenuta con capitali esteri. Lo studio Mambretti è soltanto il rappresentante italiano.»

    «Ha calcolato le conseguenze in Borsa, i titoli dei giornali, le mille scaramucce che si scateneranno ovunque?»

    Taibi scostò la manica della giacca dall’orologio. «Da alcuni minuti un avvocato dello studio Mambretti ha annunciato a Fabrizio Calvini che un loro cliente ha raccolto il 20 per cento della Fam e che in base al codice sarà chiesta la convocazione di un’assemblea straordinaria per avviare un’azione di responsabilità. Se vogliono hanno tre ore e mezzo di tempo per trovare un’intesa.»

    Se non avessero voluto, sarebbe stata davvero guerra. Alpi che contro il volere di Taibi tenta di aggiudicarsi il 2 per cento delle Internazionali, Taibi che mette nelle pesti lo stato maggiore di Alpi. Sembravano le avvisaglie di un cataclisma. Pisoni considerò che nemmeno Giancesare Alpi e i suoi amici potevano permettersi di sfidare un’azione di responsabilità: fino al giorno della sentenza avrebbe comunque rappresentato una macchia sul blasone. E dei signori sospettati di basse scorrettezze come avrebbero potuto giustificare di essersi impossessati con una manovra ostile del 2 per cento delle Assicurazioni Internazionali?

    «È preoccupato?» chiese Taibi. «Un po’ di ananas?»

    «Il mio compito qual è?»

    «Fare incetta da stasera, attraverso i suoi uomini di Borsa, di azioni Multirex.»

    Oddio, pensò Pisoni, altro che guerra, siamo al bombardamento atomico. La Multirex era la principale cassaforte della famiglia Alpi.

    «Su con il morale» disse Taibi. «Vedrà che non ci sarà bisogno di giungere a tanto. Giancesare Alpi oltre che una persona dabbene è un uomo pratico. Sa che i costi finanziari di una simile disputa sarebbero eccessivi. Non parlo soltanto di quattrini… In questi casi è sempre noto il punto di partenza, ma non lo è quello di arrivo.»

    Lo si sarebbe potuto dire per qualsiasi impresa in cui fosse coinvolto Taibi. Pisoni era persuaso che disorientare amici e nemici fosse uno dei pochissimi divertimenti di quell’uomo che da circa dieci anni doveva essere in pensione e che invece era sempre assiso sulla sua poltrona a fare e disfare: salvato dapprima da una delega speciale e poi dalla privatizzazione di Centro Sviluppo. Tre quarti della finanza, dell’industria e dell’economia del Paese erano legati a lui. Quando Centro Sviluppo era stato ufficialmente in mano al capitale pubblico, Taibi era stato accusato di fare il gioco dell’alta finanza privata. Da quando Centro Sviluppo era passato in mano ai privati, Taibi veniva accusato di essere una quinta colonna dello Stato, peggio: dei partiti.

    L’unico a non essersi dato cura delle accuse era stato proprio il diretto interessato. Chi le aveva espresse aveva finito prima o poi con il ritrovarsi emarginato. Nell’ordine cosmico inseguito da Taibi attraverso disegni tanto sottili quanto misteriosi, la ribellione non veniva neppure prevista e la fedeltà veniva adeguatamente ricompensata. Di conseguenza Pisoni, che voleva continuare a essere ciò che era, avrebbe obbedito ai desiderata di Taibi. Anche se l’idea d’imbarcarsi in una guerra contro Alpi lo deprimeva, anche se un forsennato acquisto di azioni Multirex poteva procurargli complicazioni infinite. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto provare a dire di no. Fu attraversato da un brivido subitaneo. Per assolversi, ammise con se stesso che doveva riconoscenza al vecchiaccio: quando mai senza il suo aiuto sarebbe diventato presidente del Credito Industriale?

    «Ancora pensieroso?» disse Taibi. «Giancesare Alpi le ha tolto il buonumore? Oggi sembra che sia io l’ottimista fra noi due.»

    Pisoni contenne la smorfia.

    «Teme qualcosa per la sua banca? Eppure le ho soltanto chiesto di contribuire alla difesa dell’ordinamento sociale. Dovrebbe essermene grato.»

    «Se lo dice lei.»

    «Lo dico, lo dico. E le dico pure che stavolta ci fermeremo all’accademia. Un po’ di proclami, schieramento di truppe con relativi polveroni, reciproca misurazione delle forze in campo e amici come prima. Vedrà.»

    Pisoni provò a calcolare i miliardi adoperati da una parte e dall’altra per mettere in scena l’accademia, come l’aveva definita Taibi. Duecento? Forse trecento, se non addirittura quattrocento: erano stati tutti in gara contro il tempo e avevano dovuto comprare al meglio. Quattrocento miliardi per lasciare alla fine le cose al loro posto. Per i piccoli azionisti della Borsa si annunciava un’altra bella tosatura. Qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto ed era da escludere che fossero Alpi, gli amici di Alpi, Taibi, lo sconosciuto alleato di Taibi. In questi casi c’era sempre il parco buoi dei risparmiatori da sfruttare. Taibi in uno dei loro primi incontri gli aveva detto: «Coloro che entrano nella Borsa italiana sono irresponsabili giocatori d’azzardo che vogliono provare l’emozione di stare insieme con i potenti. È normale che ogni tanto si chieda loro di pagare il biglietto».

    «Lei è fiducioso?» domandò Pisoni.

    Taibi trasse un piccolo respiro. «Credo nell’istinto di sopravvivenza.»

    Ci fu di nuovo un lungo silenzio. Ricomparve il cameriere con due tazze di caffè su un vassoio di spesso argento.

    Pisoni mise due cucchiaini di zucchero, Taibi lo rifiutò.

    «Lei» disse Pisoni «continua a ricercare altre dolcezze della vita…»

    «Si sbaglia. Non voglio mai dimenticare che persino le cose che piacciono, e a me il caffè piace, al fondo sono amare.»

    Pisoni si ricordò che Taibi aveva smesso di fumare e s’impose il sacrificio di non accendere la sigaretta.

    «Veniamo adesso alla notizia cattiva. Sono stato a Roma a discutere con il capo del governo. Ho riproposto un aumento di capitale delle Assicurazioni Internazionali che metta la proprietà al sicuro da ogni scalata…»

    «Ha parlato dell’Elettroluce?»

    «No, ma ho avuto la sensazione che qualcosa sia trapelata. Mi sono tenuto sulle generali spiegando che in un momento così critico per la nostra intera economia sarebbe delittuoso se le Assicurazioni Internazionali fossero sottratte al controllo dell’attuale sindacato. E che questo all’incirca sta bene a tutti e protegge gli interessi di tutti…»

    All’incirca, commentò mentalmente Pisoni.

    «Mi segue oppure no? Oggi è distratto come un cane che annusa a distanza una cagna in calore. Ho cercato di far entrare nella testa di quel cocomero che abbiamo al governo che l’unico modo per evitare i problemi è l’aumento di capitale delle Internazionali.»

    «Il cocomero che cosa ha risposto?»

    «Ha convenuto pienamente, però rifiuta ogni aumento di capitale. Sostiene che dopo tre anni di una crisi economica come la nostra sarebbero soltanto gli speculatori e il grande capitale estero ad avere i fondi necessari per sottoscrivere l’aumento di capitale. Secondo lui correremmo il rischio d’infilarci i nemici in casa.»

    «È una tesi convincente.»

    «Pisoni, la smetta di credere alla buona fede altrui. Molto più semplicemente il nostro intemerato presidente del Consiglio è convinto che nella prossima tornata delle nomine bancarie potrà ottenere un paio di poltrone importanti per gli amici e aumentare così il suo peso nelle Assicurazioni Internazionali.»

    Taibi si mise comodo. «Sarebbe stato inutile rivelargli che cosa bolle in pentola.» Lo disse parlando più a se stesso che a Pisoni. «Quelli di Roma non cambiano mai: non vogliono cambiare, sono sempre gli stessi.»

    Per quanto ricordava Pisoni, neppure Taibi era cambiato. Stava a quel posto da quarant’anni per volontà dei diversi azionisti che si erano succeduti nel possesso di Centro Sviluppo: non uno solo di loro avrebbe affermato che Taibi era stato il difensore dei suoi interessi, eppure non uno solo di loro avrebbe fatto a meno dei suoi servigi, dei suoi consigli. Taibi incuteva paura da amico, ma ne incuteva molta di più da nemico. Le Assicurazioni Internazionali costituivano il suo assillo. Il sindacato di controllo era stata una sua brillante trovata e nel tempo aveva retto bene alle prove. Si trattava di azionisti che mettendo assieme soltanto il 25 per cento del pacchetto esercitavano un comando assoluto. Al loro interno Centro Sviluppo con il 10 per cento rappresentava la voce più importante.

    Che cos’era accaduto ora di così traumatico da spingere Taibi a uscire allo scoperto? Possibile che fosse l’assalto all’Elettroluce? Si trattava del 2 per cento delle Internazionali: un pacchetto cospicuo, ma non decisivo. Pisoni non trovò alcuna risposta persuasiva e fu in imbarazzo a dover dipendere una volta di più da quell’ottantenne che magari avrebbe accompagnato lui e tutti gli altri al cimitero, guardandosi bene dal versare una lacrima.

    «La vicenda Elettroluce ha dato corpo ai miei peggiori sospetti.» Taibi gli aveva letto un’altra volta nell’animo. «Così come siamo strutturati, le Internazionali non sono difendibili. Dico sul mercato.» Taibi tirò fuori dal panciotto un foglio a quadretti, inforcò un paio di occhialini. «Le Internazionali hanno chiuso oggi a 30.027, il che significa che il 10 per cento costa in Borsa 2 mila 188 miliardi 217 milioni e 625 mila lire e il 20 per cento poco meno di 5 mila miliardi. Li aveva mai fatti questi conti?»

    «Così alla lira, no.»

    «Male, conviene sempre conoscere i nostri punti deboli.»

    «Le Internazionali lo sono?»

    «Davanti a un’offerta pubblica di acquisto di 7-8 mila miliardi per il 20 per cento delle Internazionali, il che comporterebbe l’automatico controllo della Compagnia, potremmo resistere? Soprattutto se questa offerta pubblica di acquisto provenisse dall’estero? Penso proprio di no. Potremmo inventarci lacci e lacciuoli, fare terra bruciata davanti ai barbari conquistatori, ma alla fine, con le massaie, i commercianti, gli impiegati che farebbero a pugni per offrire le loro azioni ai nuovi padroni, dovremmo pur salvare le apparenze e arrenderci alle sacre e inviolabili leggi del mercato.» Taibi lo disse con il tono di chi aveva imparato che quelle leggi erano tutto fuorché sacre e inviolabili.

    «Non crede di esagerare?»

    «Lei è giovane…»

    Pisoni valutò che sessant’anni non li aveva più da compiere.

    «… Magari è portato a credere che talune realtà resistono nel tempo per libera scelta degli uomini. Sbaglia e di grosso: resistono perché gli uomini non sono riusciti a trovare il modo di cambiarle. Da mezzo secolo siamo abituati a considerare le Internazionali il fulcro della nostra economia. A noi, al sistema è convenuto che non avessero un padrone definito. L’abbiamo battezzata l’unica Compagnia a capitale diffuso, il regno dei piccoli azionisti e questo ci ha permesso di poterla guidare con una quota minima del pacchetto. Adesso non basta.»

    «Dietro la vicenda Elettroluce, c’è qualcos’altro?»

    «Che io sappia no. Mi hanno informato di giri vorticosi di acquisti e vendite con grossi ordinativi dalla Svizzera. Probabilmente, è stato lo stesso Alpi a compiere una manovra diversiva: avrà sfruttato il pacchetto che detiene all’estero o avrà cercato di mettere assieme un po’ di azioni in Italia. Ma non scorgo nulla di preoccupante. Non è l’Elettroluce in sé che ci deve preoccupare, sebbene quel 2 per cento sia da considerare strategico. Ci deve preoccupare che qualcuno cominci a coltivare l’idea che le Internazionali siano scalabili.»

    Pisoni ascoltava in silenzio ripassando quote e proprietari delle Internazionali.

    «Quello che non era accaduto per decenni, è accaduto negli ultimi giorni» sentenziò Taibi. «Se è accaduto una volta potrà accadere una seconda, una terza, una quarta volta finché non ci sarà il giorno in cui riuscirà. Me l’hanno insegnato i miei amici ebrei. Io giudicavo ossessivo il loro timore che si potesse ripetere un Olocausto… Ha visto come stanno cercando di rivalutare il nazismo? Avevano ragione i miei amici ebrei: se la storia apre una porta non la chiude più.»

    Taibi guardò l’orologio che teneva sul polsino della camicia. «Non è sufficiente» disse «che Centro Sviluppo abbia il 10 per cento, Banca d’Italia il 6 per cento, il consorzio bancario guidato da Credito Industriale il 4 per cento, Midi il 3 per cento, la Efi il 2 per cento.»

    «Si fida sempre dei francesi?» Pisoni si augurò di non aver esagerato con quella domanda.

    «Di Midi? Gli alleati migliori, i più affidabili. In tutti questi anni ci hanno coperto le spalle e ci hanno garantito a livello internazionale con la loro autorevolezza. Nulla è cambiato nei singoli dettagli, è il quadro d’insieme che è cambiato. Il tentativo di scalata di Elettroluce lo ha dimostrato. Un sindacato di controllo con in mano soltanto il 25 per cento non serve più gli interessi del Paese, quindi è inutile. È stata un’alchimia utile in periodi particolari, adesso dovremmo avvicinarci il più possibile alla realtà dei numeri: si comanda con il 51 per cento.»

    «Finora è stato troppo alto anche il flottante in Borsa: non esiste un titolo con il 50 per cento in libera offerta.»

    «Serviva a confondere le acque, ad ammortizzare i tentativi di scalata. La massa metteva paura ai nemici e nel contempo consentiva di mantenere sotto osservazione il prezzo delle azioni. Ma questo purtroppo riguarda il passato, quando potevamo fregarcene di non sapere nulla del 25 per cento delle Internazionali che giace inutilizzato da qualche parte. Il presente e il futuro, invece, suggeriscono di consolidare il gruppo di comando pur mantenendo stabile la forma di azionariato diffuso. E l’ideale sarebbe di coinvolgere quelli che finora sono rimasti ufficialmente alla finestra, come Giancesare Alpi.»

    «Insomma, non vuol restare inoperoso nei prossimi dieci anni.» Pisoni tentò di dirlo con tono amichevole.

    «Al momento passo la notte a chiedermi che cosa staranno tramando i proprietari di quel restante 25 per cento delle Assicurazioni Internazionali di cui ignoriamo tutto.»

    «Be’, non ignoriamo proprio tutto.»

    «Quasi tutto. Sì, nell’Elettroluce c’è al momento un 2 per cento, ma il resto? Ammesso che Alpi all’estero ne custodisca un 5 per cento, pronto a scaraventarlo sul mercato italiano appena potrà assumere un peso decisivo, continua sempre a mancare il 18 per cento.»

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1