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Due risini e un caffè
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E-book175 pagine2 ore

Due risini e un caffè

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Info su questo ebook

Mantova 1936. In una stanza dell'Al- bergo Diurno viene ritrovato il corpo di Milvia Tassi, donna giovane e bella dalla vita non proprio limpidissima. A risolvere il caso è chiamato il commissario Alvaro Santibene, uomo dall'indole solitaria e poco allineato alle direttive del regime, che condurrà le indagini senza mai venir meno alla sua coerenza, nemmeno quando queste lo esporranno a ritorsioni e ricatti da parte dei suoi superiori.
Romanzo poliziesco e storico insieme, Due risini e un caffè si fa apprezzare per la documentata ricostruzione dei tempi e dei luoghi e la raffinata analisi psicologica: dalle sue pagine emerge infatti il quadro realistico di un angolo della provincia italiana durante il Ventennio.
Sostenuta da uno stile volutamente sobrio, l'autrice delinea con mano lieve miserie e nobiltà: le miserie di un potere arrogante e grossolano e la nobiltà d'animo di chi sostiene fino in fondo la propria coerenza professionale ed uma- na.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9791220255158
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    Anteprima del libro

    Due risini e un caffè - Patrizia Sabatini Patrizia Sabatini

    bibliografica

    Uno

    La sera del sei febbraio 1936 Alvaro Santibene entrò nel Teatro Regio di Parma insieme a sua moglie. Alla cassa la signorina li riconobbe. Sorrise e salutò Giulia che stringeva il braccio del marito.

    «Buona serata», augurò loro, consegnando i biglietti che Alvaro ripose nella tasca interna della giacca.

    Alvaro e Giulia si lasciarono alle spalle il brusìo degli spettatori ancora in attesa e salirono in silenzio la scala.

    Sulla destra la porta del palco era aperta. Mentre Alvaro la aiutava a togliere il soprabito, Giulia commentò il ritardo della signora Picchi nel palco vicino. Alvaro non rispose, rimase in piedi a guardare in basso il movimento tra le poltrone. Scostò la poltroncina dalla balaustra e restò ancora qualche minuto ad osservare la platea.

    L’ingresso di tre persone attirò la sua attenzione e improvvisamente il suo viso si fece severo. Riconobbe nel gruppetto uno, quello che faceva strada verso le prime file. Lo seguì con lo sguardo e ne risentì la voce che accusava l’aviere Romano Olmi di codardia. Sedette, sopraffatto da quel ricordo. Spesso, durante la rappresentazione, era tornato a guardare in basso, nella terza fila.

    Nel viaggio di ritorno da Parma a Mantova aveva parlato poco, assorbito nei ricordi che quell’incontro al Regio gli aveva riportato alla memoria. Aveva cercato di rispondere ai commenti di Giulia sullo spettacolo appena visto, ma i pensieri lo distraevano rendendo la conversazione faticosa, tanto che lei non aveva insistito oltre.

    La Lancia Augusta imboccò il viale di casa. Alvaro rallentò, avrebbe voluto dire qualcosa, scusarsi, ma rimase ancora in silenzio. Davanti al portone spense il motore e scese per aprire lo sportello a Giulia, ma quando arrivò lei era già scesa.

    «Buonanotte, Alvaro.»

    «Buonanotte», rispose lui prendendole le mani e portandole alle labbra.

    Giulia sorrise appena e si diresse verso il portone, lasciandolo lì, davanti alla vettura, solo e dritto come un palo.

    Alvaro risalì nell’auto e ripercorse il viale in senso inverso.

    Raggiunse la città e parcheggiò sotto il palazzo della Ragione. Lentamente si diresse verso piazza Mante- gna. Durante il tragitto aveva pensato a Giulia e al loro matrimonio e aveva provato un profondo senso di colpa. Non avrebbe dovuto sposarla. La decisione era stata presa in un momento di debolezza e non era stato più capace di tornare sui suoi passi. Non ne aveva avuto la forza. Aveva ceduto alle pressioni di sua madre, che nel tempo si erano fatte più insistenti. Si era lasciato convincere che la solitudine sarebbe stata di ficile e in qualche momento lui per primo ne aveva sentito il fastidio. Ora però il peso della responsabilità del matrimonio e l’affetto che provava per Giulia non gli rendevano le cose più semplici.

    Sentì freddo. Si chiuse nel cappotto e girò l’angolo verso la Cervetta. Preso ancora nei suoi pensieri, scorse la sagoma dell’agente Capponi davanti al por- tone di casa.

    Istintivamente guardò l’orologio. Vide che erano le due passate e pensò che fosse accaduto qualcosa. Accelerò il passo e raggiunse Capponi che gli andava incontro trafelato.

    «Commissario, c’è stato un delitto in via Cesare Bat- tisti.»

    «Un delitto?» Chiese Santibene.

    «Sì, all’albergo Diurno.»

    «L’albergo del cavalier Tosi?»

    «Sì» rispose Capponi.

    «Chi c’è sul posto?»

    «C’è la scientifica con il dottor Tùrola. C’è anche il dottor Lo Monaco. Il cavaliere ha telefonato in questura. Ha detto che...»

    Santibene lo interruppe. «È stato avvertito il procu- ratore?»

    «Sì, ma non è ancora arrivato.»

    «Vieni, Lorenzo, saliamo. Mentre mi cambio mi dici, e prepari anche un caffè», disse Santibene con il tono cordiale che riservava a quella giovane guardia. Poi fece strada lungo la scala, attraversò tre pianerottoli, si fermò davanti ad una porta più piccola del normale e infilò la chiave nella serratura.

    Due

    Quando il commissario Santibene aprì la porta a vetri del Diurno, trovò nell’atrio il dottor Lo Monaco che parlava con il cavaliere Tosi. La voce di Capponi richiamò la loro attenzione.

    «Buonasera commissario», disse il medico andandogli incontro, «io me ne sto andando. Ho fatto tutto quello che c’era da fare. Ci vediamo domattina nel suo ufficio.»

    «Mio Dio, commissario, una cosa inaudita. Un omicidio nel mio albergo!» Irruppe il cavalier Tosi.

    «Si calmi», disse Santibene. Poi chiese a Lo Monaco:

    «Mi può già dire qualcosa?»

    «Che le dico, commissario? È stata soffocata. Peccato. Gran bella donna! Ho lasciato la scientifica al lavoro, con il dottor Tùrola. Il referto glielo porto domani pomeriggio.»

    Poi guardò l’orologio e disse: «Beh, questo è tutto. Non c’è motivo di restare ancora in piedi. Signori, buonanotte.»

    «Buonanotte, Lo Monaco. A domani», rispose Santibene e, avvicinandosi alla scala, chiese al cavaliere: «Si sale solo di qui?»

    «Sì, è l’unica scala», rispose Tosi e fece strada fino al primo piano.

    Santibene lo sentiva borbottare sul guaio che lo aveva colpito e sulla buona reputazione del suo albergo messa a rischio da quel fatto. La voce lamentosa del cavaliere lo irritava e davanti alla camera lo congedò, rimandando il colloquio con lui all’indomani mattina in questura.

    «Ora mi lasci vedere che cosa è accaduto», concluse. Il cavalier Tosi non poté replicare. Dalla porta Santibene udì Tùrola parlare nel suo solito modo scostante. Lo salutò, poi si fermò qualche minuto in silenzio appoggiato allo stipite, a guardare la camera.

    Il lampadario lasciava cadere sul pavimento un cono di luce pallida. Vicino allo scrittoio una lampada accesa illuminava un vassoio con una tazzina da caffè, due bicchieri e una bottiglia d’acqua. Santibene si guardò ancora attorno, poi entrò. Sulla parete di fondo un paravento con grandi pannelli floreali nascondeva un lavandino e lì, appesi, c’erano un vestito color indaco e un soprabito di panno nero con un ricco collo di visone grigio. All’angolo di sinistra, davanti a lui, uno specchio montato su una grande cornice di legno chiaro gli rimandava, inaspettata, la sua immagine. Santibene non si compiacque e distolse lo sguardo infa- stidito. Ai piedi dello specchio, su uno sgabello dello stesso legno chiaro, c’era una piccola valigia. I capi erano stati messi dentro alla rinfusa e sul pavimento giaceva una camicetta di seta color lilla, lasciata lì senza alcuna cura.

    «Quella valigia è stata già ispezionata?» Chiese San tibene all’agente Tùrola, che stava prelevando le impronte da un bicchiere.

    «Ancora no, commissario», rispose l’agente, senza riuscire a mascherare il fastidio per essere lì a quell’ora della notte.

    Santibene continuò nella sua ispezione.

    Si avvicinò al letto dove giaceva il corpo della donna e lo guardò con attenzione. Era scomposto appena, il viso nascosto in parte da alcune ciocche di capelli rossi. Una spallina della sottoveste, scesa sull’avambraccio, scopriva un seno. Il medico aveva confermato il decesso, eppure, vista così, sembrava solo addormentata.

    Santibene vide Capponi muoversi nella stanza alla ricerca di indizi, mentre dal corridoio arrivava la voce dell’appuntato Bellomo che tentava di calmare una coppia di clienti allarmata dal trambusto. Si avvicinò al piccolo cassettone di noce, dove un altro agente stava rilevando le impronte da una borsetta nera e guardò uno per uno gli oggetti che erano stati rovesciati sul ripiano di legno. Prese il portacipria e lo ispezionò con cura, poi si portò al naso un flaconcino di profumo e lo annusò.

    «Profumo di lusso», commentò l’agente.

    Perché una donna così deve venire a morire in un posto come questo, pensò Santibene, senza dar peso a quelle parole.

    «Posso vederlo?» Chiese indicando un portadocumenti di pelle nera.

    «Certo», rispose l’agente.

    Santibene lo prese, ne estrasse un documento e lesse a voce alta: «Milvia Tassi, nata a Modena nel 1904, residente a Parma…» Trentadue anni! Pensò, e tornò a guardare la fototessera con attenzione. Cercò una somiglianza tra il viso elegante della foto e l’immagine senza vita nel letto. Poi tornò ad analizzare gli altri oggetti. Esaminò il cappello, una cloche di feltro nero appoggiata alla lampada, l’unica rimasta spenta nella camera. Sotto la lampada era riposto un paio di guanti di pelle nera. Quanta cura, pensò osservando i guanti ben distesi uno sull’altro perché non prendessero brutte pieghe.

    Si guardò ancora attorno. Gli abiti, i guanti, la cloche, il vestito e il soprabito, tutto era stato riposto con cura. Solo gli indumenti nella valigia erano stati lasciati in disordine. «Che incongruenza», disse tra sé e sé e tornò vicino alla donna.

    Un’unghia della mano sinistra spezzata e una macchia viola sotto l’occhio sinistro erano i segni visibili di una colluttazione.

    Mentre Santibene era intento ad osservare il cadavere, la voce piena di disappunto del cavalier Tosi lo raggiunse alle spalle: «Tutto questo baccano. Ci voleva pure l’obitorio, commissario.»

    «È la prassi», rispose Santibene caricandosi di pa- zienza.

    «Permesso? Buonasera, commissario. Veniamo dall’obitorio, ci manda il dottor Lo Monaco», disse un uomo robusto che portava una barella insieme ad un collega.

    «Ancora qualche minuto. La scientifica non ha finito», rispose Santibene, fermando i due uomini nel corridoio.

    «Commissario, qui c’è qualcosa», disse Capponi indicando un oggetto in terra.

    Santibene si avvicinò, raccolse l’oggetto con un fazzoletto e lo guardò attentamente.

    Un gemello, anzi mezzo. Due iniziali: AA, pensò.

    Lo consegnò a Tùrola e ordinò: «Mandami i risultati delle analisi quanto prima, per favore, e domattina fammi avere anche il gemello.»

    Poi prese in disparte Capponi: «Io vado a casa. Quando viene il procuratore digli che lo chiamo domattina. Fai portare il corpo all’obitorio e metti i sigilli alla porta.» E lasciandolo si raccomandò: «Lorenzo, stai attento che tutto rimanga come è stato trovato.»

    «Commissario, ma io?» Intervenne Tosi, che faceva su e giù per il corridoio senza trovare pace.

    «Cavaliere, vada a dormire anche lei, ci vediamo domattina in questura. E mi porti il registro dei clienti. Per il momento non possiamo fare altro, né io, né lei.»

    «Ma il mio albergo domani sarà su La Voce», incalzò il cavaliere.

    «Questo è inevitabile, Tosi. Ci vediamo domani», tagliò corto Santibene.

    «Ci vediamo domani, commissario», disse il cavaliere, mortificato per essersi sentito riprendere come un ragazzo.

    Santibene lasciò il Diurno. Fuori era ancora buio pesto e l’umidità penetrava ogni cosa. Si tirò su il collo dell’impermeabile e s’incamminò lentamente verso piazza Mantegna.

    Così, chiuso nel suo impermeabile, nel buio della notte, ripensò al Teatro Regio e ricordò la crudeltà delle parole dette da quell’aviere a Romano, proprio poco prima che salisse sull’aereo per l’ultima missione.

    Alvaro avrebbe voluto allontanare quel ricordo, cancellare definitivamente dalle sue orecchie quella voce odiosa, ma il pensiero vi tornava testardamente, lasciandogli dentro solo rabbia.

    Quando entrò in casa non era ancora riuscito a li- berarsi dalla rabbia e dal freddo. Si mise a letto e pensò alla Tenuta Rivalta, dove vivevano ancora sua madre e Chiarina, determinate, con pochi uomini, a mandare avanti il lavoro in quello che restava della proprietà di suo padre. Sentinelle di vite che non c’erano più.

    Tre

    La mattina successiva la pioggia scendeva fitta e senza sosta da un cielo denso, che lasciava intendere che così sarebbe andata tutta la giornata. Dopo aver parlato con il procuratore, Santibene si fece portare i giornali del mattino. Alle dieci l’appuntato Bellomo bussò alla porta per annunciargli che il signor Tosi era arrivato e che era zuppo e molto nervoso.

    «Fallo entrare», disse Santibene. E aggiunse: «Bellomo, senti se c’è già qualche notizia dalla scientifica.»

    «Signor sì, commissario», rispose l’appuntato, ed invitò il cavalier Tosi ad entrare.

    Santibene si trovò davanti un ometto curvo e tutto bagnato, molto diverso dall’uomo d’affari incontrato nelle occasioni pubbliche. Parlava in modo agitato e confuso, tenendo stretto tra le mani il registro dei clienti.

    «Dottor Santibene, questa storia si deve concludere subito. Io ho tutto l’interesse... voi mi capite...»

    «Tutti abbiamo interesse affinché si concluda presto, signor Tosi. Prego, si accomodi», lo interruppe

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