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I penitenti
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E-book574 pagine8 ore

I penitenti

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Info su questo ebook

Poco dopo aver superato il confine della Bulgaria, un giornalista italiano, in viaggio verso le spiagge del Mar Nero viene mandato fuoristrada da un Tir spuntato improvvisamente dal nulla. Con un balzo di migliaia di chilometri, il romanzo si sposta a New York, dove si corre la grande maratona. Uno dei partecipanti è un bancario italiano. Durante la gara ricorre alla borraccia piena di acqua e zucchero: qualche sorsata e poco dopo stramazza sull'asfalto. Sia nel tragico inseguimento in Bulgaria che nella maratona tra i grattacieli, compare una rapidissima allusione a una notte nella neve di Stoccolma: la notte del 28 febbraio 1986, in cui fu ucciso il premier svedese Olof Palme, che stava per denunciare il traffico d' armi a favore dell' Iraq. Ma ne mirino c’è un terzo nome, Beppe Millepiedi, titolare di un'agenzia di pubblicità e marketing. Nella caccia a questo scomodo depositario di terribili verità, emerge a poco a poco il regista della perversa ragnatela, il boss di Cosa Nostra, il padrino intoccabile che emette ordini di morte: Gesualdo Bellomio. Contro il "dottore" Gesualdo si mobilita l'inesorabile Mossad israeliano, che arruola un ex terrorista italiano, infallibile tiratore dalla lunga distanza.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2013
ISBN9788898475506
I penitenti
Autore

Alfio Caruso

Alfio Caruso nasce a Catania nel 1950. Dopo la laurea esordisce nel giornalismo scrivendo per Il Corriere della sera e nel 1974 è fra i fondatori del Giornale. Negli anni Ottanta lavora al Corriere e alla Gazzetta dello sport, rispettivamente come caporedattore e vicedirettore, nel 1995 diventa co-direttore del Messaggero, mentre nel 1996 è direttore editoriale della Nazione, Resto del Carlino, Giorno. Parallelamente alla sua carriera giornalistica sviluppa una carriera letteraria scrivendo romanzi, thriller e saggi sulla storia italiana e sulla mafia. Ha pubblicato le sue opere con Leonardo, Rizzoli, Longanesi, Einaudi e Neri Pozza.

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    Anteprima del libro

    I penitenti - Alfio Caruso

    VandA Introvabili

    © Alfio Caruso

    © 2013 VandA.ePublishing S.r.l.

    Sede legale e redazione: Via Cenisio, 16 - 20154 Milano

    ISBN 978-889847-550-6

    Prima edizione: Novembre 2013

    Prima edizione cartacea: Rizzoli, 1993

    Edizione elettronica: eBookFarm

    Grafica di copertina: Network Comunicazione

    www.vandaepublishing.com

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    I

    Massimo indugiò sul panorama così come gli appariva dal parabrezza della Pajero. Non era verde quella vallata. O magari lo sarebbe stata se un manto di rifiuti non l’avesse ricoperta: resti di panini, di bevande, di frutta, di carne secca, di semini, di uova sode che il vento e gli uccelli portavano in giro. Erano tracce di pic-nic improvvisati, di provviste consumate in fretta. Il senso di sporcizia era ancora maggiore sui bordi della strada: una strada stretta con le auto delle due corsie che passavano a pochi centimetri l’una dall’altra. I rifiuti erano le tracce di un pasto infinito, consumato nella direzione che dal confine bulgaro porta verso la Serbia, verso il cuore dell’Europa. Nella direzione opposta, verso il posto di frontiera che in Jugoslavia si chiama Gradina e in Bulgaria Kalotina, la campagna sarebbe apparsa perfino pulita se improvvisi refoli non avessero scaricato, dopo averli fatti volteggiare radenti il manto stradale, gli scarti di robuste colazioni al sacco.

    La fila delle auto in sosta impressionò Massimo. Bambini che facevano la pipì e altro; donne che si sbracciavano per indicare i pericoli provenienti dalle macchine in marcia; auto costrette a zigzagare per evitare di sbattere contro portiere che si aprivano di colpo. Tra urla e sorrisi, tra gesti di rassegnazione e sbadigli, il rito dello spuntino non veniva mai interrotto. Stagnole e tovaglioli di carta erano seminati un po’ ovunque.

    Massimo ora comprendeva perché a Nis l’avessero avvisato che stava per inoltrarsi sulla via dei turchi. Nel loro andirivieni fra casa e il Nord Europa, tagliavano attraverso Sofia e poi s’arrampicavano fino a Belgrado, Zagabria, l’Austria prima dell’ultimo balzo verso le nuove patrie. Procedendo verso Gradina, Massimo li osservava stupito: quanto sporcavano. E quanti erano, ammassati dentro Fiat e Volkswagen sgangherate che in Italia non si vedevano più circolare da anni. Compiaciuto, pensò al mostro che guidava: scelto appositamente per il viaggio fino a Varna in compagnia di Serena e di Luisa.

    Sbucato chissà da dove e portato dal vento, un tovagliolo unto s’infilò sotto un tergicristallo della Pajero e non volle saperne di andar via. Massimo azionò i tergicristalli e la situazione peggiorò: sul vetro spiccava una vistosa striscia di sporco.

    «Che schifo» disse Serena atteggiando il volto in una smorfia che le arricciò ancor più la punta del naso. Il taglio di capelli alla Louise Brooke le stava d’incanto.

    «E se fosse merda?» Luisa fu la prima a sorridere della propria battuta. Sperando che non lo fosse, stirò le braccia nel sedile posteriore che divideva con una valigia e con un paio di sacche per le quali non c’era posto nel bagagliaio. Incrociò le mani dietro il capo. Il movimento portò il capezzolo di destra a contatto con la camiciola di cotone: ebbe un brivido inatteso, si chiese se la sensazione fosse dovuta al languore che la notte le aveva incuneato sotto la carne.

    «Fai qualcosa…» insisté Serena. Aveva il tono di chi pretende d’essere ubbidito.

    Massimo accostò con cautela anche se la corsia era sgombra. Osservando la piccola fetta di mondo in transito, provò a sentirsi un privilegiato. Privilegiato per la vettura con cui viaggiava, privilegiato per le due ragazze che l’accompagnavano, privilegiato per l’educazione che gli avrebbe impedito di spargere in terra i rifiuti e soprattutto di fermarsi alle dieci del mattino per divorare tutto quello che era a portata di bocca.

    Ma anche in quel momento, mentre spegneva il motore, Massimo avrebbe barattato seduta stante quei presunti privilegi, comprese Serena e Luisa, in cambio di qualcosa che non rendesse tutti i giorni gli uni identici agli altri. Tutti identicamente noiosi.

    «Allora che fai? Ti sbrighi…» La voce di Serena costrinse Massimo a liberare il vetro dal tovagliolo di carta. Bisognava pulirlo e lui non aveva nulla. Fissò Serena con un mezzo sorriso: alzando le spalle in segno di resa, chiese aiuto.

    Serena sbuffò e si girò verso Luisa. Serena frequentava la stessa facoltà universitaria di Luisa, ma dopo la notte trascorsa a Nis, in un alberghetto tanto attraente di fuori quanto brutto di dentro, era come se fosse diventata la padrona del terzetto.

    Luisa rise, Serena con noncuranza le accarezzò i capelli biondissimi e molto corti: il gesto infastidì Massimo che pensava di poter vantare sei mesi di possesso su Luisa. Non fu più sicuro di questo: anzi, gli parve che Luisa si protendesse verso Serena. Forse un gesto irriflessivo, che a lui pareva irriflessivo, ma che Serena interpretò come un invito: alzò la mano in una carezza lieve.

    Un’espressione di orgoglio si espanse sul viso di Luisa e con quella si sporse dal finestrino per porgere a Massimo una salvietta umidificata. Massimo fu sul punto di dire qualcosa, di dire che giudicava eccessiva tanta confidenza, che ciò che era accaduto una notte non poteva divenire la regola. Ma era poi accaduto soltanto una notte? Dove cominciava e dove finiva l’amicizia fra Serena e Luisa? Serena si comportava da padrona o lo era davvero?

    Massimo ricevette la salvietta senza aprir bocca. Strofinò con energia e soltanto quando ebbe cancellato l’ultimo ricordo lasciato dal tovagliolo si accorse che Serena lo incitava con gli occhi. In premio gli schioccò un bacio e la lingua puntata apparve fra i denti. Li aveva disordinati, qualcuno accavallato sul vicino, e tuttavia le conferivano un’aria sbarazzina e innocente anche quando era impegnata in attività che d’innocente avevano ben poco.

    Oltrepassarono Dimitrovgrad. I cartelli annunciarono la frontiera a pochi chilometri. Splendeva un bel sole. Lo sterzo della Pajero era quanto di più docile e obbediente Massimo avesse mai avuto fra le mani. Non ricordava uno sterzo così sensibile al minimo tocco. Certamente non lo era quello della A 112 con cui aveva partecipato alla sua prima corsa. Aveva sedici anni e guidava da due in spregio a leggi, patenti, fogli rosa. Tutti i suoi amici potevano garantire che guidava da dio, ma un dio senza patente e senza foglio rosa se lo sogna di partecipare a una gara, specialmente se è una prova del campionato italiano di montagna. Poi, purtroppo, il sogno si era avverato trasformandosi subito in un incubo. Peggio di un incubo: era diventato la consapevolezza che non sarebbe mai stato un pilota di formula 1. Ma gli era poi importato veramente essere qualcosa, diventare qualcuno? Non aveva mai preso sul serio la vita, come non aveva mai preso sul serio gli altri.

    «A che pensi?» domandò Luisa strappandolo ai ricordi. «Siamo ripartiti e non hai più detto bah.»

    «Starà recuperando le forze» insinuò Serena e poggiò la mano sulla coscia di Massimo. Un gesto da dominatrice. Ma chi si credeva di essere quella ragazza che aveva fatto irruzione con troppa baldanza nei suoi giorni e soprattutto nella sua storia con Luisa?

    «Non ho voglia di parlare» Massimo rispose con malagrazia.

    Un chilometro per Gradina. Massimo rallentò… Come immaginava che rallentassero i piloti sui circuiti dopo aver tagliato il traguardo. Massimo sapeva di non aver raggiunto alcun traguardo. L’aveva imparato negli anni in cui aveva perso l’innocenza e sacrificato il rispetto di se stesso. Si giudicava privo di morale, ma in certe notti in cui non riusciva a prendere sonno aveva concluso che era una scusa per consolarsi, un motivo per assolversi.

    Inseguendo ciò che non sarebbe mai stato era approdato nei giornali. Scrivendo degli altri e nascondendo la sua vera natura, la fregola della formula 1 era stata sostituita dalla fregola di possedere le macchine che non avrebbe pensato di poter possedere: le più belle, le più potenti, le più costose. Voleva umiliare quanti gli capitavano a tiro. Era consapevole di guidare molto meglio di coloro ai quali si affiancava per strada e doveva provarlo metro dopo metro. Ogni colpo di acceleratore, ogni sorpasso in curva, ogni stop non rispettato erano il modo di sentirsi diverso.

    Si chiamava «Fidi e Fiducia» e vi aveva messo piede un giovedì. Era una delle molte società finanziarie che morivano dalla voglia di prestare danaro. Bastava avere uno stipendio garantito e la disperazione per pagare interessi quasi da usura. A Massimo occorrevano ventidue milioni per una Maserati Biturbo, la prima delle vetture con cui aveva tentato di riempire un vuoto che non era colmabile.

    «Massimo Deodato, giornalista…» La voce del poliziotto bulgaro suonava perentoria.

    «Sono io.»

    «Questo lo vedo da solo. La foto sul suo passaporto è la sua, non c’è dubbio. Ma lei è davvero Massimo Deodato giornalista?» il poliziotto si concesse una risata. Poi tornò serio.

    «A che cosa dobbiamo il piacere della sua visita?» Massimo guardò le pareti luride della casamatta. Aveva fretta di tornare nel piazzale: Serena e Luisa erano rimaste dentro il fuoristrada e intorno a loro con le scuse più diverse erano radunate quasi tutte le guardie di confine. Che il controllo del suo passaporto fosse soltanto un pretesto per allontanarlo dalle ragazze?

    «Vado a Varna per un servizio giornalistico. Lavoro per un mensile che si occupa di turismo, di vacanze e intendiamo far conoscere ai nostri lettori le bellezze di Varna.»

    «Un giornalista turistico? Non un giornalista politico?»

    Della politica non gliene fregava nulla, come per altro della cronaca, dello sport, dell’economia. Non gliene fregava niente di niente. Non gliene fregava nulla neppure del turismo, ma occupandosene aveva il vantaggio di viaggiare e di poter trascorrere la gran parte delle ore al volante di un’auto. Si era imbucato in «Turismo 2000» dopo aver rotto con il quotidiano che l’aveva assunto e soprattutto con il direttore che pretendeva di fargli da pigmalione. Con «Turismo 2000» aveva girato il mondo: dalla penisola dello Yucatán alla Terra del Fuoco, dalla Muraglia cinese alle spiagge del Kenya.

    «Gliel’ho detto: vado a Varna per descrivere ai nostri lettori le bellezze delle sue spiagge, del suo mare. Vogliamo convincere gli italiani a trascorrere qui le prossime vacanze.»

    «Sicuro?» Il poliziotto si lisciò un baffo mettendo Massimo nell’imbarazzo di quella domanda. Sicuro che cosa? Che era un giornalista turistico o che gli italiani avrebbero trascorso a Varna le prossime vacanze?

    Uscì quasi di corsa, il piazzale era vuoto. Le guardie erano sparite.

    Serena aveva posteggiato la Pajero all’ombra della casamatta. Guardò Serena, guardò Luisa: pensò che in molti l’avrebbero invidiato. Si soffermò sul fuoristrada che trasudava potenza e importanza. Di questi gingillini poteva permettersene a piacimento: uno ogni sei mesi o anche ogni tre, se gli girava. E senza l’affanno di dover lasciare lo stipendio alla «Fidi e Fiducia». Le sue prospettive erano cambiate guidando una Volvo per qualche ora nelle vie di Stoccolma. C’era la neve quella sera nella capitale svedese…

    Il ricordo dette un brivido a Massimo e non era un brivido legato al freddo delle ore trascorse a Stoccolma. Si obbligò a non pensarci concentrandosi sul tepore che lo circondava nel piazzale: a Varna avrebbero potuto fare qualche bagno nel Mar Nero. Inspirò profondamente: era un atto per lui inconsueto, non gli procurò alcun benessere. Tornò a guardare il fuoristrada. Tornò a guardare le due ragazze, immaginò la prossima notte e dopo moltissimi anni – quanti? Dieci, addirittura. Possibile? – ritenne di esser giunto alla personale quadratura del cerchio: che anche la noia fosse una maniera di esistere. Ma era una speranza, non una certezza.

    La prima città era Dragomar: quaranta chilometri con il consiglio di non uscire da quella strada che fortunatamente si era un po’ allargata. Massimo contava di far tappa a Sofia e di pernottare a Kazanlak.

    Luisa e Serena avevano cambiato di posto. Massimo si chiese se si sarebbe sposato. Certamente non con Luisa, e neppure con Serena. Ma perché avrebbe dovuto sposarsi? Non si era mosso dalla casa dei genitori e non lo sfiorava l’idea di cercarsene una. Per lui la casa significava un pasto caldo e un letto riassettato, il resto erano rotture e conti da saldare. Avrebbe valutato la convenienza di sposarsi allorché fosse morta la madre, l’unica di cui non reggeva lo sguardo. Finora erano state le ragazze a cercarlo. Le accettava, le subiva, raramente si scaldava. Con Luisa non era accaduto. Con Serena sarebbe potuto accadere. Ma Serena aveva una tale voglia di dominio… Per ora non erano in competizione; il loro terreno di scontro era Luisa. Chi l’avrebbe avuta? Avevano davanti a loro due settimane per combattere e per vincere. Alla fine il trofeo sarebbero stati Luisa e il dispetto dell’avversario battuto.

    Massimo scosse la testa. Amava il dispetto degli altri: ecco perché non perdeva. Forse era l’identico motivo per cui non aveva vinto l’unica volta che gli sarebbe davvero importato vincere.

    «Ehi, ma che vuole quel bestione?» Serena era divertita.

    Nello specchietto retrovisore Massimo scorse il muso di un Tir color beige. Lo giudicò un prepotente. Ne aveva castigati tanti che si credevano i signori della strada: erano quelli con cui si divertiva a ingaggiare duelli che duravano chilometri e chilometri. Ma nella mattina in cui sperava di esser giunto alla personale quadratura del cerchio poteva permettersi di essere generoso. Poteva farsi sorpassare senza il timore di perdere la faccia con Serena e con Luisa. Accostò e sullo specchietto notò che il Tir eseguiva la stessa manovra. Premette l’acceleratore e rimpianse di non aver la Lamborghini Miura che aveva riconsegnato per prendere il gippone, considerato più confortevole e più chic per quel viaggio. «Devo andare in Bulgaria, che cosa mi consigliate?» Gli avevano suggerito il prodotto più recente della Mitsubishi, un 6 cilindri spazioso, resistente, imperiale. La Pajero acquistò velocità, ma il Tir non mollava. Era così incollato che Massimo non riusciva a vedere la targa. Non s’azzardò a rallentare. Uscì il braccio dal finestrino per invitare il Tir a superarlo. Una dimostrazione di buona volontà alla quale non fu data risposta.

    Sollevò leggermente il piede dall’acceleratore e il Tir quasi tamponò la Pajero.

    «Questo ci vuole ammazzare.» Dalla voce di Serena era sparita ogni nota di divertimento.

    «Riesci a vedere la targa?» Massimo teneva il piede a tavoletta.

    Serena si allungò fino al lunotto posteriore. «La targa è coperta di fango; ma che cosa sta succedendo?»

    «Lui lo vedi? Intendo l’autista… Lo vedi? Com’è?» Massimo sterzò bruscamente verso il centro dell’asfalto. La corsia opposta era vuota. Dov’erano finiti i turchi?

    «Ha i vetri affumicati. Vedo soltanto le mani…»

    Massimo sterzò di nuovo, stavolta verso il ciglio; la manovra colse impreparate Luisa e Serena: la prima fu proiettata sui bagagli, la seconda su Massimo.

    «Attenta, mi fai sbandare…» Massimo recuperò in extremis la vettura sul punto di finire fuori; per riguadagnare l’assetto fu costretto a decelerare. Il Tir li speronò. La Pajero, bruscamente proiettata in avanti, andò a sbattere contro uno dei pochissimi alberi. Massimo cercò di riprendere il controllo: per ripartire senza innestare la marcia indietro strisciò contro l’albero. Con la coda dell’occhio sbirciò lo specchietto retrovisore: il Tir stava per sommergerli.

    II

    New York vista da bordo del jumbo Alitalia faceva meno effetto di Città di Messico. Lì erano atterrati di sera; durante il viaggio avevano ballato, i piselli di contorno alla carne si erano sparpagliati fra i sedili, ma lo spettacolo di luci della capitale li aveva ripagati delle paure e dei fastidi del volo, aveva cancellato il sonno e la stanchezza. Città di Messico sembrava illimitata: le luci si diffondevano in ogni direzione. Osservate dall’aereo, potevano essere luminarie, insegne, i mille colori della metropoli. Chi avrebbe immaginato che spesso si trattava di lampadine a basso voltaggio penzolanti su baracche e miseria? Quel viaggio in Messico aveva riservato una sorpresa via l’altra e la Ciudad era stata la sorpresa più grossa: aria incatramata, povertà, luridume, corruzione perfino nei grandi viali alberati della zona residenziale. E poi l’acqua: pestilenziale.

    Dai finestrini del jumbo New York appariva più piccola, più modesta. Le nuvole di ottobre la immalinconivano, il grigio prevalente dei palazzi dava un senso di sporco. L’aereo planò senza sussulti sulla pista. Maria applaudì assieme a gran parte dei passeggeri la perfetta manovra d’atterraggio.

    «Bel viaggio, vero, Giorgio?» Monica, la madre di Maria, si rivolse al marito per placare il suo bisogno di essere sempre rassicurata.

    «Sì» disse Giorgio armeggiando con la cintura di sicurezza: anche stavolta non riusciva a sganciarla. Uno steward se ne accorse e l’aiutò.

    «Che facciamo questa sera?» Era la decima volta che Monica rivolgeva a Giorgio la stessa domanda.

    «Boh» rispose Giorgio, pur sapendo che non avrebbero fatto nulla e che alle 20 sarebbe andato a dormire. L’indomani la sveglia era fissata per le 6.30; mezz’ora più tardi sarebbero stati prelevati dal bus e trasportati al punto di ritrovo della maratona. Venticinquemila iscritti e lui sarebbe stato uno di questi.

    Ammirando in tv le partenze della grande gara newyorchese aveva sempre provato un sussulto d’ammirazione; stavolta sarebbero stati gli altri, gli amici, i colleghi di banca, a veder lui, a sapere che era lì intruppato con gli altri venticinquemila privilegiati.

    «I Gentile vanno a cena in un ristorante di Little Italy.» Monica non mollava. «L’hanno consigliato i loro cugini che conoscono bene New York. Che facciamo? Andiamo con loro?»

    Giorgio era sul punto di passare dall’aereo al tunnel: salutò due hostess, uno steward e fece finta di non aver sentito. Certo che i Gentile andavano a cena: nessuno dei due il giorno dopo avrebbe gareggiato e per di più il conto del ristorante a Little Italy era già stato pagato, a loro insaputa, dai partecipanti al viaggio. Saro Gentile, funzionario della stessa banca di Giorgio e responsabile delle attività del tempo libero, sapeva bene come organizzare il proprio tempo libero. Ufficialmente i Gentile avevano versato la loro quota, ma Giorgio era certo che il milione e settecentomila lire a testa dei due era rientrato con la stessa velocità con cui era uscito. Lui invece aveva dovuto scucire quattro milioni e novecentomila lire – Maria costava duecentomila in meno perché aveva dieci anni – che non sarebbero mai rientrati.

    «Adesso effettueremo il controllo passaporti e mi auguro che nessuno l’abbia dimenticato a bordo.» Gentile parlò con il tono di finta cortesia del capo. Sostava all’inizio del grande salone dopo aver raccolto attorno i trenta dipendenti e familiari della banca che avevano aderito al programma «Di corsa a New York».

    «Dopo aver sbrigato la formalità dei passaporti,» riprese Gentile «ritireremo il bagaglio; il nastro ve lo indico io, oppure, se preferite, ve lo cercate da soli. Fuori ci attende il pullman, anzi mi auguro che ci aspetti il pullman per raggiungere l’albergo. La serata, come ricorderete, è libera, il che vuol dire a vostre spese. Comunque so già che verrete tutti al ristorante con me e la mia signora.»

    Gentile accennò un sorriso dì compiaciuta degnazione che dette sui nervi a Giorgio.

    La tua signora…, ripeté mentalmente Giorgio, ben attento a tener la bocca serrata. Ci lavorava da due anni fianco a fianco in cassa. Era sicuro, più per fiuto che per altro, che mettesse le corna al marito. Almeno se lo augurava.

    Salirono sul pullman che era buio, un buio calato all’improvviso. Fu per colpa del buio che Giorgio sedette accanto a Simona.

    «Giorgio, guarda che ti sei sbagliato: non sono Monica.» E come poteva essere Monica? Così fresca, così seducente dopo dieci ore di aereo, così piena di quello charme che Monica non aveva più, ammesso che l’avesse mai avuto. Monica interpretava alla perfezione la parte della professoressa di lettere. Aveva soltanto due anni in più di Simona e ne dimostrava dieci, cento, mille in più. Era un azzeccato esemplare di moglie (cioè il peggiore), mentre Simona incarnava il fascino di chi era sempre attrezzata a darla. Il minimo che potesse capitare a quel borioso di Gentile. D’altronde per quale motivo una come Simona aveva sposato uno come quello? D’accordo: Gentile era un funzionario a capo dell’Area gestione patrimoni, poteva anche aiutarla a fare carriera, però era grasso, anziano, prevedibile e, secondo Giorgio, pure impotente o comunque senza fantasia. Giorgio non era funzionario, sebbene con l’anno nuovo gli avessero promesso la promozione a capufficio, però aveva un fisico asciutto, atletico, in grado di correre la maratona di New York. E nel gruppo della banca erano soltanto in due: lui e quello dell’Ufficio borsa.

    Ma Giorgio non si considerava soltanto un fusto, si considerava anche spiritoso, brillante. Prima del matrimonio non incontrava difficoltà nel rimorchiare le nuove assunte. Pensava di avere l’aria giusta, un’aria da bello e perverso. Un’aria che secondo lui la banca non gradiva e che l’aveva ostacolato nella carriera. In ogni caso, meglio lui semplice impiegato che Gentile funzionario.

    La notizia che avrebbero alloggiato all’Hilton aveva eccitato Monica e l’eccitazione, mettendo piede in albergo, era sfociata in passi misurati, in una riservatezza che le impediva di profferire parola nel timore di apparire fuori posto.

    La stanza era arredata con tappezzeria a fiori; Monica la trovava incantevole, come trovava incantevole qualsiasi particolare, persino uno stupido posacenere in vetro. Su una poltrona, ripiegato a puntino, splendeva il pettorale accompagnato dalla borsa regalata a ogni iscritto. Era un piccolo beneficio del viaggio organizzato: un incaricato della banca aveva provveduto a ritirare pettorale e borse evitando la coda, le operazioni di riconoscimento, la firma di dieci formulari.

    «Che facciamo questa sera?» Monica non si dava per vinta.

    «Io ceno in camera, ho la lista di quello che posso mangiare e di quello che devo evitare. Tu, se vuoi, vai con i Gentile.»

    «Lo sai che senza te non mi piace uscire.»

    «Allora resta e ceniamo assieme in camera.»

    «La nostra prima sera a New York…»

    Giorgio uscì e bussò alla camera che Maria divideva con la figlia di un’altra coppia.

    «Papà, è tutto meraviglioso. Mi pare di essere la protagonista di una favola. La maestra mi ha chiesto di scrivere un resoconto dettagliato del viaggio. Pensa, papà: sono l’unica della mia classe che è venuta a New York. Grazie paparino per il magnifico regalo.»

    Maria l’abbracciò. Il suo entusiasmo era il vero motivo che aveva indotto Giorgio ad accollarsi la spesa del viaggio. Per Maria, la sua unica figlia, avrebbe affrontato qualsiasi sacrificio. Avrebbe fatto di tutto perché crescesse diversa da Monica e qualcosa aveva già fatto, qualcosa che riguardava lui ma che si era riflesso sul benessere della famiglia e dunque di Maria. Si senti ingiusto nei confronti di Monica: quindici anni prima era una graziosa supplente, fresca di laurea e speranzosa d’incontrare un principe azzurro. Giorgio aveva trent’anni e lavorava in banca da otto: dopo un mese che uscivano assieme, aveva scoperto con un certo stupore che Monica lo considerava il suo principe azzurro.

    Gli inizi del matrimonio erano stati rassicuranti: Giorgio era estasiato dalla dedizione di Monica, pronta a ricoprirlo di ogni attenzione e sempre contenta di ciò che riceveva. Nel giro di due anni l’interesse di Giorgio per Monica era calato vistosamente. Giorgio riteneva che sarebbe calato egualmente, anche senza l’insorgere della divorante passione per i cavalli, lui che fino a trentadue anni non aveva frequentato un ippodromo che fosse uno e che ignorava persino l’esistenza delle scommesse.

    La diminuita attenzione di Giorgio non aveva turbato Monica. Il suo comportamento era stato tipico di chi considerava inevitabile che fra moglie e marito dovessero prima o poi stabilirsi rapporti di consuetudine e di buon vicinato. Monica aveva continuato a essere una moglie al meglio delle proprie possibilità e Giorgio, in cambio di una modica cifra che integrava lo stipendio di Monica, aveva pasti caldi, camicie e abiti stirati, calzini rammendati, un letto sempre in ordine e, quando voleva, qualcosa che riscaldasse l’inizio della notte. Ma di quest’ultimo bisogno Giorgio aveva cominciato a farne a meno al punto che la notizia di Monica incinta l’aveva fatto dubitare della sua fedeltà.

    I lineamenti di Maria non avevano però lasciato dubbi su chi fosse il padre. Un padre che quando lei emetteva i primi vagiti stava a Tordivalle affranto da una rottura in partenza di «Ammaliante», un broccaccio sulla cui vittoria aveva puntato mezzo stipendio. Alla nascita di Maria, cavalli, ippodromi e scommesse ossessionavano Giorgio già da tre anni. Dall’ultimo venerdì di luglio del ’77, l’ultimo pomeriggio lavorativo che precedeva le sue prime ferie al mare con Monica. Sarebbero andati a Crotone: tre settimane in una pensioncina a godersi sole, mare e pastasciutta.

    «Vecchie mutande, c’è da fare una pazzia: chi ci sta?» Giulio Bertini era uno degli anziani della filiale. Gran fama di sciupafemmine e di accanito giocatore. Giocatore di carte e di cavalli, di casinò e d’improvvisate bische di dadi. Giocatore di pari e dispari, di testa e croce. Elegante e civettuolo, la battuta pronta, mai una nube a turbare i suoi orizzonti. Le seicentomila lire di stipendio che costringevano gli altri a fare i salti mortali per lui erano sinonimo di beatitudine e di sicurezza. Stando ai sussurri, ai colpi di gomito che accompagnavano il suo incedere – perché Bertini non camminava, incedeva –, il segreto erano due anziane zie farmaciste e zitelle che stravedevano per lui, il maggiore dei nipoti. Eppure per Bertini quella situazione già invidiabile era una semplice fase di trapasso verso la felicità totale che sarebbe sopraggiunta alla morte delle ziette – le chiamava così – quando le farmacie si sarebbero trasformate in un magnifico yacht con cui veleggiare nei mari caldi, affittandolo di tanto in tanto ai turisti americani per provvedere alle spese di mantenimento. Sussurri e colpi di gomito, tuttavia, spiegavano che almeno una farmacia era stata già alienata dalle ziette per pagarsi il lusso di coccolare un nipote così spendaccione.

    «Vecchie mutande, ci state o non ci state?» Dalla sera in cui aveva assistito alla proiezione di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Bertini amava assumere la cadenza del commissario Volonté e soprattutto si era impossessato di quell’espressione, «vecchia mutanda», con cui gratificava i colleghi di lavoro. Lo stesso direttore, l’inflessibile cavalier Raimondi, lasciava correre. E anche per questo atteggiamento i sussurri e i colpi di gomito avevano una spiegazione: Bertini passava al direttore cavalli sicuri e, dopo certe vincite al casinò o ai dadi, gli consegnava una mazzetta di banconote affermando che l’aveva tenuto in società.

    «Vecchie mutande, dico a voi: voglio dare un senso alle vostre giornate mediocri e senza guizzi; voglio regalarvi un sabato da vivere all’insegna dell’ansia rigeneratrice, del colpo che potrebbe cambiare la vostra esistenza squalliduccia. Pensate: un colpo, un colpo solo e vi si potrebbero schiudere panorami imprevisti.» Bertini, che aveva fin lì declamato incedendo fra le scrivanie, si era seduto di sghimbescio su quella di Giorgio. Con un sorriso gli aveva tolto di mano la penna e su un foglio di cessione valuta aveva scritto in stampatello DELFO.

    «Vi dice qualcosa questo nome?… Scommetto di no.»

    Punto sul vivo, aveva frequentato il liceo classico, Giorgio era scattato: «Il famoso oracolo di Delfo».

    «Bravo» era stata la replica di Bertini, che con una torsione aveva abbandonato il resto dell’uditorio per dedicarsi soltanto a Giorgio.

    «L’oracolo di Delfo, le premonizioni sul futuro, il successo e l’insuccesso, la vita e la morte. E chissà che l’oracolo questa volta non abbia preso di mira proprio te, vecchia mutanda.»

    Giorgio era stato colto dal dubbio che Bertini avesse bevuto: ma, in mezzo alle altre qualità, quella dell’alcol non era mai venuta a galla.

    «Dall’oracolo» continuò Bertini «ha assunto il nome un meraviglioso cavallo italiano, un trottatore tanto geniale quanto folle: Delfo. Voi non potete neppure immaginare quali gioie e quali dolori mi abbia regalato. Non ho mai visto gambe così belle e possenti come le sue; un profilo regale; un collo svettante; un garrese pronunciato; uno zoccolo solido; un posteriore intrecciato di muscoli; un’intelligenza umana. Delfo non è come gli altri purosangue che vincono a comando. Lui vince quando ha il ghiribizzo e ha il ghiribizzo quando meno gli altri se l’aspettano… Io lo riconosco come un fratello.»

    Bertini, fratello di un cavallo, anche se dalle qualità fuori dell’ordinario come questo Delfo, era una rivelazione da lasciar attoniti, nonostante si fosse in luglio, nonostante si soffocasse, nonostante mancasse poco meno di un’ora al fine settimana che per molti avrebbe significato l’inizio delle ferie.

    «Questo prodigio dell’umanità» aveva ripreso Bertini rendendo definitivo l’ingresso di Delfo fra i discendenti di Adamo «corre sabato sera a New York, quando in Italia è quasi l’alba di domenica, nell’International Trot. Sarebbe una corsa da due lire, dato però che l’organizzano gli americani, che si disputa a New York e che per loro è un appuntamento di gala, è diventata meglio di una laurea. Nostro fratello Delfo vi si presenta guidato da uno che per la sua abilità viene chiamato il Pilota. Ebbene: i bookmakers italiani sono così sicuri che andrà al macello che lo danno vincente venticinque a uno, cioè venticinquemila lire di vincita per ogni mille lire puntate. Ora io mi domando e dico: si può dare Delfo vincente a venticinque, non fosse altro per la gratitudine che tutti questi lerci individui dovrebbero nutrire nei confronti di un cavallo che, perdendo quasi tutte le gare in cui era favorito, li ha arricchiti?»

    Bertini era un fiume in piena. L’uditorio pendeva completamente dalle sue labbra, e lui ne era conscio. Si era aggiustato il nodo della cravatta, si era specchiato nei grandi vetri delle finestre. Tutti avevano atteso in silenzio per timore di spezzare il sortilegio. «E non mi vengano a dire che vincendo le corse che avrebbe dovuto perdere li ha rovinati, perché è falso. Sono pronto a testimoniarlo davanti a qualunque tribunale: Delfo ha molto più perso che vinto. Di conseguenza, questi succhiasangue meritano una punizione: meritano che voi, vecchie mutande, puntiate su Delfo. E se avete culo lo potrete persino raccontare ai vostri nipoti.»

    Bertini aveva girato lo sguardo sui presenti inchiodandoli alle loro responsabilità. Gli impiegati della filiale erano muti spettatori che non sapevano come sottrarsi alla crociata. Anche il direttore, l’inflessibile cavalier Raimondi, era venuto fuori dal suo loculo. «Non si può puntare Delfo piazzato?» aveva chiesto palesando una discreta competenza.

    «Eh no, caro direttore. Delfo si punta vincente o niente. Non vorrà immiserire un campione della sua levatura obbligandolo ad arrivare primo, secondo o terzo? E poi gliela vogliamo dare o no una bella lezione a questi affamatori di bookmakers i quali, dopo una vita trascorsa a lesinare sulle quote, diventano generosi proprio con nostro fratello Delfo quando deve correre l’International Trot?»

    Giorgio era in subbuglio. L’accenno all’oracolo, alla premonizione, al segno del destino, al colpo che da solo poteva aprire nuovi orizzonti, aveva sortito l’effetto di rimescolargli le viscere. Le parole di Bertini avevano smosso qualcosa di cui Giorgio ignorava l’esistenza e che ora chiedeva prepotentemente di uscire allo scoperto.

    «Allora, vecchie mutande, ve lo chiedo per l’ultima volta: volete entrare nella ristretta cerchia dei privilegiati che puntando su Delfo gli affidano la propria ansia di riscatto, il gusto di correre un’avventura senza eguali, la gioia di sfidare le masse e, innanzi tutto, quelle miserabili sanguisughe dei bookmakers?»

    Bertini aveva concluso con una risata esagerata. Si divertiva nelle insolite vesti di arringapopolo; probabilmente non credeva a una sola delle parole fin lì profuse.

    Giorgio però era ormai attraversato da una frenesia così insinuante e così intensa da prestare scarsa attenzione ai richiami della ragione.

    «Eccoti centomila lire.» Le parole gli erano scappate di bocca, avevano preceduto il gesto.

    Bertini, intascata la banconota, era letteralmente volato fra le sue braccia. Lo stringeva e lo baciava.

    «Giorgio, fratello mio» ripeteva Bertini non accennando a liberarlo dalla stretta. Una sorta d’iniziazione in virtù della quale Giorgio, nel giro di pochi secondi, alla vigilia delle ferie, del viaggio in Calabria, della prima vacanza da uomo sposato, si era inoltrato in una dimensione a lui ignota: aveva scommesso, e per di più su un cavallo che in qualche modo gli veniva fratello. Non aveva difatti Bertini chiamato fratello sia Delfo sia Giorgio?

    L’esempio di Giorgio era stato contagioso. Tutti avevano puntato, anche l’innocuo ragionier Minghetti che tre mesi dopo avrebbe raggiunto il pensionamento. Bertini aveva raggranellato due milioni e mezzo, compresa la quota del direttore che aveva scommesso sulla parola.

    «Come facciamo a sapere se abbiamo vinto?» La domanda del ragionier Minghetti aveva ammutolito il festante brusio di quanti curiosavano sulle puntate altrui e calcolavano la possibile vincita.

    «Sui giornali di lunedì mattina.»

    La risposta di Bertini aveva sconcertato gli improvvisati compagni d’avventura e lui, comprendendo che tre giorni d’attesa erano eccessivi per quei neofiti desiderosi di consumare in fretta l’exploit, aveva offerto uno sconto generoso. «Però, vecchie mutande, se proprio vi scappa, domenica accendete la radio o la televisione: i notiziari ne parleranno sicuramente.»

    «Ma non c’è la diretta televisiva?» Tutti si erano voltati verso il ragionier Minghetti del quale molti credevano che ignorasse l’esistenza della televisione.

    «Caro ragioniere, non credo. Ma mi vorrebbe dare a intendere che un tipo internazionale come lei non ha un amico o meglio un’amica alla quale telefonare sabato notte a New York? Ragioniere, con tutti i cuori che lei ha infranto sul pianeta?»

    Il ragionier Minghetti aveva osservato Bertini esterrefatto, gli altri erano esplosi in una fragorosa risata.

    «Ma perché non t’informi tu e io ti telefono?» La proposta di Giorgio aveva suscitato immediati consensi.

    «E chi lo sa dove posso essere io la notte fra sabato e domenica?»

    «Se ricordo bene, lei lunedì figura ancora in ufficio. Le sue ferie sono fissate per agosto.» L’intervento del direttore era stato determinante.

    «Ho capito» Bertini aveva abbozzato. «Non è però che mi chiamate tutti? Organizziamoci, vecchie mutande: costituite dei gruppi con un capogruppo che verso le cinque mi telefona e al quale poi voi telefonate.»

    Era stato un susseguirsi di accordi, di numeri telefonici gridati da una scrivania all’altra, di elenchi rifatti in continuazione, di nomi scritti e cancellati. A memoria del ragionier Minghetti, che stava in agenzia da ventisette anni, un venerdì simile non era mai capitato. E neppure un lunedì, un martedì, un mercoledì, un giovedì.

    Giorgio e Monica erano saliti venerdì sera sul treno che all’alba di sabato li aveva depositati a Crotone. Giorgio era agitato. Monica se n’era accorta e, oltre a chiedere un paio di volte «Che cos’hai?», aveva aumentato le sue piccole forme di dedizione.

    Giorgio si sentiva in gabbia e quale fantasticheria più eccitante di quella di fuggire da una gabbia sul dorso di un cavallo? I giornali erano stati molto cauti sulle chances di Delfo, anche se al Pilota veniva riconosciuta una maestria magica. Le ore di quel sabato erano state interminabili e la sera era stata ancora più lunga del giorno. Per rompere l’attesa, Giorgio aveva abbordato Monica, nonostante il letto della pensione fosse così duro da sconsigliare movimenti e contraccolpi. Le aveva rivolto attenzioni che non avevano precedenti. Carezze, baci, prolungate ispezioni della lingua di ogni anfratto. Per farlo aveva superato il fastidio di peli che trovava dappertutto – anche nei posti in cui reputava che non avrebbero dovuto esserci – e di umori che gli impregnavano la bocca con un sapore peggiore del bicarbonato.

    Un Giorgio così voglioso, così premuroso aveva sorpreso Monica. Aveva realizzato che l’amore fisico poteva scatenare reazioni chimiche ben più coinvolgenti di quelle alle quali era abituata. Si sarebbe volentieri prestata a nuovi esperimenti, ma la notte di Crotone non si era più ripetuta e Monica in pochissimo tempo era rientrata nei ritmi abituali. L’inconsueta ginnastica era durata un’ora. Sbirciando l’orologio, Giorgio c’era rimasto male: pensava, sperava di aver bruciato la notte; invece era soltanto l’una e per di più aveva tutta la schiena indolenzita. Giorgio nella sessione amorosa con Monica aveva esaurito ogni scorta di fantasia, di desiderio, di energia: era lui a essere un inetto o erano giornalisti e scrittori a raccontare balle parlando di esaltazioni che duravano dal tramonto all’alba o dall’alba al tramonto?

    A conclusione di quei desolanti pensieri, Giorgio si era girato verso Monica: dormiva. Aveva un’espressione molto distesa: nei riflessi di un neon che dalla strada venivano a frangersi contro il vetro della finestra, Monica mostrava lineamenti delicati che attiravano carezze. Monica trasformata da moglie in amante era attraente. Giorgio non se n’era mai accorto: ma come avrebbe potuto accorgersene se mai erano stati amanti? Le due e un quarto. Che cosa stava facendo Delfo? Giorgio ignorava se i cavalli fossero come i calciatori, se mangiassero quattro ore prima, se poi schiacciassero un pisolino nei box, se qualcuno massaggiasse i loro preziosi muscoli. Era convinto che il via fosse fissato per le tre. E se fossero state le quattro? E se alle cinque Bertini non avesse ancora conosciuto il risultato?

    Da destra si era spostato a sinistra; si era girato su un fianco, poi sull’altro; aveva fissato il soffitto e la finestra colpita dai riflessi del neon. Aveva preso l’orologio: le due e trentacinque.

    «Giorgio» aveva mormorato Monica sfiorandogli la gamba con il braccio. «Ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?»

    «La pizza» aveva farfugliato.

    «Hai vinto, vecchia mutanda.» Alle cinque e venti l’urlo di Bertini aveva perforato la cornetta e il timpano di Giorgio annullando la distanza fra Roma e Crotone. «Vecchia mutanda, hai visto che avevo ragione? Pensa se Bertini venerdì non vi avesse trascinato verso l’avventura, i soldi, la gloria, Eh sì: perché noi resteremo sempre quelli di Delfo.» Un fiume di parole, una cascata di felicità avevano sommerso Giorgio il quale per venti minuti si era dovuto dannare per trovare la linea libera. «Voglio proprio vederla la faccia dei bookmakers, di questi crassi incompetenti che lo davano a venticinque nonostante fosse Delfo e nonostante lo conducesse il Pilota. Ma come si fa a dare Delfo a venticinque? Mi sembrava di rubare in chiesa, di sparare sulla croce rossa. Che ne dici, vecchia mutanda? Bertini ne capisce qualcosa o no? Vecchia mutanda, in vacanza potrai spendere a piene mani e quando torni a Roma ti aspettano due milioni e mezzo. O vuoi che ti spedisca un vaglia postale? Pensa a quegli stronzi che per avere sfidato Delfo, il Pilota e Bertini dovranno scucire settantacinque milioni. Capisci, vecchia mutanda: settantacinque cocuzze. Le hai viste tutte insieme?» No, Giorgio settantacinque milioni non li aveva mai visti tutti insieme.

    Facendo un rapido calcolo, settantacinque milioni di vincita significavano che Bertini aveva complessivamente scommesso tre milioni e, dato che in banca aveva raccolto due milioni e mezzo, significava che di suo aveva puntato cinquecentomila lire e che aveva dunque vinto dodici milioni e mezzo. Molto di più di quello che Giorgio guadagnava in un anno. D’altronde i suoi due milioni e mezzo di vincita non erano quasi quattro stipendi?

    Le tre settimane di Crotone erano volate in un misto di noia per giorni identici l’uno all’altro e di esaltazione per il rientro a Roma. Giorgio aveva taciuto a Monica della vincita. Con grande circospezione, in un’edicola lontana dalla pensione, si era informato se teneva giornali che parlassero d’ippica: corse, cavalli, quote dei bookmakers. L’edicolante aveva risposto affermativamente, precisando che le quote indicate erano quelle ufficiali, del totalizzatore. E per conoscere le quote dei bookmakers, aveva insistito Giorgio? Ah, per quelle bisognava recarsi negli ippodromi dove i bookmakers tenevano un regolare picchetto. Oppure, e l’edicolante aveva abbassato la voce e fatto l’occhietto, avere buone conoscenze. Giorgio si era allontanato dall’edicola con in mano un giornale pieno di nomi, di sigle, di numerini e con una discreta confusione in testa.

    Il giornale l’aveva nascosto: lo leggeva durante lunghissime sedute in bagno. Applicandosi, aveva interpretato numerini e sigle; aveva scoperto un mondo composto da nomi esotici, da infiniti alberi genealogici, da previsioni che erano giuste al cinquanta per cento. Al terzo acquisto del giornale, che era un trisettimanale, aveva ormai chiara la differenza esistente fra trotto e galoppo e come il primo fosse più imprevedibile del secondo e come Delfo fosse il più imprevedibile degli imprevedibili. Uno che evidentemente non lo stimava aveva paragonato la sua vittoria nell’International Trot al colpo fortunato di chi pesca l’unico jolly in un mazzo di cinquecento carte.

    La sera dopo aver incassato la vincita – Bertini gliel’aveva riposta in un cantuccio della cassaforte – Giorgio l’aveva dissipata alle Capannelle. Ci aveva rimesso anche ventimila delle sue. Otto corse, otto puntate sui cavalli che ai picchetti avevano la quota più alta: non uno che fosse arrivato. Ma perdendo tutto in tre ore si era scapricciato.

    Dopo il fallimento dell’ultimo cavallo – si chiamava Tuono blu e rischiando di crepare sul traguardo era giunto terzo – aveva provato un sollievo insolito e aveva guidato verso casa in uno stato di leggera ebbrezza. Non era male sentirsi in pace con il mondo e principalmente con la propria anima. Una beatitudine che l’aveva indotto a frequentare gli ippodromi. La scommessa era diventata il cavallo sulla cui groppa scappare dalla gabbia. Per scommettere aveva però bisogno di essere fisicamente presente: aborriva le agenzie ippiche e, peggio ancora, i piccoli biscazzieri da bar. Inseguiva lo spazio e il verde dell’ippodromo: annusare l’aria che sapeva di sterco, di paglia, di fieno; avvicinarsi di soppiatto ai picchetti; lanciarsi sul cavallo con la quota più alta fra i vincenti. I piazzati erano roba da pezzenti. Non aveva scordato la lezione di Bertini: fra vincente e piazzato passa la stessa differenza che passa fra una scopata e una sega.

    A quanti ronzini aveva legato i pomeriggi e le sere; con quante carcasse che a stento si trascinavano fino in pista aveva sperato di fuggire dalla gabbia. Vai bello, su, forza, vai, vai, vai che ce la facciamo… Non ce l’avevano fatta quasi mai e, in ogni caso, un altro Delfo a venticinque non si era ripetuto.

    Che cosa sarebbe stato di Giorgio senza Delfo? Probabilmente si sarebbe separato da Monica, avrebbe ripreso a visitare letti diversi, non avrebbe avuto Maria e soprattutto non avrebbe provato quella specie di sprofondamento in cui era delizioso farsi risucchiare dopo che aveva perso l’ultima banconota.

    Aveva bruciato gli anni e gli stipendi non accorgendosi né degli uni né degli altri. La vita gli era scorsa accanto senza scalfirlo. Monica faceva la moglie, la professoressa e la madre. In banca lavorava ancora alla cassa: avevano promosso gente che aveva la metà della sua anzianità di servizio. Bertini si era dimesso: secondo alcuni aveva ereditato dalle ziette e veleggiava felice nei mari caldi, secondo altri era dovuto scappare dall’altra parte del mondo inseguito persino dalle ziette che non volevano più saperne di pagare i suoi debiti.

    La svolta era avvenuta il giorno in cui si era imbattuto in Oracolo di Delfo. Giorgio ne aveva pronunciato il nome con affetto e con cupidigia. Era certo che fosse un segno del destino. Vi aveva puntato i soldi che non aveva: tre milioni, vincente a dodici. Era arrivato secondo al fotofinish. Per pagare il bookmaker aveva fatto ricorso all’Affidavit, una misteriosa società finanziaria. Aveva cominciato con un prestito di cinque milioni. In tre anni aveva impegnato lo stipendio dei prossimi dieci anni, la casa in cui abitava e quella che avrebbe ereditato alla morte della madre.

    Un pomeriggio un tizio dell’Affidavit gli aveva comunicato che aveva trenta giorni di tempo per versare quaranta milioni. In caso contrario, avrebbero fatto valere l’ipoteca sulla casa.

    E a Monica che cosa avrebbe detto? E dove avrebbe portato Maria? Maria che andava in prima elementare, che gli buttava le braccia al collo ogni volta che apriva la porta…

    Inattesa e determinante era giunta la proposta del viaggetto a Stoccolma, la migliore scommessa della sua vita, persino migliore di quella di Delfo. Dopo Stoccolma i debiti erano stati azzerati e in più ogni sei mesi riceveva il suggerimento di raggiungere la domenica successiva un ippodromo lontano. In qualche gara di contorno figurava sempre un cavallo che i picchetti neppure prendevano in considerazione e che invece tagliava il traguardo per primo.

    Il tran-tran di Giorgio era cambiato. Le due vincite all’anno,

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