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Info su questo ebook

Marcello Provvedini è un vecchio e rispettabile uomo politico democristiano che vive appartato, dopo l'avvento della Seconda Repubblica. Un giorno incontra una sua antica collaboratrice, una donna che vent'anni prima, durante gli anni di piombo, faceva parte del suo comitato elettorale, e ha inizio l'incubo peggiore della sua vita. Con un pretesto viene attirato in un casolare e rimane vittima di un sequestro anomalo, che non sembra rispondere a nessuna logica. Le cause risalgono a vent'anni prima, quando un nucleo di terroristi era stato sgominato dai servizi e due di loro erano rimasti uccisi in un'imboscata. Ha così inizio una spirale di violenza che, tra sospetti, tradimenti e segreti di Stato, travolgerà tutti i protagonisti di questa storia.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2013
ISBN9788898475728
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Autore

Alfio Caruso

Alfio Caruso nasce a Catania nel 1950. Dopo la laurea esordisce nel giornalismo scrivendo per Il Corriere della sera e nel 1974 è fra i fondatori del Giornale. Negli anni Ottanta lavora al Corriere e alla Gazzetta dello sport, rispettivamente come caporedattore e vicedirettore, nel 1995 diventa co-direttore del Messaggero, mentre nel 1996 è direttore editoriale della Nazione, Resto del Carlino, Giorno. Parallelamente alla sua carriera giornalistica sviluppa una carriera letteraria scrivendo romanzi, thriller e saggi sulla storia italiana e sulla mafia. Ha pubblicato le sue opere con Leonardo, Rizzoli, Longanesi, Einaudi e Neri Pozza.

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    Anteprima del libro

    Affari riservati - Alfio Caruso

    I

    Maria frenò di colpo la Punto. Abbassò il finestrino, sporse la testa. «Onorevole… Onorevole Provvedini…» Al richiamo seguì un sorriso indirizzato verso una figura smilza dai capelli bianchissimi tagliati a spazzola.

    La faccia senza passioni era quella di un uomo più vecchio di qualsiasi età gli avessero affibbiato. Il corpo che pareva penzoloni ebbe un guizzo: si bloccò irrigidito dentro un abito fumo di Londra. La giacca era un modello antiquato, a tre bottoni. I tre bottoni erano allacciati e davano l’impressione di contribuire a tener diritta la figura.

    «Non mi riconosce?» chiese Maria. Era scesa dall’auto, con passi svelti aveva raggiunto la figura smilza. La sormontava dal collo in su. Rivolse un sorriso carico di simpatia.

    Il basset hound finì tra le gambe di Maria, il suo perplesso padrone lo tirò indietro con il guinzaglio. «Me ne scuso, ma non mi sovviene di lei.»

    Continuò però a scrutarla: Maria seguì il percorso degli occhi sperando di scorgere un brillio di riconoscimento. Alla fine si arrese. «Sono Maria Turno…»

    Non ci furono reazioni. La faccia senza passioni non dette neppure l’impressione di provare a ricordare. Il basset hound annusò l’aria, tentò di riprendere il cammino.

    «Lei è l’onorevole… l’onorevole Marcello Provvedini?»

    «Sì.»

    Maria allargò le braccia rassegnata. «Stavo nel suo comitato elettorale… 1976. Si ricorda adesso? Ci aveva raccolti il professor Teodori, il suo assistente. Eravamo tutti studenti universitari…»

    La figura smilza si animò. I lineamenti della faccia presero stancamente un inizio di vita. Maria avrebbe giurato che la mente dell’onorevole stava annaspando tra le pieghe della memoria. Maria si gloriò di aver causato quel piccolo subbuglio, di averlo costretto a misurarsi con volti, nomi che magari l’onorevole avrebbe preferito tenere sul fondo, persi nella grande massa di ricordi ingarbugliati.

    Ma la gloria di Maria durò poco.

    «Non mi dica che ci ha dimenticati?» Maria pronunciò queste parole con allegro disappunto. «Caspita, dopo tutto quello che abbiamo smosso per farla eleggere? Lei non stava bene, aveva appena subìto quell’operazione…» Maria non proseguì, timorosa d’inoltrarsi in argomenti indelicati.

    «Signora, mi deve scusare: sono molto imbarazzato. Ricordo benissimo quel comitato elettorale messo su dal professor Teodori, ci mancherebbe altro… Ricordo bene molti componenti. È di lei che non ho un ricordo preciso.» Fissò Maria con decisione. «E io le belle donne non le dimentico, anche se lei allora sarà stata una ragazza o poco più.»

    Maria raccolse i capelli sulla nuca, ne fece spiovere alcuni sulla fronte.

    Lo sguardo che vi scivolò sopra s’accese di tristezza e di malinconia. «Adesso sì che mi ricordo: la frangetta le donava molto.»

    «E meno male. Che delusione, se lei, onorevole, si fosse scordato di me, ricordandosi per di più degli altri. Forse non lo sa, ma venne eletto anche per il mio impegno.» Maria cercò un po’ di complicità. «Si fa per dire…»

    La faccia dell’onorevole Provvedini era tornata a essere senza passioni, ma ci fu un desiderio di acconsentimento che coinvolse l’intero corpo. Il basset hound equivocò e prese a sgambettare verso l’angolo di marciapiede, rimediando un’energica strattonata. «Buona, Tina» fu un sussurro pieno di affetto. L’uomo si piegò per accarezzare il cane, la mano però rimase nell’aria senza raggiungere il pelo placido.

    «Che mese, che battaglie» riprese Maria imperterrita. «Vi davano per spacciati. La previsione era che la Dc prendesse meno voti del Pci. Turatevi il naso e votate Dc, aveva scritto Montanelli. E molti italiani dovettero turarselo il naso, visto che vinceste voi.»

    «Lei non era democristiana?» C’era molta sorpresa in quella domanda.

    «Neanche per idea.»

    «Ah.»

    «Ero invaghita del suo assistente, il professor Teodori. Quando mi chiese di far parte del gruppo, pensai che sarebbe stata un’occasione per averlo vicino. Onorevole, glielo posso dire? Sfruttai lei e le elezioni per un’opera di seduzione.»

    «Comprendo.» Provvedini rimase impassibile. Allentò il guinzaglio facendosi trascinare per qualche passo da Tina.

    «Si chiama Tina il suo basset hound? Ho capito bene? Anch’io ne ho uno identico. Il mio si chiama Poldo e ha tre anni. La sua?»

    «Anche Tina ha tre anni.» Nel dirlo Provvedini tirò indietro il guinzaglio.

    Maria si accucciò, strinse a sé Tina, l’accarezzò con sapienza. «Devo farle una piccola confessione: a parte il professor Teodori, io in quel mese mi divertii moltissimo. Fu un’esperienza unica. S’immagini che l’ho raccontata a tutti e tre i miei figli. Ho perfino dipinto la Dc meglio di com’era.»

    «E con Teodori come andò?» Provvedini strizzò gli occhietti e allungò le labbra: una buffa mossa che nelle sue intenzioni attutiva la domanda indiscreta.

    «Chi se lo ricorda? Dev’essere comunque andata bene. Mi dette un bel trenta e lode all’esame. Storia delle dottrine politiche.»

    «La mia materia.» La frase suonò come una carezza.

    «Ha ripreso a insegnare?»

    «Purtroppo no. Il grande rimpianto della mia vita. Quando ho chiuso con il Parlamento…»

    «Non è più deputato?»

    «Dall’aprile del ’92. Ero incerto se candidarmi o meno, il partito pensò bene di aiutarmi a decidere escludendomi dalle liste.»

    «Mi dispiace.»

    «E perché le deve dispiacere?»

    «Nel bene o nel male sono stata con lei per un mese… In quel mese l’ho apprezzata, sa?»

    «Grazie.»

    «Brutto partito il suo.»

    «Né più né meno degli altri.»

    «Ne è sicuro? Io li ho votati tutti, tranne, beninteso, la Dc. Dunque posso concludere che la Dc è peggio. Sennò, perché non l’avrei mai votata? Non trova?»

    «Giusto.»

    «S’arrabbia se le rivelo che sono molto fiera di non aver mai votato Dc?»

    «Neppure nel ’76?»

    «Neppure nel ’76.» Maria lo disse compiaciuta, convinta di aver fornito la prova di una fedeltà assoluta.

    «Per chi votò?»

    «Se ricordo bene, misi scheda bianca. Lo feci per lei.»

    «Per me?» Provvedini ebbe un’espressione dolente. Quanti debiti di riconoscenza aveva dovuto saldare nella sua vita… E ora, inatteso, se ne presentava un altro.

    «Non me la sentivo di votare contro di lei dopo essermi sbattuta a incollare francobolli, a scrivere lettere, a distribuire i suoi santini. La rispettavo molto, si vedeva che tutto quello che faceva le costava una fatica enorme, che non stava per niente bene. Mi appariva come un samurai che avesse una missione da compiere, a qualsiasi prezzo. E allora la scheda bianca mi sembrò l’unica maniera di non tradire tutta quella macedonia di sentimenti.» Maria stavolta cercò un po’ di comprensione. «Sentimenti, se vuole, un po’ contrastanti fra loro, ma io sono sempre stata un guazzabuglio.»

    Provvedini trasse un sospiro profondo. «Quello che dice è molto bello e… e molto vero.» La faccia rimase senza passioni, però da qualche parte venne fuori un gorgoglio che rinseccò la voce. «Per me furono le elezioni più drammatiche. Mi avevano operato in marzo, dandomi sì e no un anno di vita… Invece di anni ne sono passati più di venti. Tanti, troppi…» Ma tutto questo a chi poteva mai interessare. «Mi diceva che lei ha tre figli. Una bella famigliola, complimenti.»

    «Onorevole…»

    «Non mi chiami onorevole, non lo sono più. Poi ho paura che ormai sia quasi un epiteto, soprattutto per noi della riserva.»

    «Non è contento di quello che ha fatto?»

    Provvedini alzò le spalle desolato. «Mi guardo intorno e ciò che vedo non mi piace. Non è confortante pensare che gran parte della responsabilità è nostra, della mia generazione, di quelli che stettero in Parlamento e legiferarono tra il ’50 e l’80.»

    «Lei ormai è fuori.»

    «Ma per quasi cinquant’anni sono stato dentro.» Avrebbe voluto rimpicciolirsi, però sapeva che non era possibile. Se fosse stato possibile, l’avrebbe già fatto mille volte. «Che giudizio darà la Storia di noi, di quelli come me?»

    Maria lasciò Tina. Si passò una mano sulla gola. Dette la sensazione di non essere più interessata all’argomento, di cercare un motivo che le consentisse di salutare, di andar via.

    Provvedini l’anticipò. «Le chiedo scusa per le mie mestizie, sono le mestizie di un povero pensionato. Lei è stata così gentile a ricordarsi di me, a fermarsi e io l’ho angustiata con le mie banali considerazioni.» Ci fu l’abbozzo di un inchino. «Potrà perdonarmi? E ancora grazie per ciò che fece nel ’76.»

    «Guardi che si sbaglia.» Maria s’arruffò nel correre ai ripari. «Non mi ha annoiata, sono soltanto dispiaciuta per lei. Le hanno riservato un brutto trattamento. Deve aver provato una bella delusione, dopo tutta una vita spesa per la Dc.»

    «Càpita…» Provvedini ebbe un tenue sorriso.

    «Ha visto che io ho fatto bene a non votare mai la Dc?»

    «Se non abbiamo avuto il suo voto, vuol dire che non ce lo siamo meritati. Troppe cose non ci siamo meritati…»

    Maria fu amareggiata di ciò che vedeva e sentiva. «Ora sono io a scusarmi di aver interrotto la sua passeggiata e di aver provocato tanti ricordi. Per farmi perdonare, posso darle un passaggio con la macchina?»

    «No, la ringrazio. Porto Tina ai giardinetti dietro la chiesa. Ho appena comprato il giornale, così, mentre Tina farà le sue corsette, io leggero un po’. Faremo passare un paio di ore fino al momento di rientrare a casa.»

    «Vuol venire con me?»

    Provvedini sussultò. La domanda stupì perfino Tina che drizzò il capo.

    «Le spiego» disse Maria contenta. «Sto andando dal mio basset hound, da Poldo. In questi giorni lo teniamo in una casetta fuori città. Io verso quest’ora gli porto da mangiare. Facciamo conoscere Tina e Poldo. Che ne dice?»

    Tina scodinzolò entusiasta. Provvedini fu incerto. Serrò le mascelle tra le dita della mano destra per cercare la giusta ispirazione. «Ma per l’una saremo di ritorno?»

    «Sicuro. Vuol avvisare sua moglie? In quel bar ci sarà un telefono…»

    «Vivo da solo.» La voce fu poco più di un soffio. «Mia moglie è morta tre anni fa.»

    «Oh, mi dispiace. Quanto mi dispiace.» Maria era confusa. «Mi dispiace per sua moglie, mi dispiace di aver toccato questo tasto. Per lei sarebbe stato meglio se non mi fossi fermata… L’ho costretta a ricordare troppe cose. Sono proprio un’imbranata. Non parlo più.»

    Provvedini tenne gli occhi puntati su Tina. Per esempio, non aveva mai tenuto gli occhi puntati così sui figli.

    «Prometto che, se viene da Poldo,» affermò risoluta Maria «eviterò qualsiasi domanda. Mi crede?» E sbottò in una risata serena.

    «Allora Tina, che dici: andiamo a conoscere questo famoso Poldo?»

    Maria aprì lo sportello della Punto rossa. Sul sedile anteriore spiccava un robusto pacchetto bianco. «Aspetti, onorevole. Tolgo il pacchetto: sono il tritato e l’osso di Poldo. Anche Tina mangia tanto?»

    Viaggiarono in silenzio attraverso quartieri sempre più lugubri. Maria assorbita dalla guida, Provvedini intento a tener buona Tina in grembo. Si fermarono al semaforo di un incrocio.

    «Tutto bene?» chiese Maria.

    «Era da tanti anni che non mi capitava di viaggiare accanto a una bella signora.» L’atmosfera fu riempita da una galanteria antica: un impasto di gentilezza e di pudore, di delicatezze e di attenzioni.

    «E il professor Teodori?» chiese Maria.

    «Non lo vedo e non lo sento da tanti anni. Da quando gli feci avere la mia cattedra.»

    «Ah,» Maria si volse verso Provvedini per essere sicura di aver inteso bene.

    «Sappiamo come va il mondo. E io sapevo com’era fatto Teodori. Lui si è sempre comportato correttamente nei miei riguardi. Avevo un debito da saldare e lo saldai.»

    La periferia della città si era allungata fino a quelli che un tempo erano borghi e paesini. La campagna irruppe improvvisa: disordinata, sporca. «Chissà se è vero» disse Maria «che si respira un’altra aria.»

    «E lei di che cosa si occupa?»

    «Oltre ai tre figli, a un marito spesso assente, alla casa, alla cameriera filippina, a Poldo, alla casetta in campagna?»

    «Non lavora?»

    «A me pare di lavorare tanto.» Maria fu divertita.

    «Nessuna occupazione fuori casa?»

    «Ma la donna non deve stare in casa? Non mi dica che ha cambiato idea sul ruolo della donna?»

    Provvedini non rispose. Inquadrò Maria, fu sul punto di dire qualcosa, ci rinunciò. Riprese ad accarezzare la testa di Tina.

    «Anche Tina è dispettosa?» chiese Maria per spezzare il silenzio.

    «Come? … Mi scusi, ero sovrappensiero.»

    «Qualche cosa che non va?» Maria tradì un pizzico di inquietudine.

    «Non sono più abituato a stare con gli altri… Con una bella signora. Mi perdonerà, se non sono socievole. Ma a una certa età è difficile mutare le proprie abitudini…»

    «Le chiedevo se anche Tina è dispettosa come lo è Poldo. A volte lo butterei giù dalle scale.»

    «Non lo so se è dispettosa. Io e Tina abbiamo imparato a sopportarci. Insieme ci facciamo compagnia. Non è vero, Tina? Sarai tu ad accompagnarmi al cimitero, non è vero, Tina?»

    Tina guaì sommessa.

    «Ma lei è proprio solo? Non ha altri parenti?»

    «Ho tre figli.»

    Giunsero dinanzi a una grande cancellata. Maria azionò un telecomando. S’inoltrarono lungo un vialone ben curato. Dopo una curva, s’affacciò un casolare dove non una linea, un mattone, una tonalità di colore era fuori posto.

    Scesero dall’auto.

    «Le piace?» Dalla voce di Maria traspariva gioia.

    «È suo?»

    «Sì» rispose Maria quasi imbarazzata.

    «Complimenti, è molto bello. Altro che casetta.»

    «È stato un regalo di mio marito per i dieci anni di matrimonio.»

    «Dev’essere un matrimonio felice, il suo.» Nel tono di Provvedini ci fu il ricordo di un bene perduto. Liberò Tina che rimase sulla difensiva.

    «Venga che le mostro l’interno.»

    «Questo famoso Poldo, dov’è?»

    Maria modulò un fischio di richiamo. Poldo apparve da dietro una fascina di legna sopravvissuta al recente inverno. Guardò Maria, squadrò Provvedini, si accorse di Tina. Le si avvicinò a piccoli passi.

    «Poldo, ti preparo da mangiare o preferisci prima giocare con Tina? Onorevole, preparo anche per Tina?»

    «Non vorrei arrecarle disturbo.»

    «Allora, gliela posso far visitare questa casa?» Maria procedette risoluta verso un imponente portone. Aprì con lunghi giri di una chiave imponente. «Ci vive un’anziana signora che ce la tiene in ordine, ma a quest’ora è a far la spesa.»

    Furono in un ingresso odoroso di legno di qualità. Aleggiava un sentore di cera e di spray domestici. Dall’ingresso si sbucava in un ampio salone con camino. Nel ripiano la cenere stava a mucchietti.

    «È bello. È proprio bello» disse Provvedini. «Le rinnovo i miei complimenti.»

    «Posso offrirle qualcosa prima di mettermi a preparare la pappa per i due piccioncini?»

    «Grazie, non bevo nulla.»

    «Sicuro? La casa offre alcolici, aperitivi analcolici, intrugli vari.»

    «Sono astemio.»

    «Non insisto. Da qualche parte dev’esserci una bottiglia di orzata, però quella non gliela offro neppure.»

    «Un’orzata?» Provvedini se ne compiacque come di una scoperta inattesa, preziosa. «Un tempo era la mia passione. Pensavo che non fosse più in commercio.»

    «La vuole?»

    «È sicura di averla?»

    «Direi di sì. Vado a cercarla, lei intanto si accomodi.» Maria portò le mani tra i capelli, quasi che avesse voglia di cambiare l’acconciatura.

    Aveva sognato. Ma che cosa? Gli era rimasta una sensazione di fastidio. Dov’erano finite le mani? Strano: le aveva sopra la testa. Cercò di abbassarle. Si fece male. Non vennero giù. Che si fossero addormentate, come succedeva sempre più di frequente, e fossero insensibili ai suoi comandi? Provvedini riprovò. Si fece di nuovo male. Gli dolevano anche le braccia. Roteò gli occhi all’indietro: le mani erano bloccate a una sbarra d’ottone, erano imprigionate dentro un paio di manette. Si volse freneticamente intorno. Stava sdraiato su un letto. Di fronte aveva una massa scura che poteva essere un armadio. Strofinò la guancia su una lana morbida: dall’odore capì che era la sua giacca. Gliel’avevano lasciata. E i tre bottoni dovevano essere allacciati. Gli pareva di avere anche la cravatta. Sulla sinistra il nero del buio era senza interruzioni. Cercò una finestra, ma non scorse una luce, anche minima, che potesse orientarlo. Mosse prima una gamba, poi l’altra, sollevò di qualche centimetro i piedi: li aveva liberi, senza scarpe.

    «Dormito bene?» Maria fu dapprima una voce, poi qualcosa in movimento sullo sfondo di un chiarore improvviso e lontano.

    «Lei chi è?» Provvedini vedeva pochissimo. Il chiarore proveniva di rimbalzo, giungeva molto fioco. Maria stava oltre il cono d’ombra ed era un qualcosa più nero del nero del buio.

    «Onorevole, ancora? Un altro scherzo della memoria? Gliel’ho detto quando ci siamo incontrati… Non si fida?» Il rimprovero di Maria suonò affettuoso. Si era adagiata dentro la poltrona dai braccioli bassi. Le dava gusto sapere che l’onorevole l’avrebbe udita, ma difficilmente l’avrebbe vista.

    «Che cosa succede?»

    «Quello che vede.»

    «Chi mi ha incatenato le mani alla spalliera del letto?»

    «Io.»

    «Lei?»

    «Onorevole, non scorgo in giro anima viva. Se non sono stata io, non può essere stato che lo Spirito Santo. Ma le garantisco che sono stata io.»

    «Perché? Che cosa vuole?»

    «Com’è curioso… Chi ci insegue?» Maria socchiuse gli occhi, andò indietro nel tempo. «Niente può sfuggire. Uno crede di essersi liberato e invece ciò che s’ha da fare, va fatto. Prima o poi.»

    «Che cosa dice?»

    «Lei e io avevamo un appuntamento che ignoravamo di avere finché non ci siamo incontrati. Io però in tutti questi anni mi sono preparata. Me lo diceva il mio subconscio…»

    La frase fu inghiottita da una sorta di risatina che aumentò il malessere di Provvedini. Si poteva invocare la mamma a ottant’anni? Era preparato alla morte, non a essere in balìa di una pazza scatenata, senza conoscere i suoi pensieri, i suoi piani. Se soltanto li avesse conosciuti, avrebbe potuto spiegare, convincere, trovare un punto d’intesa. Si accorse di ragionare secondo le antiche categorie della sua natura di uomo politico. Fosse stato in campagna elettorale, non avrebbe potuto dire di meglio. Gli venne da sorridere. Si compatì. Era in una selva oscura. Non aveva più l’animo di convincere, di spiegare, d’intendersi e, anche se l’avesse avuto, doveva fare i conti con quella pazza scatenata.

    «Perché mi tiene imprigionato?»

    «Quanta impazienza…»

    «È qualcosa che riguarda quelle mie lontane elezioni?»

    «Anche.»

    Provvedini fu attraversato da un lampo di paura. C’era stata un’epoca in cui aveva avuto paura solo di Dio. «Tina. Che cosa ha fatto a Tina? Dov’è? Tinaaa…» Provvedini ebbe la voce strozzata dalla paura, dal buio, dall’ignoto in cui era sprofondato.

    «Ha finito?»

    «Dov’è Tina?»

    «È con Poldo e ho l’impressione che stia meglio di lei.»

    Provvedini capì che la catastrofe era imminente. Avesse almeno potuto guardare la pazza scatenata in faccia per dirle quanto la disprezzava. S’afflosciò dentro il vestito.

    «Quando si dice il caso» continuò Maria. «Pensi un po’: se io non soffrissi di pressione bassa, se stamattina non avessi avuto bisogno di tre caffè e quindi se non avessi tardato a uscire, non l’avrei incontrata e lei adesso sarebbe ad annoiarsi a casa sua dopo aver trascorso con Tina le due ore nei giardinetti dietro la chiesa…»

    L’onorevole mosse le gambe, i piedi, scosse le manette facendo risuonare la sbarra di ottone.

    «Invece io soffro di pressione bassa e tutto è andato in un altro modo.»

    «Perché?»

    «Perché cosa? Perché lei è ammanettato? Gliel’ho detto: perché io soffro di pressione bassa. Non esiste un altro motivo. Se fossi uscita di casa mezz’ora prima, non l’avrei incontrata. Ma sapevo che un giorno sarei uscita in ritardo di casa e l’avrei incontrata. E mi ero preparata a questo incontro. Lo sa?»

    In risposta arrivò uno sbuffo.

    «Quante cose che non sa. Non le sa o non le vuole sapere? Per esempio si è mai domandato se la sua incolumità valeva la morte di due ragazzi…» Maria fu trafitta da una gran pena.

    Provvedini ebbe un soprassalto.

    «… e il carcere per altri quattro? Ci pensa a quei ragazzi? Ci ha mai pensato? Avanti, mi risponda: si è mai chiesto se la sua incolumità valeva la vita di due ragazzi e il carcere per altri quattro?» Maria si sorprese delle lacrime che colarono lungo le guance e giunsero a bagnare le mani che teneva raccolte sotto il mento.

    «Polidori? Si riferisce a Polidori…»

    «Esatto. Gianluca Polidori. E non solo a lui. Mi riferisco anche a Cristiana Mei, la ragazza bionda che lei disse di aver notato nei pressi del portone di casa sua, all’ingresso dell’università e in qualche altro posto che non ricordo. Ma l’aveva notata davvero o lo disse per reggere il gioco dei suoi amici dei servizi segreti?» Maria aveva strizzato le palpebre, come se gli occhi seguissero la memoria per affacciarsi su quelle scene lontane. «Gianluca Polidori adesso avrebbe cinquantun anni, Cristiana quarantasette. Chissà come sarebbe stata la loro vita se non avessero interferito con la sua. Vogliamo parlare anche degli altri? Di…?»

    «Basta, lei è un’invasata. Una pazza. Non sa quello che dice.»

    «Non so quello che dico?» Maria si sentì superiore: non soltanto sapeva ciò che diceva, ma sapeva molto di più dell’onorevole. «Io penso di dire la sacrosanta verità. Non è d’accordo?»

    Provvedini non rispose.

    Maria ripeté a se stessa che sapeva. Ma avrebbe giurato di sapere tutto? «Onorevole, mi sente? Ricorda come cominciavano un tempo i processi intentati dalla giustizia proletaria? Lei è chiamato a rispondere dei seguenti crimini e misfatti contro l’umanità…» Maria cercò di far salire la propria voce di un’ottava. Non ci riuscì. S’accontentò del tono di sempre, anche se le pareva in contrasto con quanto andava dicendo. «… Lei è chiamato a rispondere dell’omicidio di Gianluca Polidori e di Cristiana Mei. Lei è chiamato a rispondere dell’arresto, delle torture, del carcere di Michele Giaquinta, di Fabrizio Dean, di Giovanna Fiume, di Marcello Bianchi. Lei ne deve rispondere davanti al suo Dio e davanti agli uomini.» Il petto era ancora ansante, Maria però si sentì placata.

    «Rispondere di che cosa?» bisbigliò Provvedini. «Allora ero un bersaglio, adesso sono fuori da tutto. Non conto più nulla. Lei prende un abbaglio.»

    «Ma fino al ’92 lei era temuto e riverito.» La voce di Maria si era fatta neutra, era diventata la voce fuori campo di un pezzo di storia. «Era uno dei padri della Dc. I giornali erano pieni dell’onorevole Marcello Provvedini. Eletto sin dal 1948 nel primo Parlamento della Repubblica. Per vent’anni nella direzione della Dc, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega per i servizi segreti nel Terzo Governo Andreotti, componente della commissione antimafia… Di più di una commissione antimafia, ricordo bene? Membro della commissione d’inchiesta sulla P2, vicepresidente della commissione stragi. Le basta?» La voce di Maria si fece insinuante. «Dico: le basta per essere chiamato a rispondere di tutto?»

    «Qual è il suo piano? Chi c’e dietro di lei?»

    «I vecchi vizi democristiani vengono a galla… Qualcosa non quadra? Accade un imprevisto? Via con la congiura, con le forze oscure in agguato. Eppure voi cattolici dovreste credere al caso. Non avete la Provvidenza per spiegare ciò che sfugge alla volontà degli uomini, alla loro comprensione?»

    «Che cosa vuol fare di me?»

    «Questa è una buona domanda… Non lo so che cosa voglio. È da quando l’ho incontrata che procedo improvvisando. Io non ho nessuna fiducia nella Provvidenza, ma credo nei segni del destino. Stamattina ho avuto l’impulso di fermarla, di studiarla da vicino. Poi m’è venuta l’idea di portarla qui…»

    «Il

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