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Baciamo le mani
Baciamo le mani
Baciamo le mani
E-book237 pagine3 ore

Baciamo le mani

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Info su questo ebook

I tempi erano cambiati ed era nata un mucchio di gente senza più rispetto. Nella malinconica consapevolezza dell’ultimo vecchio Don, che assiste alla lenta decomposizione del suo mondo e nella disperata ribellione che gliene deriva è la chiave psicologica di questo romanzo che demolisce le più tradizionali oleografie della mafia e i suoi protagonisti.
Baciamo le mani è però qualcosa di più di uno dei tanti romanzi sulla mafia che si pubblicano oggigiorno. Esso è la testimonianza autentica e spietata della profonda modificazione strutturale della società mafiosa siciliana all’avvento del gangsterismo, segna i momenti di un ricambio generazionale, a New York come a Palermo, ma è anche l’atto di nascita di un sistema diverso, un sistema senza più regole né principi, senza più miti è eroi, ormai affidato ai più brutali risvolti della violenza.
Baciamo le mani, infatti, è un libro amaro e violento, che oltre alla sofferta poesia dei personaggi che lo animano, rappresenta uno strumento efficace di conoscenza di una tra le più oscure e pericolose metastasi del corpo sociale. Ed è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, fino all’estremo congedo dei suoi protagonisti che non vivono nella superficiale esaltazione, oggi ormai ricorrente, di un costume che si è già trasformato, ma restano inchiodati alla loro condizione di superstiti eroici e disperati in un mondo travolto dalla disumanità, un mondo che ha rinunciato ai vinti come ai vincitori per inventariare soltanto i sopravvissuti. Don Angelino Ferrante - questo capo di una mafia quasi istituzionale - vede trasformarsi la sua Famiglia a poco a poco, dispersa da uomini e avvenimenti che appartengono alla più sanguinosa cronaca dei nostri giorni, la vede sacrificata dall’obbedienza assurda alle leggi sulla quale l’aveva costruita ma non rinuncia alla propria dimensione umana, fino alla totale disfatta.
Disfatta che non ha nulla della resa ma è l’eroico rifiuto di un mondo nel quale egli stesso non ha più alcuna ragione di sopravvivere.
“Non c’è posto migliore per morire che laddove hanno già seppelito tutto di te stesso“ è la conclusione dell’Autore.
E tale diventerà infatti la scelta di quest’ultimo patriarca destinato a non avere più successori.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2011
ISBN9788863690958
Baciamo le mani

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    Baciamo le mani - Vittorio Schiraldi

    padre

    CAPITOLO I

    Una raffica di mitra gli aveva bucato il petto e la schiena. Il corpo giaceva bocconi sull’erba, rattrappito ai bordi di una pozzanghera, in mezzo alla radura.

    Il giudice rivoltò il cadavere sul dorso e guardò la faccia del ragazzo. Poteva avere poco più di vent’anni. Portava un paio di pantaloni di velluto, una maglietta nera che si era arrotolata sullo stomaco e una giacca forse un po’ troppo lunga. Aveva le mani piegate sul ventre strette al calcio di una machinepistola. Il giudice gli frugò nelle tasche, tirò fuori un documento, un portafogli pieno di soldi e di fotografie, una grossa Luger. Si voltò con un sorriso ironico e incontrò lo sguardo del commissario Lo Coco dietro le sue spalle.

    Lo facciamo portare via? chiese Lo Coco.

    No. Aspettiamo la moglie, voglio che lo veda così rispose il giudice. Si rialzò, accese una sigaretta, mentre i fotografi facevano scattare i primi flash.

    Precedenti? domandò.

    Nessuno, ma era il figlio di don Angelino Ferrante disse Lo Coco e il suo tono era preoccupato.

    Cominciava a cadere una pioggia fitta, sottile. Il giudice si tirò su il bavero del cappotto e si diresse verso la piccola casa a due piani a pochi metri dal cadavere. La casa doveva essere rimasta disabitata da molto tempo. Davanti all’ingresso, accanto all’abbeveratoio sporco di fango, un carretto aveva le stanghe piantate nella terra: una terra di nessuno che non era più campagna. Presto sarebbe stata cancellata dalle lottizzazioni che stavano chiudendola in una gabbia di cemento. Il giudice spalancò la pesante porta del fienile. Il commissario Lo Coco fece per seguirlo quando si sentì afferrare per un braccio. Lo Coco guardò infastidito la faccia del giornalista e mormorò:

    Lascia perdere, Nicosia, non è il momento. Chiamami più tardi in ufficio o parla col giudice. È una brutta questione.

    Questo non è il solito regolamento di conti, vero?

    No. Almeno il padre non avrebbe permesso che se ne occupasse il più giovane dei suoi figli. È proprio una brutta questione.

    Ma perché se ne andava in giro con tutto quell’arsenale addosso? Non fa parte dello stile di famiglia insisté Nicosia.

    Lo Coco sorrise.

    Cosa ti aspettavi, che si portasse una lupara appesa al collo?

    Qualcosa del genere, comunque non l’attrezzatura di un gangster disse Nicosia.

    Beh, i tempi sono cambiati, Nicosia concluse sbrigativo Lo Coco superando la soglia del fienile.

    Lo Coco lasci stare le dichiarazioni! lo rimbeccò il magistrato. Non è il momento dei giornalisti, questo.

    Nicosia però non si dette per vinto, e questa volta si rivolse direttamente al Sostituto Procuratore:

    Un’ultima cosa, signor giudice. Questa casa era di Stefano Ferrante?

    II giudice guardò il commissario e Lo Coco annuì stancamente:

    Si, era sua. Comunque non viveva qui.

    Stava per aggiungere qualcosa, quando un poliziotto entrò nel fienile annunciando che Mariuccia Ferrante stava per arrivare.

    Non le avrete detto niente alla vedova, spero disse il giudice avviandosi verso l’esterno. Lo Coco quasi si risenti:

    Figuriamoci!… Comunque non si aspetti di farle una sorpresa, signor giudice.

    Uscirono tutti. Lo Coco parlò con gli agenti che fecero subito capannello intorno al cadavere in modo da coprirne la vista. I fotografi prepararono le macchine, il giudice si accese un’altra sigaretta.

    Davanti alla casa c’era ancora l’erba, con un centinaio di metri di campagna; e poi Palermo. Le prime case di una città nuova, che rubava la terra agli aranceti fino ai piedi della montagna. Laggiù si scorgeva una lunga striscia di asfalto ancora lucida di bitume. Poco più avanti la strada si interrompeva sotto i cingoli di un caterpillar che stava avanzando lentamente. A destra e a sinistra ampie voragini aperte dalle escavatrici. Accanto alle scheletriche strutture dei grattacieli che stavano spuntando in mezzo all’erba, ai margini della proprietà di Stefano Ferrante, la carrozza si era fermata.

    La figura nera della donna indugiò per un attimo. Mariuccia si mosse verso la casa attraverso i campi. Guardò davanti a sé, vide la folla dei poliziotti che la stavano aspettando e sentì come una morsa stringerla dentro. I suoi passi si fecero più rapidi. Con la polizia non c’era don Angelino certo, lui non si muoveva mai di casa, ma non c’erano nemmeno i suoi cognati. Questo le fece balenare una speranza assurda che ricacciò subito indietro come una beffa ancora più atroce.

    Stefano era uscito molto presto, dopo avere rovistato nell’armadio. Prima di salutarla le aveva detto soltanto che forse non sarebbe nemmeno rientrato a colazione, e lei non gli aveva domandato nulla. Sapeva che a Stefano non piacevano le sue domande. Lo aveva capito subito dopo il matrimonio. La prima notte di nozze, dopo aver fatto l’amore, Stefano le aveva detto di alzarsi. Lei aveva ubbidito. Stefano si era acceso una sigaretta, poi le aveva chiesto di prendergli i calzoni. Si era ritrovata nuda e imbarazzata, con i pantaloni in mano, accanto alla spalliera del letto, e istintivamente aveva cominciato a frugare nelle tasche, credendo che suo marito intendesse chiederle qualcosa. Invece Stefano si era messo a ridere.

    Fammi un favore: infilati i calzoni, facciamo una prova le aveva detto. In un primo momento lei aveva pensato a chissà quale gioco erotico e ne aveva provato vergogna. Ma Stefano aveva continuato a sorridere, forse leggendo nei suoi pensieri, e aveva insistito:

    Coraggio, non avere paura, non c’è niente di male. Infilati i calzoni. Non le era rimasto che ubbidire. Stefano allora era rimasto a guardarla soprapensiero, con un’espressione di disapprovazione, prima di parlare.

    Guardati allo specchio e dimmi come stai. Lei aveva ubbidito ancora una volta, sentendosi sempre più goffa e rossa di vergogna per quel gioco del quale le sfuggiva il significato, quindi si era voltata verso il marito.

    Non mi piacciono aveva detto. Non mi stanno bene, non sono cose per me. Stefano si era fatto ancora più serio e l’aveva abbracciata.

    E vero aveva detto. Non ti stanno bene, perché questi calzoni sono miei. Te li sei provati stanotte? Non te li mettere più. Sono miei. Sono io che li porto!

    Poi aveva spento la luce e avevano fatto l’amore, per la seconda volta.

    Così anche quella mattina non aveva fatto domande. Dopo che Stefano era uscito, era corsa all’armadio rovistando nella cappelliera, cercando ciò che sapeva che non avrebbe trovato.

    Istintivamente si fece il segno della croce. Un attimo dopo, un flash scattò davanti ai suoi occhi. Il giudice le disse a bruciapelo:

    Signora Ferrante, dov’è suo marito? Non lo so rispose con un filo di voce. Non le ha detto dove andava? Aveva un appuntamento. Con chi?

    Mio marito non mi dice mai con chi va e quello che fa. Sono cose di uomini.

    Certo, cose di uomini commentò il giudice tornando a studiare le sue reazioni.

    Lei sa perché l’abbiamo fatta venire qui?

    I fotografi spararono ancora i flash e Lo Coco con gesto brusco della mano disse loro di smetterla.

    "Non lo so. Perché mi avete fatto venire qui?

    E dov’è Stefano?

    Quella folla, i flash, i poliziotti che formavano una barriera davanti alla casa, quell’uomo che la interrogava. Tutto le sembrò terribilmente ostile e negativo e soltanto allora ebbe la conferma di ciò che aveva sempre saputo dal momento in cui aveva frugato nella cappelliera. Stefano era morto ammazzato, ma ormai nemmeno questo aveva più importanza. Voleva vederlo.

    Dov’è mio marito?! ripeté con un singhiozzo, guardando verso la siepe confusa di poliziotti davanti all’ingresso del fienile.

    Lei lo sa dov’è suo marito! gridò il giudice. Lo sa, lo sa! Altrimenti non si sarebbe già vestita a lutto!

    Non lo ascoltò più. Si slanciò verso gli uomini in divisa e quelli si fecero da parte scoprendo il corpo di Stefano ai bordi della pozzanghera. Si fermò un attimo. Guardò il magistrato, Lo Coco, il giornalista che continuando a spiare il suo viso stava scrivendo qualcosa, e le uscì di gola un urlo disumano. Poi si precipitò sul cadavere mentre gli agenti cercavano di trattenerla. Un fotografo fece scattare ancora il flash. Gli piantò gli occhi addosso con odio, poi sollevando con tutte e due le mani il bordo della sottana gli urlò sulla faccia, come una sfida:

    Tieni! Fotografami questo! Figlio di puttana! E sputò. Poi si afflosciò con un rantolo fra le braccia degli agenti continuando a mugolare con la testa rovesciata all’indietro e le labbra serrate.

    Il giudice e Lo Coco si scambiarono un’occhiata. Ormai non le avrebbero cavato più nulla di bocca.

    CAPITOLO II

    Mariuccia riaprì gli occhi lentamente. Nella grande casa di campagna di don Angelino Ferrante. Era seduta su una cassapanca appoggiata contro la parete di una stanza bianca e spoglia come una sala d’aspetto. Davanti a lei era Carmela: la vecchia governante le offriva una tazza di brodo. Mariuccia accennò un sorriso, prese la tazza, ma non bevve.

    Riprese a guardare davanti a sé. Nicola D’Amico, l’anziano consigliori della Famiglia Ferrante stava aprendo la pesante porta dello studio del Don. Mariuccia per un attimo riuscì a intravedere il suocero sulla poltrona accanto alla scrivania. Poi D’Amico sparì nello studio.

    Don Angelino non ebbe un solo movimento quando D’Amico entrò nella stanza. Continuava a fissare il telefono che campeggiava sul bordo della scrivania alla sua sinistra. Era come se stesse aspettando che da un istante all’altro l’apparecchio si mettesse a squillare. Passarono alcuni secondi, che in quel pesante silenzio sembrarono interminabili, poi si udì il trillo breve e nervoso. Don Angelino si mosse sollevando piano il ricevitore.

    Rimase per un momento in ascolto, e troncò la comunicazione.

    Nicola D’Amico lo guardò con aria interrogativa aspettando che il Don facesse il nome che gli era stato appena rivelato, il nome dell’assassino di suo figlio e don Angelino parlò, continuando a fissare il vuoto.

    Gaspare Ardizzone! disse senza emozione. Poi, domandò:

    A chi appartiene, Nicola? Non c’era alcuna curiosità nella sua voce.

    Billeci. Appartiene a don Santino Billeci rispose D’Amico.

    Lo conosci tu?

    Anche Vossia lo conosce… Non se lo ricorda al matrimonio?… lo chiamano ‘u Tunisinu… un curnutazzo!… aggiunse.

    ’U Tunisinu!… mormorò quasi a se stesso don Angelino. Rimase per qualche secondo soprapensiero.

    E i miei figli? riprese.

    Stanno aspettando…

    E Luciano?

    E arrivato.

    Glielo hai detto tu di venire?

    Nessuno gliel’ha detto. E venuto lui."

    Don cercò in una scatola sul tavolinetto un mezzo sigaro toscano e cominciò ad accenderlo lentamente. Da molto tempo desiderava rivedere suo figlio, ma gli dispiaceva che ciò accadesse in occasione del funerale. In fondo anche Luciano era uno che aveva voluto fare di testa sua. Se n’era andato negli Stati Uniti quasi contro il suo consenso per sposarsi. La ragazza si chiamava Barbara. L’aveva conosciuta per caso sulla spiaggia e l’americana si era interessata a suo figlio perché doveva avere deciso di portarsi a letto il primo bel ragazzo che le fosse capitato a tiro. Luciano ci aveva fatto l’amore, ma questa non era una buona ragione per portargliela in famiglia. Una mattina, quando si era presentato a casa per dirgli che voleva sposarsi, aveva provato pena per lui. Quando poi Luciano gli aveva detto che Barbara era figlia di un miliardario lo aveva cacciato via. Che sposasse una straniera dopo essersi preso una sbandata poteva anche essere ma che suo figlio arrivasse al punto di documentarsi sul conto in banca del suocero, questo gli faceva vergogna. Non erano certo i soldi quelli che mancavano nella loro famiglia e tanto meno erano mancati a Luciano. Soltanto più tardi aveva capito che il maggiore dei suoi figli preferiva cambiare aria. Voleva andare in America, e Barbara poteva essere una buona ragione per restarci. Non voleva né diventare avvocato né vivere sulla rendita di suo padre. Era un tipo troppo indipendente per assoggettarsi alle dure leggi della Famiglia.

    Eppure anche dalla Sicilia il Don non aveva fatto a meno di seguirlo. Dopo qualche tempo, Luciano gli aveva mandato una foto scattata sul bordo della piscina della sua casa di Los Angeles, con una freccia che indicava la camera nuziale, poi non aveva più dato notizie. Gli amici americani avevano fatto sapere che sei mesi dopo Barbara aveva chiesto il divorzio e Luciano si era ritrovato con le valigie in mano e qualche migliaio di dollari a battere le strade di New York.

    Nicola D’Amico aveva sostenuto che Luciano sarebbe tornato a casa, anche perché il Don aveva dato ordini perché nessuno aiutasse suo figlio, ma don Angelino sapeva che Luciano non avrebbe fatto marcia indietro. Non avrebbe mai sopportato le ironie dei suoi fratelli e tanto meno il peso di un insuccesso dopo tanti avvertimenti. Qualche mese più tardi, si era saputo che Luciano, dopo una rissa in un locale sulla 42esima, era entrato nella scuderia di Frank Palazzolo. Gli amici di New York avevano l’ordine di non far nulla per aiutarlo, ma non di impedirgli di fare le sue scelte. In seguito lo stesso Frank aveva mandato al Don una bomboniera di confetti, e questo significava che il suo ragazzo aveva superato brillantemente il battesimo nella sua Famiglia. Allora don Angelino si era rassegnato.

    Luciano era un uomo completamente pulito, anzi, continuava a esserlo. Poteva considerarsi cittadino americano e al fianco di Frank Palazzolo si era guadagnato un posto di primo piano. Don Angelino pensò con malinconia che la famiglia si stava disperdendo a poco a poco, e fu come se l’avesse scoperto per la prima volta. Lui aveva lottato per dare ai suoi figli una posizione dignitosa nella società contro la quale aveva combattuto e due di loro avevano deciso di fare di testa propria. Stefano, cercando di entrare nel giro dei grandi appalti e senza chiedere l’aiuto suo e di quegli uomini che lui stesso aveva sistemato nelle loro poltrone o addirittura in Parlamento; Luciano, andandosene a fare il gangster in America, e senza nemmeno ricorrere a suo padre.

    Adesso, il primo dei suoi ragazzi, il più giovane, glielo avevano riempito di piombo, e questo significava che il Don aveva visto giusto. I tempi erano cambiati ed era nata un mucchio di gente senza più rispetto.

    Era stato buono per troppo tempo, ma era arrivato il momento di muoversi. Don Santino Billeci controllava le aree fabbricabili in quella zona di Palermo dove avevano ammazzato suo figlio, ma non poteva essere stato lui a dare quell’ordine. Era al confino e soprattutto era suo amico, non gli avrebbe mai fatto quello sgarbo.

    Don Santino Billeci. L’aveva visto per l’ultima

    volta al matrimonio di Stefano. Se ne stava seduto in disparte sotto il porticato. Sua moglie Teresa gli aveva messo un plaid sulle gambe, e don Santino volgendosi verso di lui, che gli si era fermato accanto, aveva commentato con un sorriso amaro:

    La vecchiaia, Angelino… Ma lo sai che sono un pochettino di giorni che sento sempre freddo?… Mi capisci tu?…

    Lui si era stretto nelle spalle:

    Solo i ragazzi non ne hanno mai freddo… I ragazzi, il sangue ce l’hanno sempre caldo, Santino…

    Angelino, i picciotti hanno le teste calde… questa è la disgrazia…

    I picciotti su’ picciotti… Lo vuoi un bicchiere di vino?…

    Aveva preso al volo il bicchiere da un vassoio che gli sfilava accanto in quel momento, lo aveva portato alle labbra, ne aveva bevuto un sorso, sempre fissando l’amico negli occhi, poi glielo aveva offerto:

    Alla salute, Santino… Quella nostra, che ne abbiamo bisogno…

    Guardò Nicola D’Amico che era rimasto in disparte, come in attesa.

    Di’ ai miei figli che adesso vengo disse. Si alzò, arrivò lentamente fino alla finestra. In cortile vide Rosa, sua figlia e Angelo Alioto, il marito, che parlava con alcuni sovrastanti.

    Nicola D’Amico aveva aperto la porta indugiando sulla soglia.

    Gliela posso dire una parola? domandò.

    Billeci? disse il Don, leggendo nel suo sguardo.

    D’Amico assentì gravemente e aggiunse:

    Non è cosa sua!

    Don Angelino annuì. Sulla porta era apparsa Mariuccia, gli occhi ancora lucidi di lacrime. Stava tentando di dire qualcosa. D’Amico la prese dolcemente per le spalle per portarla via, ma il Don lo fermò con un gesto.

    Don Angelino disse Mariuccia, e la voce le tremava. Don Angelino, a mio marito hanno ammazzato… gli hanno sparato come a un cane… Io glielo avevo detto: Stefano, vendiamola la casa… Che ne dobbiamo fare? Vendiamola… E lui: no, finiscila, non ti ci devi immischiare in queste cose… A me, non possono farmi niente!… Lo sanno chi è mio padre!… Io sono il figlio di don Angelino e al figlio di don Angelino Ferrante non gli possono dire niente!…

    Ora don Angelino era davanti a lei e Mariuccia abbassò la testa piangendo sommessamente. Poi sollevò lo sguardo e parlò fra i singhiozzi:

    E invece l’hanno ammazzato al figlio di don Angelino!… L’hanno ammazzato!

    Don Angelino le sfiorò il volto asciugandole le lacrime con le dita e fece un gesto del capo verso D’Amico: "

    Dicci a tuo figlio Masino di portarla a casa!… Ne risponde lui… Come se fosse mia figlia!…

    Restò immobile, fin quando non vide la porta richiudersi dietro le loro spalle.

    CAPITOLO III

    Luciano, Massimo, Luca e D’Amico aspettavano nel vasto soggiorno. Luciano si avvicinò al mobile bar, cercò un whisky senza trovarlo e si versò una doppia dose di marsala. Si sentiva nervoso e non a suo agio in quell’atmosfera apparentemente serena, eppure così carica di tensione. Non era più abituato al clima della famiglia, all’attesa paziente che il padre lo rendesse testimonio delle sue decisioni. Gli dava fastidio che il Don giocasse a rimpiattino coi figli, aspettando che intuissero da soli le sue scelte o la strategia che non voleva mai mettere in discussione.

    Da troppo tempo viveva lontano da casa. Poteva ormai considerarsi un capo e persino la ritualità di quella specie di consiglio di guerra urtava contro il temperamento che si era costruito lavorando accanto a Frank Palazzolo. Guardò suo fratello. Massimo se ne stava

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