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Panama Caffè
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E-book396 pagine6 ore

Panama Caffè

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Info su questo ebook

Che forma ha il delitto perfetto? Siamo onesti, chi di noi, dopo aver visto Star Wars, non ha simpatizzato per Lord Fener piuttosto che per quei “fricchettoni vergini” di Leila e Luke? E a chi di noi non è mai balenata l’idea di… passare per un momento dalla parte del “lato oscuro”? E chi di noi, dopo essersi sciroppato quindici anni di repliche di Colombo, non si è mai divertito a pianificare il delitto perfetto? Se non ci avete pensato, siete dei Boy Scouts irrecuperabili. Ma se anche avete solo sfiorato quei pensieri… immaginate, immaginate un paese simile al vostro, popolato da persone simili alla gente che conoscete voi. Giocate a disegnarlo “al contrario”, così che i buoni diventino cattivi e viceversa. Collocateci nel bel mezzo una prestigiosa ristorazione: il Panama Caffè. Ora condite i luoghi con le bislacche vicende di una “presunta persona per bene” e di una “puttana onesta”. L’uno professore di filosofia, l’altra avvocato. Aggiungete all’impasto la profezia dei Maya e uno sbalestrato “sfigato” che la predica. A questo punto aggiustate il tutto con l’adagio di un vecchio saggio: odia onestamente per amare coraggiosamente. Dopo di che divertitevi a scoprire cosa ne può sortire. E che forma ha il delitto perfetto… L'AUTORE: Leone di Candia, al secolo Massimo Maso, vide la luce il 31 dicembre del 1959 in quel di Dolo, paese della Riviera del Brenta. Capricorno, mancino “corretto”, anarchico utopista per dispiacere al padre, ex alpino e tifoso di Almirante, consegue la maturità scientifica, ma dribbla l’università indispettito dalle “mezz’ore accademiche”. Tredici anni or sono affronta i primi concorsi letterari con esiti lusinghieri. Numerosi i riconoscimenti, i premi conseguiti e le successive pubblicazioni in almanacchi. Del 2008 è la pubblicazione del romanzo breve Il cacciatore di formiche. Seguiranno La ragazza dell’Arsenale e Il posto migliore (2009), Good Hope (2012), Separato in casa (2013), Dalla parte della fodera (2014).
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2015
ISBN9788868671198
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    Anteprima del libro

    Panama Caffè - Leone di Candia

    1969]

    Sabato 31 maggio

    Torna a colpire il ladro di manichini. Le forze dell’ordine nuovamente impegnate in Riviera a seguito dell’ennesimo colpo del misterioso feticista. L’uomo, che da un primo profilo redatto dal capitano Montenero (Coordinatore del nucleo investigativo di Chioggia) agisce senza complici, è entrato in azione nel tardo pomeriggio di ieri, poco prima dell’orario di chiusura, secondo una dinamica collaudata, con precisione e rapidità, per poi dileguarsi nel nulla. Vittima designata: ‘La perla rosa’, il negozio di intimo femminile recentemente aperto in via Ferretto, a pochi passi dal centro di Borgo Molino. Damiano Terrin, il proprietario, ha dichiarato di non aver notato nulla di insolito e di essersi accorto della mancanza del manichino solo dopo aver accompagnato alla porta il tecnico incaricato della manutenzione del registratore di cassa. Il ladro seriale ha replicato in tutto e per tutto le azioni denunciate dalle precedenti vittime. Sono quattro finora gli esercizi della Riviera che hanno subìto le sue stravaganti incursioni. Secondo gli inquirenti, che escludono implicazioni criminose generiche, si tratterebbe di una persona disturbata, caratterizzata da interesse feticistico per l’intimo femminile, ma sostanzialmente innocua. Intimo di classe, ha precisato il sig. Damiano, evidenziando che il completo indossato dal manichino sottrattogli era di notevole valore, e rivolto a una clientela esigente e raffinata. L’ammontare del furto, manichino compreso, è stato stimato in circa seicento euro. Il tenente Falliero, portavoce della tenenza dei carabinieri di Borgo Molino, non ha escluso l’istituzione di posti di blocco e di perquisizioni cautelative negli ambienti legati alla ricettazione.

    Ma tu senti che roba! – esclamò Flora piegando all’indietro la metà inferiore del Gazzettino per rileggere più attentamente i passaggi rilevanti dell’articolo – Questo è suonato come una campana.

    Di chi parli? chiese Giordano premendo contro il petto una mano di carte per non farsele spiare.

    Di quel tizio dei manichini. Stavo cercando il necrologio di Leo e mi è capitato sotto gli occhi. Oh, ma che ha nella zucca ‘sto fesso? Certo che di gente sciroccata c...

    SKREEEEEK...

    Una frenata violenta e acida le spense la frase in gola.

    Qualche striscia stinta sull’asfalto, se si ha fretta e si è distratti, non offre garanzie di sorta, casomai la sicurezza di un rapido trapasso e la certezza di un veloce rimborso ai familiari in caso di disgrazia. Questa fu l’immediata e magra consolazione che attraversò gli occhi serrati di Fulvio un istante prima che il prolungato colpo di clacson gli riempisse le vene di ghiaccio e gli facesse saltare lo stomaco in gola. Quando li riaprì, era bianco come un lenzuolo e freddo come la ghisa. Cinque infiniti secondi di silenzio immobile, decine di sguardi stravolti e l’odore bruciato e dolciastro della gomma frenata. Poi, anche dall’altra parte, lo sfogo della paura.

    Stronzo!... Testa di cazzo! Vuoi farti ammazzare?

    N–no… per carità, sarei il secondo oggi. M–mi scusi… non so cosa…

    Ma vaff… !

    Quattro salti veloci verso l’altro marciapiede e la salvezza, una sgommata rabbiosa, il tempo e il sangue che riprendono a scorrere. Il sudore freddo e le gambe flaccide il solo guadagno di quella folle corsa attraverso il paese. Da lì all’ombra rassicurante della veranda e della vetrata serigrafata del Panama Caffè solo cinquanta passi di vergogna attraversati a sguardo chino, perché a Borgo Molino, forse, pochi conoscono Fulvio. Al Panama Caffè tutti.

    ’M beh?! Hai deciso di farla finita per non pagare i debiti di gioco? – esordì Giordano, abituale frequentatore del locare, poco incline alla fatica e incallito giocatore di briscola – Uno non basta? Se mi vieni a mancare anche tu con chi faccio coppia e smorfia domani?

    Ah! Avete già saputo allora?

    Del Leo? Eccome no! Non hai visto l’epigrafe qui fuori?

    N–no. – rivolto al banco – Flora… mi tiri un macchiato, con poca schiuma?

    Con quella faccia?! Sicuro di volere un caffè? chiese la donna che aveva ancora nelle orecchie la frenata.

    Giusto. Meglio una grappa, va’. Facciamo una stravecchia. Gialla. Con ghiaccio. Doppia, va’!

    Adesso ti riconosco. Altro? Magari la cannuccia?

    Fulvio buttò giù la grappa tutta d’un fiato, senza sghembi di bocca o smorfie degli occhi, il che valeva a dire che per lui quella roba era come l’acqua e il fatto del Leo solo una scusa come un’altra per farsi un bicchierino.

    Da come ci litigavi per una mano di carte storta non ti facevo così affezionato. si permise Flora poggiando le mani allargate sul bancone.

    Vero. si limitò a confermare lui tra un singulto e l’altro.

    E allora perché rischiare la pelle? Perfino quello delle pompe funebri era felice di appiccicarlo al muro.

    Perché è morto quando doveva. Ed è una brutta cosa. Fa pensare. disse Fulvio facendo separé con il rovescio della mano, come se fosse un segreto da condividere con pochi addetti ai lavori.

    Quando doveva?! gli fece eco Flora passando il panno sul marmo per cancellare l’anello umido del bicchiere e l’impronta sudaticcia di Fulvio.

    Massì! Anch’io fino a ieri non ci davo credito a certe cose, ma poi… poi il nostr’Adamo ha proferito e lui… lui è trapassato! Oh, preciso preciso, eh!

    Oh, bello! Ti vuoi dare a capire o devo chiamare gli alcolisti anonimi? – sbottò la donna spazientita – Di che profezia vai cianciando? E cosa c’entra Nostradamus?

    Come quale? Quella che faceva morto il Leo prima di oggi! Proprio come ha detto Adamo. Ma non quel Nostradamus… il nostr’Adamo. Socc’cia’!–precisò Fulvio, che nonostante i suoi ventisei anni lontani da Cesena non aveva ancora asciugato la sua grassa inflessione romagnola.

    Ma vaffan… ! Tu e la piadina. Dici di Adamo Messeri!

    Eh, lui. Il nostr’Adamo.

    Adamo profeta. È la prima che sento. E cosa mai avrebbe predetto?

    La dipartita del Leo, no?! Giusto roba di ieri, ve’.

    Nel frattempo Giordano, incuriosito, si era avvicinato al bancone, e dietro a lui qualche altro cliente fisso. A quel punto Fulvio si fece prezioso e Flora si sentì in dovere di versargli ancora una grappa, così da sciogliergli la lingua e venire a capo di tutto quel discorrere sconclusionato.

    Questa la offro io, a patto che tu ci tolga le spine dalla gola.

    Ci mancherebbe! Allora… qualcuno di voi rammenta Adamo qui, dentro il bar, prima di mezzogiorno?

    Dopo un giro veloce di occhiate tutti fecero di no con il capo.

    Appunto. È fuori delle sue abitudini. Non fa mai colazione al bar. – convalidò Fulvio – E già questa è la prima cosa strana. Ieri, per la prima volta da quando lo conosco, Adamo è entrato qui dentro, di primo mattino. E ha ordinato la colazione.

    Eh, giusto. Macchiatone e nacchera alla crema. Lo ha servito Irma. precisò Flora per arrivare presto al punto.

    Vero. Che putacaso era qui anche lei, di mattino presto. E gli ha fatto compagnia. Strano pure questo, ma lasciamo correre. Ma mentre i due discutevano delle loro faccende, lui aveva il giornale tra le mani. Spulciava senza impegno tra le notizie di provincia. Poi, all’improvviso…

    All’improvviso?! sollecitarono quasi in coro i presenti.

    All’improvviso ha ripiegato il giornale e ha tirato fuori una mazzetta di fogli ingialliti. Roba vecchia. Di secoli. Documenti antichissimi, ci giurerei. Li ha sventagliati sul tavolo come un mazzo di cambiali e poi ci ha puntato sopra il dito e ha cominciato a picchiettarci sopra. Su uno in particolare, e su un punto preciso. E sono certo che quel punto era una data. Una data precisa! Che giorno era ieri?

    Venerdì. Venerdì 30 maggio. suggerì una voce tra i nuovi arrivati che stringevano d’assedio il bancone.

    Esatto. E a quel punto Adamo ha tirato una smorfia. No… direi piuttosto una specie di sberleffo. E ha sussurrato dei numeri.

    Numeri? una voce sconosciuta alle sue spalle.

    "Numeri, sì. Io li ho sentiti. Ha detto: Centonovantasei sono troppi. A questo punto che vale contarli tutti? Ho deciso; per me finisce prima. Ha detto proprio così: Per me finisce prima. E poi, ancora: Tutto entro questa settimana; domani il primo di sette. Detto questo ha finito il suo caffè, ha salutato Irma e lasciato il dovuto sul vassoio… "

    Compresa la riconoscenza per Luisella che, fatalità, evapora ogni volta che ci sei tu nelle vicinanze. intervenne Flora sarcastica, con i gomiti sul piano e la faccia affondata tra le mani.

    Malelingue! Non è vero. Dicevo… ha pagato, riposto il giornale e raggiunto l’uscita. E lì fuori, seduto al tavolino, trova il Leo. E sapete che tra i due non correva buon sangue, no?!

    Sai che novità! – pizzicò nuovamente Flora – Tirala, dai, che si fa notte.

    "Ci sono, ci sono. Pazienza. È allora che il Leo, giusto per provocarlo, gli soffia addosso il fumo del mezzo toscano, e con la scusa di tossire gli sputa quasi sulle scarpe. Adamo, che non ha mai tollerato quella puzza, gli si para davanti e gli dice: Faresti bene a buttarlo. E Leo: Perché mai? E allora Adamo gli fa: Perché sei messo che potrebbe essere l’ultimo. Almeno fumati questo che è meno forte di quella roba. E gli offre uno dei suoi costosi giavanesi dolci. L’ultimo. Capite?"

    Fulvio, scivolando verso il sussurro, prolungò il punto interrogativo, così da creare quella suspance tipica di certi conduttori televisivi quando vogliono pompare l’attesa.

    No. Cosa? schioccò forte e improvvisa Flora che voleva rovinargli la sceneggiata.

    "Come cosa? I numeri! Oggi è il 31 maggio, giusto? Bene. Conta altri centonovantasei giorni e vedi dove si va a capitare. – silenzio – Ve lo dico io: 12 dicembre. – ancora silenzio e occhi dilatati – Oh, sveglia! È la data che gli Incas hanno calcolato coincidente con la fine del mondo. Ma non guardate mai Piero Vespa, su Skyper?"

    "Sì, buonanotte! A parte il fatto che a stimare quella data sono stati i Maya e non gli Incas… –prese a contraddirlo Flora con le palpebre a mezz’occhio per fargli capire che ne aveva abbastanza–Vorrei sapere che razza di canali becchi con la parabola? Io sapevo di Sky e conoscevo Piero Angela. Casomai Alberto, suo figlio. Vespa campa con i plastici delle disgrazie."

    Ihhh… che pignola! E comunque la cosa che mi preoccupa è quella settimana.

    Ma non erano sei mesi o giù di lì? chiese Giordano che non ci si raccapezzava più.

    "Prima. – lo corresse Fulvio – Poi ha precisato: Finisce prima e… tutto entro questa settimana. Capisci? Non sono più sei mesi e passa. Da qui alla fine del mondo sono meno di otto giorni!"

    "Wow! E questo ti basta per esigere gli oli santi, tirare testamento e restituire le pezze dovute a Luisella con gli interessi?" infierì Flora sempre più sarcastica.

    Dio mi colga se ho mai…

    Occhio! Guarda che ti manca meno di una settimana e lui – puntando il dito al cielo – ha buona memoria.

    Non capisco tanto accanimento. Credevo di essere tra amici. Ma se la metti così… – sbottò Fulvio facendo il gesto di mettere mano al taccuino –Forza, su. Faccio finta di aver usato il bagno tutti i giorni. Fammi il conto delle pezze. Quanto dovrei la…

    Cinquantatré euro e cinquanta. – gracchiò acida Flora che per i conti aveva mano – Cinquanta centesimi per centosette volte che hai fruito dei servizi senza un grazie.

    L’uomo impallidì. Non se l’aspettava.

    Ma dai? Così tanti? Adesso… con me ho solo dieci euro. Ma se domani…

    Ma va là, sciocco! – facendogli segno di mettere via il portafogli – Certo che sei tra amici. Allora… perché mai dovremmo dare credito a quei menagrami estinti?

    Perché Adamo ci ha azzeccato di brutto. Oh, Flora, Leo è morto, ma non sai come!

    Illuminami.

    "Per colpa del suo ultimo toscano. Probabilmente era alticcio quando si è coricato. Fatto sta che l’abbiocco è stato fatale. Il sigaro gli è scivolato dalle dita, sopra il copriletto sintetico e… wamp! Prima il letto, poi la camera. Hanno trovato solo un pugno di cenere. – girandosi di colpo, felice di aver portato a segno quel colpo di scena – Ed è stato il primo di sette!"

    I presenti, colti di sorpresa, fecero un piccolo balzo indietro e portarono istintivamente le mani al cavallo dei pantaloni. Flora, no. Non si scompose minimamente. Lei, scettica di natura, lo mandò a quel paese con un gesto della mano e tornò a servire caffè e spritz come se nulla fosse successo e nessuno fosse dipartito. Del resto Leo non le era davvero mai piaciuto. Certo, sopportava i suoi modi arroganti e la sua strafottenza, ma solo per dovere professionale. Gli offriva il sorriso del servizio malvolentieri fin da quando Irma aveva rilevato la gestione del Panama Caffè. Stante ciò, di sicuro non avrebbe presenziato al rito funebre. Probabilmente nemmeno Fulvio, al quale sia Flora che Irma concedevano certe furbate, come la faccenda delle pezze per esempio, per compensarlo della cattiva sorte che la vita gli aveva riservato.

    Giordano, Luisella e Fulvio. Dire di loro era come dire Panama Caffè. Erano l’eredità della precedente gestione e di quella prima ancora, quanto il bar portava l’insegna di Osteria Martini. A essere pignoli la corrente intestazione dell’esercizio, cioè quella registrata presso la Camera di Commercio, era Caffè Martini. Nel tempo, però, il grande logo che pubblicizzava la miscela di caffè servito al banco andò a identificare il locale stesso. Panama Caffè, per l’appunto. Giordano Costante, classe 1951, era stato baciato dalla fortuna il 21 agosto del 1985 allorché, con una schedina da due colonne, si accaparrò la serenità degli anni a venire per lui, le due mogli dalle quali si era separato e l’unica figlia. Per lui, play boy in disarmo con il vezzo del foulard e di un codino spelacchiato, valeva la regola del Piove sempre sul bagnato. Ricco di famiglia, ereditò il consistente patrimonio dei genitori anziani e malaticci che non aveva ancora raggiunto la maturità elettorale. Con due matrimoni falliti alle spalle e due assegni di mantenimento chiunque sarebbe finito sul lastrico, ma quelli come lui non inseguono la fortuna, ci inciampano sopra. Vinse al totocalcio proprio quando la Regione stava procedendo all’esproprio di alcune proprietà per la costruzione della bretella autostradale. Caso volle che una di queste proprietà fosse la sua. Vasta e adiacente al progetto. La cifra che gli venne offerta fu da capogiro. Per gestire vincita e transazione urbanistica si affidò allo studio notarile Bonvicini, notai in Borgo Molino da tre generazioni. Lì, nella sala d’attesa, conobbe casualmente Agostina, proprietaria anche lei di un appezzamento espropriato. Agostina Locatelli Pinzerani non era semplicemente la figlia (forse) del farmacista, ma anche una delle più avvenenti donne che lui avesse mai conosciuto. Un giro in Maserati, una cenetta intima, il fidanzamento veloce, il matrimonio da nababbi. E giù soldi! Tutto questo in meno di tre mesi, più fulmineo di una vampa d’agosto. Un vecchio detto sentenzia: Più grande è la fiamma, più povera è la cenere. L’idillio svanì alla prima scappatella di Giordano con una delle tirocinanti al banco, sùbito pareggiata con egual conio da Agostina, che in verità non aspettava scusa migliore per farsi avvinghiare lascivamente dal giovane e biondo fisioterapista di fresca assunzione. Un altro adagio veneto dice: Palanche e pasiòn i vae se dei do’ uno paisse i primi. E cioè, denaro e cuore vanno d’accordo a patto che uno dei due sia povero. Non era il loro caso. Da quel momento in poi vite separate sotto lo stesso tetto, patrimonio integro e per Giordano tanto tempo da spendere tra il tavolo da gioco e qualche avventura galante. La padronale secentesca al 241 di via Matteotti era la sua abitazione, ma la sala da gioco del Panama Caffè la sua residenza. In verità non era proprio un nullafacente. Nel 1999 impegnò parte dei suoi fondi per l’acquisto e la ristrutturazione di un vecchio edificio. Ne ricavò un resort esclusivo, apprezzato da politicanti locali e uomini d’affari per la riservatezza degli ambienti e la discrezione del personale. Per evitare la fatica di occuparsene direttamente ne affidò la conduzione alla sua seconda ex moglie, Sandra Frigatti. Forse il suo unico errore. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. E sul vizietto di Sandra ne giravano da scriverci un tomo. Più crescevano i profitti, più circolavano strane voci sulla gestione del resort. La donna, dopo qualche anno di attenta gestione, si era fatta prendere la mano e aveva rapidamente allargato i confini delle sue competenze offrendo alla clientela maschile una serie di appetibili servizi ricreativi extra. La sala sauna e benessere del Fedelissima Resort, con le sue giovani massaggiatrici in abiti succinti richiamava estimatori da tutta la provincia e oltre. Giordano, che non era tipo da farsi mangiare i risi in testa, appena annusò odore di guai corse ai ripari lasciando che l’ex consorte, bramosa di visibilità, si appropriasse della gestione amministrativa. Per di più, fingendosi maldestro e sprovveduto, le permise di incrementare gradualmente la propria quota societaria fino al punto di accreditarsi un buon quarantacinque per cento del capitale complessivo.

    Luisella (così chiamata perché minuta) fu assunta da Felice Martini giovanissima, dopo che il marito l’aveva abbandonata per scappare via con una sgallettata tedesca che abitualmente veniva a svernare alle terme di Abano. Il vecchio Martini, a dispetto di quanto certe voci spandevano in giro sul suo conto, era un uomo rustico, burbero e avaro, ma non per convincimento, bensì per soddisfare le orecchie di quanti, in lui, vedevano il prototipo dell’ebreo scaltro e insensibile, sopravvissuto alle vicende della guerra grazie ai soldi e a qualche machiavellica intuizione. Si diceva, per esempio, che scampò alle leggi razziali e alla prigionia nascondendo le sue origini e la stella di Davide sotto la camicia nera e, complice il silenzio dei conoscenti, istruendo i giovani balilla nei sabati fascisti. Il fortuito smarrimento della cartella anagrafica e qualche ‘donazionÈ alla causa gli risparmiarono controlli e accertamenti retroattivi. Questo modo di offrirsi alla clientela gli ritornava quel rispettoso distacco di cui necessitava per carattere. Luisella, che già lo accudiva in casa, ebbe così la possibilità di far qualche lira in più curando anche le pulizie del locale. Il destino l’aveva privata dei genitori, del benessere, dell’istruzione e persino della bellezza; cosa crudelissima per una giovane che non può vantare altro. La vita, più tardi, la privò del marito, degli affetti più cari e di un figlio. Perfino del cognome, dato che nessuno lo rammentava più. Chi rilevò il locale, quando Martini se ne andò in pensione, non ebbe cuore di staccare Luisella da quelle pareti che per lei, ormai, erano la sua casa. E così fece anche Irma, che di più gli offrì l’uso gratuito di un piccolo alloggio al piano di sopra. Un mini comunicante con la dispensa attraverso una scala a chiocciola; piccolo per chiunque, tant’è che non fu mai occupato, ma sufficiente per i suoi bisogni. Aveva sempre con sé una copia della chiave che apriva la porta sul retro, di modo che poteva entrare e uscire da quegli ambienti a suo piacimento. Negli anni, sapendo del suo passato, tutti gli avventori avevano preso l’abitudine di lasciare sul tavolo il ringraziamento o la pezza, come si usava dire, cioè una specie di obolo per ringraziarla delle pulizie accurate, che facevano dei bagni del Panama Caffè i più lindi e accoglienti tra tutti i servizi della zona. A dispetto della sua pochezza era una donna d’altri tempi, energica e instancabile, disposta a metterci le mani in quel che faceva, che nel suo caso non era faccenda di poco conto. Ma il suo vigore giovanile se n’era andato da un pezzo e negli ultimi tempi, di lei, si parlava quasi in astratto perché difficilmente la si poteva incrociare. Alle cinque scendeva le scale e lavorava fino all’apertura della serranda. Riceveva la consegna dei cornetti e ne tratteneva uno per la colazione. Poi spariva per ricomparire alle nove di sera, quando la clientela si diradava e i più erano distratti dalla televisione. Sollecitata da Irma e Flora, consumava la cena con quello che era avanzato dietro la vetrina del moscone. Un toast, qualche tramezzino, a volte la tigella, a patto che non fosse farcita con il crudo. Mangiava in fretta, seduta di traverso al tavolino che chiudeva la sala, prima della porta della toilette. A mezzanotte salutava con un cenno di mano e si ritirava a dormire. Faceva il suo lavoro, bene come sempre, ma quasi di nascosto, come se provasse vergogna a mostrarsi. Una forma di pudore che Irma e Flora rispettavano e non intendevano in alcun modo violentare.

    Fulvio Balestri, al contrario, dal destino aveva avuto tutto. Bellezza e benessere economico inclusi. Dalla vita, poi, una moglie, un buon lavoro e due marcantoni di figli. Ma, come capita a chi non sa pesare la propria fortuna, al contempo fece di tutto per rovinarsi l’esistenza. Amici balordi, affari sbagliati, gioco d’azzardo e donne. Mai libere. Messo alla porta da moglie e figli, esasperati e stanchi di soffrire le sue leggerezze e di pagare i suoi conti, nell’86 lasciò la sua amata Cesena per non rimetterci più piede. Scappò dai creditori e da qualche marito offeso nell’onore per trovare rifugio a Borgo Molino. Vendette l’amata DS Pallas cabrio e comprò un furgone usato, attrezzato per il commercio alimentare, come quelli che girano per i mercati. Lo trasformò e finì per smerciare panini con la porchetta e piadine romagnole all’entrata dei cinema o in occasione delle sagre paesane, diventando così il re indiscusso dei numerosi ciccio–panino della Riviera. Sopra quelle quattro ruote, cioè dentro La casa della vera piadina romagnola, ci viveva e a volte ci dormiva. Vero è che la sua comparsa era immancabilmente preceduta da un forte odore di patatine fritte e maionese, e perciò avvertibile con un certo anticipo. Con quell’attività ci ricavava di che vivere bene, ma poi trovava il modo di alleggerirsi di tanto benessere con le serate di briscola, tresette con il morto e scopone scientifico. Per fortuna a salvarlo e a garantire per lui c’era sempre il quasi coetaneo Giordano, fannullone ereditiero da tempo immemorabile, ma generoso, che sennò il furgone se lo sarebbe fumato da tempo. Di recente, però, il rapporto tra i due si era lievemente appannato. Giordano, che pure continuava a non pretendere le vincite, aveva preso l’abitudine di far firmare all’amico delle note di gioco, accompagnate dal versamento simbolico di un euro. La cosa parve strana a molti e il re della piadina lì per lì ci restò male, ma data l’esiguità dell’obolo richiesto ci passò sopra. Va anche detto che Fulvio, quando si trovava a corto di liquidi, girava tra i tavolini del Panama Caffè. Con la scusa di leggere le ultime notizie si avvicinava al tavolino appena liberato, posava una mano sul giornale e con l’altra occultava la pezza lasciata dal cliente e destinata a Luisella. Con due pezze ci pagava il caffè. Va da se che Luisella e Fulvio si odiavano cordialmente.

    Flora, invece, al Panama Caffè ci era arrivata per caso e non certo per bisogno. Quelle come lei(e non sono molte) ci nascono per stare dietro al bancone, ma non lo sanno. Corsi e aggiornamenti professionali sono solo un di più, poiché sono geneticamente programmate per rispondere a ogni richiesta, anche la più stravagante, e tenere a bada ogni tipo di clientela. Pragmatiche, capaci di memorizzare ordinazioni complesse e tirare di conto anche senza calcolatrice. Tenaci, infaticabili, energiche. La loro dimestichezza con bottiglie, macchine a pressione ed erogatori è invidiabile. Un venerdì di quattro anni prima Irma si trovò da sola a fronteggiare l’invasione di una torma di alpini convenuti in paese per un raduno. Quella mattina Ezio, il banconiere del Panama Caffè, ex alpino pure lui, per solidarietà con gli avventori pennuti aveva fatto il pieno di prosecco e nel trasportare un vassoio colmo di birre inciampò e rovinò a terra malamente, tanto da fratturarsi il femore. Giordano e Fulvio si presero la briga di caricarlo in auto e portarlo al pronto soccorso. A quel punto la povera Irma restò sola. Lei, novizia nel campo della ristorazione, non conosceva gli usi e i costumi di quei rudi valligiani calati in pianura, perciò quando cominciarono a fioccare ordinazioni del tipo: sei tagliatelle e due bum bum oppure un pieno di vita e una quartina andò in crisi. A un passo dalla catastrofe apparve Flora. Vent’anni nudi, spudoratamente sani e robusti. Jeans, stivaletto da moto, chiodo borchiato e zazzera nera da maschiaccio, di modi sbrigativi ma con due occhi da gatta combattiva e un sorriso da reclame senza un filo di rossetto.

    Hai bisogno di una mano?

    Perché? Tu ci caveresti qualcosa?

    Sono cresciuta in un’osteria di Pedavena. Quella di mio zio. Conosco l’idioma. Salto, va’, così ci capiamo meglio.

    E con un balzo atletico, da salta fossi, scavalcò il giardinetto. Posò la tracolla piena di libri e il casco, affastellò la blusa con un laccio e si infilò un grembiule. Irma, basita, le lasciò campo.

    "Allora… – cominciò la ragazza manipolando bicchieri e bottiglie come se fosse un giocoliere –la tagliatella è un bicchiere da vino bianco, l’ombreta, tanto per intenderci. Lo pigli e lo riempi a metà di grappa e per l’altra metà di china. OK? Il bum bum, invece, è lo spritz da grandi freddi."

    Cioè? mormorò Irma disperata.

    Tranquilla, è facile. Campari, bianco vivace, niente gassata e, al posto dell’acqua, gin. Tutto qui.

    Gesù! Una bomba. E il pieno… il pieno…

    Il pieno di vita? Un gioco di parole. Una caraffa da litro rasa di prosecco ghiacciato e quattro bicchieri. Un quarto a testa. Occhio! Quando partono così sono solo al primo giro. Ti ordineranno del pane e dell’affettato o del baccalà, per reggere. Ma vanno bene anche uova sode, crostini, tramezzini… quello che puoi tirare fuori dalla vetrina insomma. Sono fuori casa e sapranno essere comprensivi. E poi ricominceranno. Spero tu sia ben fornita, perché quelli girano mediamente sui quattro, cinque pieni. Anche sei.

    Ma… ma ce l’hanno un fegato?

    Dubito. Ho parlato di pieni. Sono dei mutanti. Non assimilano. Carburano come il bicilindrico della mia Silver Ghost. Ti piacciono le moto? A proposito… – offrendo la mano – mi chiamo Flora. Flora Rovoletto. Ma per gli amici sono Stupa, il mio soprannome e… tranquilla. Ho il tesserino sanitario.

    Stupa?

    "Uhm uhm! Sta per Stupovich. Istriano. Il cognome del nonno. Da noi si usa indicare la famiglia di appartenenza storpiando le origini o i nomi dei vecchi. Iscritta a Scienze Politiche a Padova, biker per passione della mitica Harley. A casa mi vedono già commercialista, ma so già che li deluderò. E guarda caso cerco un lavoretto per mantenermi senza pesare sui miei."

    Irma. Irma Maccari. Avvocato, se ti va crederci. Ora neo proprietaria di questa baracca, con scarsa esperienza, come puoi notare. E guarda caso mi trovo nella condizione di cercare una banconiera. Accetteresti?

    Se ci mettiamo d’accordo sugli orari… perché no. Avvocato hai detto. Dammi dell’indiscreta ma… non sei un tantino fuori luogo?

    Non ci badare. La verità è che forse non ci sono mai stata tagliata per le arringhe. OK! Te la faccio breve. Una scelta dissociata. Filosofa di passione, legale per dispetto, e perciò poco propensa a farmi i cazzi degli altri. Single, con una figlia di sette anni che esige attenzioni, che poi sono parte dei motivi che mi hanno condotta qui. Prima o poi deciderò da che parte stare. Per adesso sono a... mezzo servizio. Per questo mi faresti comodo.

    Come si chiama il tuo segreto?

    Teresa. – con una smorfia a metà tra il sorriso e l’amaro – Hai detto bene. Lei è il mio segreto, OK?

    E tale resterà. Affare fatto allora. Forza adesso, ne arrivano altri. Se mi stai appresso oggi fai il grano e cali gli assi per il tuo domani. Tu non li conosci, ma queste sono locuste. Se l’acqua fosse vino Venezia sarebbe già con le radici all’asciutto. Però… un consiglio: se devi passare più di due ore consecutive qui dietro dimenticati dei tacchi o fra qualche anno ti ritroverai con due cotechini al posto delle gambe. E credimi, nel tuo caso sarebbe un vero delitto.

    Irma arrossì per quel complimento. Non se lo sarebbe mai aspettato da una donna. Quel giorno il Panama Caffè abbassò le serrande abbondantemente dopo la mezzanotte, ma Irma e Flora sfogliarono contante per un’altra mezz’ora. Nessuna domanda inutile e, di conseguenza, nessuna risposta mentita. Un brindisi con una paio di birre ghiacciate fu sufficiente a sancire un’amicizia che aveva già il suo destino. Un patto cameratesco, quasi virile. Parlarono di moto, di uomini, di bottiglie, di esami andati a puttane e di scopate sbugiardate. Parlarono di tutto, meno che di se stesse.

    Non ho bisogno di sapere altro di te, mi è bastato sentire la tua stretta di mano. – disse Flora infilandosi il casco – E tu, di me, non hai bisogno di sapere di più.

    Sta bene. Ma nessun soprannome. Non mi piacciono. Flora ti chiami e Flora ti chiamerò.

    Sostenne quell’affermazione con una sforbiciata di mani e Flora sgommò via facendo rombare la sua bicilindrica color argento.

    Onestà, schiettezza, fedeltà; le parole solo alla bisogna. Questi, in sintesi, gli ingredienti del loro ferreo e inossidabile sodalizio. Com’è facile immaginare, Flora lasciò presto gli studi per strada e prese le redini del locale. Il sangue, quando è vivo e fiero, non lo si può tradire. Alla facoltà si era iscritta solo per far contento suo padre che voleva vantare un figlio laureato in casa, ma lei, che pure era dotata di un’intelligenza vivacissima, era stata al gioco nella speranza di mettere un bel po’ di chilometri tra la sua vita e quella di un parentado chiuso, dispotico, vecchio e asfissiante. Irma, sul piano pratico, imparò più da lei che da chiunque altro. Per contro, anche Flora imparò qualcosa dalla socia. Se Irma trovò il coraggio di scendere dai tacchi e tirare fuori la grinta necessaria, Flora smussò certe spigolosità e affinò quel minimo di femminilità che stava nascosta da qualche parte sotto la pelle del chiodo, fino al punto di sconvolgere tutti indossando una gonna sopra il ginocchio. Complice anche l’indubbia avvenenza delle due donne, la nuova gestione offuscò in breve tempo tutte le precedenti e fece del Panama il locale più apprezzato e godibile di Borgo Molino e frazioni. Sicuramente non sofisticato come il concorrente Caffè Mercanti, dove si aveva l’impressione di mostrare il culo, ma certamente meno impegnativo, più rilassato e gradevole. L’arredamento sobrio e vagamente retrò, l’atmosfera familiare eppure sempre rispettosa, la cordialità che non cedeva mai all’invadenza e un servizio ineccepibile erano caratteristiche capaci di soddisfare anche l’avventore più difficile e pretenzioso. Con queste credenziali il Panama occupò di diritto una nicchia di mercato rimasta vacante per troppo tempo nel campo della ristorazione rivierasca. Di fatto, rappresentò l’anello evolutivo mancante tra il prestigioso american bar da truzzi e le infinite repliche cinesi del baretto di periferia. In poche parole, una validissima alternativa. In virtù di

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