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Shout At The Devil
Shout At The Devil
Shout At The Devil
E-book661 pagine10 ore

Shout At The Devil

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Info su questo ebook

Fantasy - romanzo (543 pagine) - Sono in tre contro l'inferno, la loro arma è il rock e il loro premio sarà il successo.


David è disposto a tutto pur di portare i Dawn of Destruction al successo, anche a fare un patto con il diavolo. Con l’aiuto del suo migliore amico Johnny, vende la sua anima e quelle del resto della band per ottenere la vittoria del Music Heroes: il più importante contest musicale per gruppi emergenti.

Un incidente inaspettato però stravolgerà i suoi sogni di gloria e l’unico modo per risolvere la situazione sarà andare in missione per conto del Diavolo, cercare un’anima perduta e svelare i segreti più reconditi dell’inferno.

I Dawn of Destruction percorreranno strade pericolose, faranno incontri letali e affronteranno orrori indicibili. David dovrà ricorrere a tutte le sue forze per tenere unita la band, proteggere l’amicizia che lo lega a Roxy e Stefano, e gestire il suo primo amore. Nel mentre scoprirà quanto è alto il prezzo del successo e se davvero vale la pena pagarlo.

Una girandola di orrori e irriverenze shakerate con decibel di rock e una generosa dose di ironia dissacrante.


Eugene Fitzherbert è un essere vivente parzialmente inventato nel lontano 1978 e diventato anestesista rianimatore solo per potersi lamentare degli errori medici nei film.

Ha partecipato a varie pubblicazioni indipendenti, ha curato la rubrica Scriptabilia per la rivista Arcobaleno, in cui ha rielaborato il folklore del suo paese di origine (la Terronia) in chiave horror. Per il portale Stay Nerd, ha scritto centinaia di articoli sui temi più disparati, dai videogame fino al sesso a gravità zero. Ha vinto diverse volte il contest “La Sfida a…” ospitato da Minuti Contati. Fa parte della redazione di Penne Arruffate e partecipa ai loro video per dire il maggior numero di parolacce consentito dalla legge. Ascoltatore di musica metal giapponese e mastro birraio da garage, vive in gattività con l’Imperatrice e sei felini dai nomi strani che camminano sulla tastiera contribuendo alle sue pagine migliori.

LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2022
ISBN9788825420296
Shout At The Devil

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    Anteprima del libro

    Shout At The Devil - Eugene Fitzherbert

    All’Imperatrice, che ha fatto della dolcezza il suo marchio di fabbrica.

    Prologo – Shout At The Devil (Mötley Crue,1983)

    0

    Una sala prove senza strumenti è come un corpo senza organi: puoi appoggiarci l'orecchio, ma non sentirai nessun battito vitale.

    Scuoto la testa per liberarla da queste stronzate e per schiarire le idee soffocate dal caldo di giugno. Sospiro e il suono viene inghiottito dai cartoni delle uova attaccati al muro.

    Infilo le dita sotto la pedana di legno dove c’era la batteria di Stefano, ora accatastata sul divano, e la sollevo in una nuvola di polvere che mi solletica il naso. La spingo contro il muro prima di essere assalito da una salva di sternuti.

    – Fanculo a Johnny e a tutta questa storia. – Mi strofino il naso. – Dobbiamo fare un bel po’ di spazio… – imito la sua voce. – Dobbiamo… Come no!

    Afferro la mia LesPaul e mi siedo a gambe incrociate sul pavimento spoglio. Strimpello un paio di accordi: il suono metallico delle corde è spettrale nel garage rovente. Suono il riff di Sweet Child o’ Mine e le note cristalline sono come chiodi spuntati che non si piantano da nessuna parte. Quanto vorrei un po’ di distorsione, ma l'ampli è staccato e messo di faccia contro il muro, insieme al resto della strumentazione.

    Sconfortato, mi lascio andare in un blues acustico.

    Due colpi al portellone del garage mi fanno perdere una nota.

    – Ehi David! Lo so che sei lì dentro, apri! – Johnny batte ancora.

    Lo faccio entrare e chiudo il caldo di giugno fuori dalla Sala Prove. Lui passa in rassegna il risultato del mio lavoro: i pezzi della batteria di Stefano accatastati sul divano, gli amplificatori allineati lungo la parete, microfono e casse ammucchiate in un angolo, la tastiera di Roxy posata contro il muro, nera come il monolite di 2001 Odissea nello spazio.

    – Ma che cazzo hai fatto?

    Eh?

    – Tu mi hai detto che avevamo bisogno di spazio e ho spostato tutto.

    Johnny scoppia a ridere. – Sei un idiota! Bastava spostare il divano e togliere di mezzo i microfoni, non dovevi organizzare un trasloco.

    – Ma non dobbiamo… voglio dire, non serve spazio per le candele, il pentacolo sul pavimento…?

    – I sacrifici umani, il sangue di vergine… – Johnny si avvicina e mi mette un braccio sulle spalle. – Tutte cazzate.

    – E io che avevo comprato i ceri, le candele… – Indico lo zainetto abbandonato a terra a due passi.

    Johnny mi stringe il collo.

    – Te l'ho detto che sei un cretino?

    Mi divincolo. – E io te l'ho detto vaffanculo?

    Scoppia a ridere. – Ancora no, e sono passati addirittura cinque minuti.

    Rido anche io. – Se non dobbiamo usare le candele, cosa ci serve?

    Lui si fruga nella tasca dei jeans – ma come fa a indossarli, con questo caldo? – E tira fuori un Uniposca. Rosa.

    – Fashion, vero? Ce l'hai un foglio in quello zaino?

    – No, solo candele, un cero di Padre Pio e un crocifisso. – Do un calcetto allo zaino e il contenuto frana con un rumore sordo. – A che ti serve un foglio?

    Johnny si batte il cappuccio del pennarello sulla guancia e si guarda intorno. – E va bene, facciamo così. – Si piega su un ginocchio dove c'era la pedana della batteria e libera un pezzo di pavimento dalla polvere e dalla sporcizia.

    – Questo dovrebbe bastare. – Addenta il pennarello e lo scappuccia con uno schiocco. Scrive con la sua grafia inclinata da un lato le lettere dell’alfabeto a partire dalla A. Le dispone su due file. Conclude la sua opera con un Sì e un No in alto a destra e a sinistra delle lettere. Mi ricordano i bigliettini che ci si scambiava alle medie: Ti vuoi mettere con me? Sì No, e la risposta era sempre: devo pensarci.

    Johnny si rimette in piedi e con la punta dell’anfibio traccia un quadrato grande abbastanza da contenerci.

    – Cerca di rimanere dentro questo perimetro.

    – In che senso? – Faccio un passo dentro il confine, attento a non calpestare le lettere rosa scritte a terra.

    – In senso letterale.

    L’atteggiamento misterioso di Johnny mi sta dando sui nervi. – Non dobbiamo fare una specie di rito spiritico o come si chiama? Con le lettere dell’alfabeto sembra di stare dall’oculista.

    – Quello che stiamo per fare non è un rito. Assomiglia più a una telefonata: componiamo un numero e aspettiamo che dall’altra parte rispondano. E questo… – indica il gruppo di lettere – è il nostro telefono.

    Mi scrollo nelle spalle. Mi sembra tutta una stronzata, il solito scherzo idiota di Johnny, qualcosa per cui mi sfotterà tutta l’estate.

    Mi mette una mano sulla spalla e mi fissa dritto negli occhi. – Sei pronto?

    Il suo sguardo mi mette soggezione, il suo atteggiamento serio mi inquieta. Non sembra il Johnny di sempre. – Certo, siamo qui per prendere la strada del successo, no?

    Lui annuisce. – È quello che vuoi? Con tutte le tue forze?

    – Cazzo, sì. Mi sono rotto le scatole di suonare in pub da due soldi. – Gli stringo il braccio che mi ha appoggiato sulla spalla. – Voglio un album, un contratto con una casa discografica, una tournée. Voglio il successo.

    – Se ti vuoi tirare indietro, non c’è problema, eh. Ce ne torniamo a casa e continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto.

    – No, non me ne frega niente di quello che abbiamo sempre fatto. Non mi basta. Voglio di più.

    Mi batte sulla spalla. – Bene. E con questo abbiamo finito i convenevoli. È il momento di fare quella telefonata. – Indica le lettere scritte a terra. – Mettiti là.

    Siamo uno di fronte all’altro: il Sì e il No sono vicini ai miei piedi, capovolti.

    Johnny tamburella con il pennarello sul pavimento. Le lettere brillano a ogni tocco, o forse è solo una mia impressione. Magari sta componendo il numero…

    – E ora?

    Allarga il pollice e il mignolo dal pugno chiuso e le mette tra l’orecchio e la bocca. – Il telefono sta squillando… – Fa ruotare l’UniPosca tra le dita. – Avanti, rispondi, siamo qui, non farci aspettare.

    Le lettere si illuminano di un rosa intenso. Il pennarello cade dalle mani di Johnny e rotea sul pavimento. È come il gioco della bottiglia alle feste, solo che non c’è nessuna bottiglia in grado di girare così veloce.

    Dalla A alla Z, tutti i caratteri vengono assorbiti nel pavimento di cemento. Restano solo il Sì e il No.

    Lo sguardo di Johnny è febbrile, il sorriso tirato e stretto.

    – Stanno rispondendo?

    L’UniPosca si blocca come una lancetta di un orologio con la batteria scarica: il cappuccio rosa punta sul Sì.

    La stanza sembra tremare. Anzi, è come se respirasse, come se si richiudesse su sé stessa e si riespandesse. L’aria mi preme sulle orecchie e mi fa vibrare il petto. Un rumore scricchiolante esplode dal pavimento del garage.

    – Che succede? – La mia voce è spezzata dalla paura: forse non è stata una buona idea. Cerco Johnny, allungo la mano, annaspo con le dita, ma non trovo il mio amico. – Ehi Johnny? – Mi giro, ma il garage è stato sostituito da una coltre di oscurità. – Johnny?

    – Sono qui.

    La voce arriva dalla mia destra. – Dove? – Il cuore mi batte a tremila nel petto e rimbomba nella testa. – È tutto… normale? – Il respiro mi brucia nei polmoni. – Dimmi qualcosa!

    – Stanno rispondendo alla chiamata. Non aver paura.

    – Non ho paura. – La mia voce suona falsa come il compito di matematica che ho copiato un mese fa. – Quanto durerà?

    – Sei impaziente, piccolo umano? – Una voce cavernosa come un ruggito arriva da quello che dovrebbe essere il fondo del garage.

    Il quadrato rosa emana un tenue bagliore e oltre quel confine si estende il buio.

    – Siamo riusciti a prendere la linea con il Grande Capo in persona. – La voce di Johnny arriva dalla mia destra, ma non riesco a vederlo

    – È…

    – Sì, sono il Diavolo. – Una figura dai contorni sbiaditi e sfuggenti si muove ai margini del bagliore. È alta, e la testa allungata ha delle protuberanze che si agitano e sparano da tutte le parti. Ha quattro braccia e due arrivano quasi alle ginocchia. In mezzo alle ombre che compongono la sua faccia due puntini rossi si accendono, contornati da linee gialle.

    – Il Diavolo? – Non ci posso credere. Non ci voglio credere. E invece no, è tutto vero, sta accadendo sul serio!

    – Signore dei Morti, Padrone della Notte, chiediamo il tuo aiuto. – La voce di Johnny accanto a me è calma e misurata. Ma come fa? – Vogliamo stringere un patto.

    – Un patto? Siete solo due ragazzini. Perché mai dovrei ascoltarvi, quando posso strapparvi le ossa e succhiarne il midollo? – La voce ruggente emette un suono gracchiante: una risata.

    – Siamo disposti a pagare il nostro tributo.

    – Sapete quanto è alto il prezzo da pagare, mocciosi?

    – Sappiamo tutto. Vogliamo stringere il Patto.

    – Cosa volete?

    Tocca a me. – Il successo.

    La mano di Johnny mi tocca sul braccio: quel gesto vuol dire lascia fare a me.

    Con una scrollata mi libero dalla stretta di Johnny.

    – Vogliamo diventare famosi.

    Un altro di quei suoni gracchianti. – Non è sempre così? – Sbuffa. – Umani: noiosi e prevedibili. E cosa siete disposti a pagare?

    – L’anima. – Avanzo ancora di un passo: sono al limite del rettangolo di pavimento.

    – Ma non farmi ridere, ragazzino. La tua anima vale meno dello sterco di gallina. – Lo sdegno nella voce del Diavolo è irritante. – Se hai così poco da offrirmi, ti conviene sparire e continuare a vivere la tua vita insulsa.

    Stronzo. Cosa posso dargli ancora?

    Ma certo! – Non solo la mia. Siamo un gruppo rock, puoi prendere le anime di tutti e quattro i membri.

    – Che fai? – Johnny mi mette una mano sulla spalla. – Non puoi…

    Lo ignoro. – Mi hai sentito? – Mi sporgo oltre il confine rosa e il pavimento collassa, crolla in un abisso senza fondo. Siamo in equilibrio su un pilastro che affonda nelle profondità dell’Inferno, o qualcosa di simile. Scariche elettriche azzurre come lampi estivi corrono lungo la parete di roccia e si infrangono in scintille roventi.

    – Vuoi vendere anche le anime dei tuoi amici? – La voce cavernosa è più forte. La figura dalle quattro braccia sembra più vicina, o forse è solo un’illusione.

    – Sì, ho detto proprio così.

    – Sei coraggioso, scarafaggio umano.

    Il Diavolo si avvicina, rischiarato dalla luce che emerge dall’abisso. Ha gli occhi fiammeggianti, e un sorriso sbilenco mostra zanne appuntite. Le narici si allargano e inspirano aria. La pelle delle guance è percorsa da venature pulsanti dello stesso colore del catrame.

    Al posto dei capelli, una matassa di escrescenze gratta l’aria come dita alla ricerca di un appiglio. Si allungano verso di me, mi accarezzano i capelli, la fronte le guance. Un odore di piedi sporchi e verdure andate a male mi brucia gli occhi e la gola.

    Mi ritraggo, ma il mostro mi trattiene con quelle specie di dita e mi attira a sé, a un respiro di distanza da quegli occhi incandescenti.

    Afferro le escrescenze e cerco di staccarle ma sono inamovibili, dure e ruvide come legno d’ulivo. – Lasciami andare… – Un piagnucolio stentato mi cola fuori dalla bocca, come saliva stantia. Johnny, che fine hai fatto?

    – Cosa vuoi? Ripetilo! – La lingua nera guizza tra le zanne appuntite.

    – Per… – Deglutisco per non vomitare. – Dobbiamo diventare famosi. Dobbiamo vincere il Music Heroes.

    – Patetico. – È lo stesso tono della professoressa quando mi becca impreparato: deluso, infastidito. – Che monotonia. – Le appendici/dita mi tirano una ciocca di capelli. – Il successo, umano, al costo della tua anima e di quella dei tuoi amici. Un’anima per ciascun membro del gruppo, e sarete talmente divini che Jimi Hendrix giù all’Inferno si strapperà le dita a morsi e il Music Heroes sarà vostro. – Ride. – Così sia: che niente possa mai infrangere questo patto, neanche la morte. – Il Diavolo allarga le quattro braccia e le mani inferiori mi afferrano per le spalle. – Sigilla il nostro accordo, moccioso.

    Le altre due mani si posano sul mio torace e le unghie stracciano la maglietta.

    – Cosa…? – Biascico tra le lacrime. – Johnny…?

    Le mie parole si spezzano in un urlo: l’artiglio si è conficcano nella carne sotto il capezzolo. Il sangue mi cola nei pantaloncini, fin nelle scarpe.

    – Il tuo amico non ti può aiutare. – L’artiglio scricchiola tra le mie costole. – Mi serve solo un pezzo della tua anima. Sai, come un anticipo. – Ride, con quel rumore di ossa frantumate.

    Il dolore al petto corre per tutto il corpo. Gli schiocchi delle ossa del petto che si rompono mi rimbombano nelle orecchie nonostante le urla che mi graffiano la gola. – Lasciami andare!

    Il respiro si mozza: la mano del Diavolo è affondata nel petto fino al polso, e rovista tra le pieghe delle mie carni.

    – Eccola! – Estrae la mano con un rumore di risucchio: tra le dita, un frammento di tessuto luminescente pulsa veloce allo stesso ritmo del mio cuore e si contorce come se fosse terrorizzata da quello che gli sta accadendo intorno.

    È un pezzo di me.

    – Ora il nostro Patto è concluso. Verrò a riscuotere quando sarà il momento. Divertitevi.

    La stretta al petto aumenta, il mio corpo sembra contrarsi alla ricerca di una nuova forma. – Johnny… – Il mio sussurro si perde nel vuoto. Non c’è nessun Johnny vicino a me.

    Il mondo diventa nero.

    Suono di schiaffi. Guance che bruciano.

    – David, riprenditi, amico.

    – Eh?

    – Ci sei! Porca miseria, che strizza!

    Sono steso a terra: la faccia di Johnny incombe su di me, i capelli sparati da tutte le parti.

    Mi porto le mani al petto: la maglietta è integra, la pelle sotto non sanguina, le ossa sono sane. – Che è successo? – In testa mi vorticano parole sconnesse, incomprensibili. Era tutto un sogno?

    – Non so che è successo: ti ho perso. – Si passa una mano sulla faccia. – Ti ho trovato qui, a terra, quando si è riaccesa la luce. – Il neon sul soffitto tremola.

    Con l’aiuto di Johnny, mi metto seduto. Sono ancora nel rettangolo di pavimento protetto: le lettere sono sparite, resta solo il Sì, di un rosa acceso. – L’abbiamo fatto, vero?

    Lui annuisce. – Tu l’hai fatto.

    Mi porto la mano alla testa per farla smettere di girare.

    – Vinceremo il Music Heroes, e diventeremo famosi. I prossimi Queen, i futuri Black Sabbath, i nuovi Beatles…

    – No, per favore. I Beatles, no. Mi fanno vomitare. – Mi mette una mano sulla spalla. – Come ti senti?

    – Come se mi avessero sparato i Ministry direttamente nel cervello.

    Lui ridacchia. – Che canzone?

    – Psalm 69. – Trattengo un conato e lo mando giù con un bolo di saliva acida.

    – Ottima scelta.

    Mi rimetto in piedi. – Johnny – faccio un passo di lato per tenermi in equilibrio – come facevi a sapere tutte queste cose?

    Lui mi sorregge per un braccio. – Che intendi?

    – La… telefonata, e tutto il resto. Non sono cose che si imparano a educazione tecnica.

    Ridacchia. – Già… più nell’ora di religione. – Mi batte sulla schiena. – Avanti, David, è andato tutto bene, no? Che ti frega se l’ho letto sulla Settimana Enigmistica o su un libro vecchio di mille anni. L’importante è il risultato.

    – Credo… – dice il ragazzo a cui hanno squarciato il petto e preso un pezzo di anima.

    – Bravo. Credi! Perché ora il nostro prossimo traguardo sarà il successo. – Si volta verso di me. – Basta pub di merda, feste a casa di amici. Basta suonare gratis. Mi mette le mani sulle spalle. – Ormai siamo destinati. Diventeremo grandi!

    – Ci puoi scommettere.

    Le allucinazioni, il dolore, vero o finto che fosse, e la paura sbiadiscono. Al loro posto emerge la consapevolezza.

    – Tra sei mesi, tutti parleranno dei Dawn of Destruction. – Scuoto la testa. – E ora apriamo questo cazzo di garage: sto soffocando. Odio l’estate.

    Intro – For Those About To Rock (AC-DC, 1981)

    1

    Mi passo il polso sulla fronte bagnata di sudore. Ho la maglietta appiccicata alla schiena e i capelli mi scendono umidi sulla faccia. Il plettro è scivoloso tra le dita della mano destra e i polpastrelli della sinistra sono in fiamme dopo due ore di concerto. Non importa: è l’ultimo assolo di Angelo Azzurro, il nostro pezzo migliore. Stringo i denti e faccio volare le dita sulle corde.

    Ogni nota distorta dall'amplificatore investe il pubblico del Naxos come un vento di tempesta.

    Con un saltello mi avvicino a Johnny: lui inclina il basso accanto alla mia chitarra e insieme ondeggiamo al ritmo travolgente di Stefano, che picchia come un dannato sulla batteria.

    Mi sposto accanto a Roxy che stende il suo tappeto sonoro con la tastiera. Ci dà dentro, è precisa, riempie i vuoti che ci lasciamo dietro e porta la canzone verso il gran finale.

    L'alchimia è perfetta.

    Chiudo il mio assolo con un bending forsennato e mi avvicino al microfono. – Grazie a tutti per essere stati con noi, questa sera al Naxos! Oltre il palco, si alzano le urla di una quarantina di persone, e sono solo una parte di quelli che ci hanno ascoltato dall'inizio. – Noi siamo i Dawn of Destruction!

    Altre urla. – Alla salute, Do Minori! – Un bicchiere di birra si alza e altri lo seguono nell'aria stantia piena di fumo di sigaretta.

    Abbassiamo l'intensità del sound fino a un mormorio musicale. Il tema di Angelo Azzurro, sommesso e malinconico, riempie lo spazio tra noi e il pubblico.

    Indico alle mie spalle. – Nascosto dietro la sua batteria, il nostro padrone della ritmica, il picchiatore di pelli indifese. Fate un applauso a Stefano Beat-em-Up Crescenti!

    Stefano, un gigante appollaiato su uno sgabellino minuscolo, gronda sudore. Le bacchette mitragliano una salva velocissima che sfocia in un tripudio di piatti e spruzzi di goccioline come scintille liquide.

    Il pubblico grida ancora una volta il suo apprezzamento e altra birra viene bevuta.

    – Alla mia destra, maga dei tasti e degli effetti, il sorriso più candido del creato, la nostra tastierista Roxy De Mauro!

    Roxy muove le dita sulla tastiera con la velocità di un ragno. China la testa e i capelli biondi cadono come una tendina dorata davanti ai suoi occhi verdi. La melodia, complessa, e classica si conclude con la sua firma inconfondibile: uno swipe dei tasti dal più basso al più alto e una pestata pesante sull'accordo che mi fa vibrare il petto.

    La adoro.

    E il locale la adora ancora di più: l'applauso è così sincero che scatta all'unisono.

    Alchimia perfetta: è così che funziona, una comunicazione tra di noi che siamo sul palco e arriva fino al pubblico, lo trascina, lo capovolge e lo scuote fino all'osso.

    – Accanto a me, da sempre, fedele bassista, l'uomo… Scuoto la testa con un mezzo sorriso. Più o meno. – Risate. – …Il ragazzo dallo slapping più duro e dalla grinta infinita, l'ottimo Gionata, o meglio, Johnny Peruzzi!

    E per farmi il verso, Johnny cavalca un walking bass ben ritmato. Saltella a tempo. I capelli lunghi ondeggiano sulle spalle ossute e gli occhiali da sole avvolgenti rimbalzano tra il naso e la fronte. Parte in uno slapping duro, percuotendo e tirando le corde del basso che sferraglia dall'amplificatore. Ma le dita scivolano, o la concentrazione gli scappa da sotto i piedi, e manca del tutto la scala.

    Accartoccio la faccia e mi giro per nascondermi. Roxy mi guarda e alza le sopracciglia: Ma che gli prende stasera? Scuoto la testa.

    Per fortuna, l'alchimia non si rompe, il gruppo si mantiene integro.

    Gli errori di Johnny passano inosservati: due ragazzi e una loro amica pogano e in un battito di ciglia mi trovo un pubblico di canguri urlanti. Se fossero centomila, sarebbe… Non riesco a immaginare come potrebbe essere. Ma perché immaginarlo? Sarà così, prima o poi.

    Johnny conclude il suo fraseggio, solleva il basso per il manico e lo fa ondeggiare: la testa di serpente dipinta sullo strumento sembra pronta a schizzare fuori dal disegno e scagliarsi sul pubblico.

    Mi allontano dal microfono e lui prende il mio posto. – Non ci saremmo mai divertiti così tanto senza il capobanda, la prima e sola chitarra, il costruttore di mondi sonori: David Granderi!

    Ed è ancora il mio momento.

    Apro la manopola del volume al massimo e sparo un powerchord con tutta la potenza che ho nel braccio. Il suono satura l'ambiente. Se fosse un'onda d'urto, spazzerebbe via tutto il pubblico e farebbe esplodere le bottiglie di whisky dietro al bancone. Ormai i clienti del Naxos sono una massa di gente che si spintona e si getta l'una addosso all'altra.

    Nel microfono, Johnny urla il suo apprezzamento. – Dateci dentro, ragazzi! Questi sono i Dawn of Destruction!

    Gli altri mi seguono nel crescendo.

    Al quarto colpo di tamburo, chiudiamo all'unisono con uno stop preciso e perfetto.

    È pura magia: gli applausi scrosciano, il cuore pompa a tremila, le dita tremano per lo sforzo, il sorriso di soddisfazione illumina più delle luci di scena. Non riesco neanche a immaginare la mia vita lontano da questa sensazione infinita di soddisfazione e appagamento. A sedici anni, è forse la cosa più mirabolante che mi sia mai accaduta.

    Ne voglio ancora.

    Ne voglio di più.

    Alzo la mia chitarra sulla testa, come fa Mark Knopfler alla fine dei suoi concerti, e il pubblico grida ancora.

    Che vita, ragazzi.

    Che vita!

    2

    La serata è finita: raccolgo gli ultimi cavi e li infilo nello zaino. I ragazzi mi aspettano fuori, vicino alla Panda di Stefano.

    Il signor Greco, il gestore del locale, si avvicina a me. Passa accanto a una cameriera che sta sistemando le sedie sopra i tavoli e mi fa un cenno con la testa.

    – Bene ragazzo mio, mi sa proprio che ve li siete guadagnati, questi soldi. Mi allunga una busta. Ed ecco il riassunto della serata, la traduzione del nostro successo. A Greco non interessa affatto se siamo bravi, se facciamo musica buona, o se non sbagliamo quando suoniamo. Per lui, la cosa importante sono le persone che vengono a sentirci e quanto consumano. E da come l'ha raccontata, stasera deve essere stato un successone.

    Perché la busta è così… leggera?

    La apro: una banconota da cinquantamila lire e due da ventimila. Alzo gli occhi e inarco il sopracciglio. – Non è quanto…

    Greco alza la mano e scuote la testa. – Ah-ah, ragazzo. Ho dovuto abbassare il compenso per quello che vi siete mangiati. – Conta sulle dita della mano. – Due hamburger con patatine. Due porzioni di patatine aggiuntive. Un panino contadino. Una porzione di crocchette di patate. Una pizza con il crudo e una margherita. Finisce le dita. – E quello che vi siete bevuti. – Ricomincia a contare. Gliele vorrei spezzare, quelle dita. – Tre coche medie. Due acque. Un'aranciata. Scrolla le spalle alla fine del conto. – Come vedi, sono un bel po' di roba.

    – Avevate detto che la consumazione per la band era gratuita!

    – Certo, ma vi siete mangiati mezza cucina. Soprattutto quel batterista. – Scuote la testa, sempre con quel ghigno stampato in faccia. – È un pozzo senza fondo.

    Che stronzo! Stringo la busta tra le dita e la accartoccio. Che bastardo! Con tutto quello che gli abbiamo fatto guadagnare stasera.

    Faccio un bel respiro e trattengo la tentazione di dare fuoco al locale. Di sicuro qualche rockstar l'ha fatta, una cosa del genere. E se lo meriterebbe!

    Esco nell'aria fredda di fine novembre, con un vaffanculo piantato in gola che vorrebbe uscire a tutto volume.

    Gli altri mi aspettano vicino alla Panda bianca di Stefano accostata al marciapiede.

    Johnny è appoggiato allo sportello, accanto a lui la custodia del basso. Da un pacco di Diana Blu tutto stropicciato estrae una sigaretta e se l’accende. – Allora?

    Apro la busta. – Quello stronzo ci ha pagato novantamila lire. – Agito le banconote.

    – Novantamila? Stefano fa un passo avanti. – Ci eravamo accordati per centoventi, trenta a testa.

    – Che sono comunque una miseria. – Roxy scuote il capo. – Non dobbiamo farci pagare così poco.

    – Sì, lo so. La frustrazione mi fa salire il sangue alla faccia. – Ma che potevo farci? Greco ha cominciato a tirare fuori una storia infinita di consumazioni e beveraggi. A sentirlo, sembra che gli abbiamo saccheggiato il locale!

    – Consumazioni? E che ci siamo mai mangiati? Io ho preso solo un'acqua e un toast. – Roxy allarga le braccia, sconcertata. – Sono a dieta.

    – Un toast? – Mi rivolgo a Stefano. – E tu?

    – Eh già, perché ovviamente sono io quello che vi fa perdere soldi, vero? – Si afferra la pancia prominente. – Grazie tante, David!

    Alzo le mani. – E dai, Ste', non intendevo questo! – Faccio un cenno al Naxos alle mie spalle. – Quello stronzo di Greco ha detto che ti sei fatto fuori mezza cucina! Ha detto esattamente: stai attento al tuo batterista. Che dovevo pensare?

    – Che è un bastardo figlio di puttana. 'Fanculo. – Scuote la testa. – Ho solo bevuto una coca, in quel locale di merda. E ho ordinato una porzione di patatine. Non mangio quando suono.

    – Greco ci ha fregati. – La mia voce è un sussurro tremolante.

    – Eh no! – Johnny mi mette un braccio sulla spalla. – Non ci ha fregati. Io dico che Greco ha fregato te, amico mio! Ma guarda il lato positivo: siamo come i Blues Brothers! Anche a loro hanno fregato i soldi in quel locale di merda. – Sghignazza. – Ste’, mi sa che devi imparare a parcheggiare in sgommata. E gli dà una pacca sulla spalla.

    – Sì, come no…

    Johnny diventa serio. – Dividi per tre, la mia parte la do alla band. Così sono trenta a testa. – Tira un'altra boccata forte dalla sigaretta. È quasi arrivato al filtro, ma come da sua filosofia, la sigaretta va fumata fino all'osso con la brace a carboncino. – Comunque, Roxy ha ragione. Siamo troppo forti per farci pagare questa miseria.

    – Dovremmo chiedere di più. – Roxy annuisce.

    – Ma ora non possiamo farlo, perché non siamo nessuno. – Getta la sigaretta e la schiaccia sotto gli anfibi allacciati per metà con la linguetta di cuoio che sporge fuori. – È vero, abbiamo suonato un bel po' di volte in giro per i locali. Ci siamo fatti il Perditempo, l'Altrove e il Crazy Bull, due volte. – Storce la bocca. – Ma non è abbastanza per chiedere più soldi.

    – Per questo dobbiamo vincere il Music Heroes a dicembre. – Mi passo la mano tra i capelli. – È la nostra possibilità. Ve lo ripeto da settimane.

    – E noi ti abbiamo già detto che parteciperemo. Basta rompere le palle con questa storia. – Stefano è ancora risentito. Anzi, a giudicare dallo sguardo torvo, ai suoi occhi sono diventato uno stronzo. – Sei così sicuro di poter vincere che mi dai sui nervi.

    – Vinceremo.

    – Il Music Heroes è sicuramente un bel trampolino di lancio. – Johnny annuisce. – Voglio dire, se vinciamo…

    Quando vinciamo. – Ringhio.

    Stefano rotea gli occhi verso l'alto.

    – Giusto! – Johnny torna a battermi sulla spalla. Non so se mi prende per il culo. E non mi interessa. – Quando vinceremo il concorso, diventeremo ancora più famosi. Ma fino ad allora c'è un solo modo per uscire dai pub di merda come il Naxos e mettere in tasca qualche dindo in più.

    – E quale sarebbe questa tua soluzione? – Roxy si stringe le braccia intorno al corpo.

    – Stasera devo incontrarmi con un tizio che potrebbe farci entrare nel giro grosso, quello dei pub che pagano come si deve, a botte di centomila lire. – Sfodera un sorrisetto soddisfatto di fronte alle nostre espressioni sbigottite. – A persona! E ditemi se non sono un bel pacco di dindi!

    Tra di noi resta solo il freddo novembrino.

    – Cazzate. – Stefano rompe il silenzio. – Sono tutte stronzate, amico. Ti stanno prendendo per il culo proprio come è successo al nostro leader. – E mi fa un gesto di sdegno.

    Vaffanculo, glielo mimo con le labbra.

    – Non sono cazzate, mio mastodontico amico. – Johnny sgomita Stefano. – Ho davvero un tizio che potrebbe farci entrare nel giro grosso. Roba seria. Dovete solo fidarvi di me.

    – Io mi fido. – Roxy sorride e annuisce. – E poi, qualsiasi cosa sarà meglio di questo… – Indica il Naxos.

    Johnny fa un inchino. – Ti ringrazio per la fiducia, milady. – Si rimette dritto e gli occhiali gli scivolano davanti agli occhi. – Non come questi due miscredenti.

    L'insegna del Naxos si spegne e il gestore, che non ho più voglia di chiamare stronzo, esce e chiude la porta a chiave. Solleva il braccio per salutarci. Non riesco a vedergli la faccia, ma sono sicuro che stia ghignando. Stringo i pugni.

    – Lo ucciderai un'altra volta, David. – Johnny mi riporta alla realtà.

    – No, farò di meglio. Diventerò famoso e tornerò qui solo per pisciargli sul bancone.

    Johnny scoppia a ridere. – Grande eroe! Pisciare sul bancone di un pub è l'impresa più epica a cui puoi aspirare, David Granderi! Ti auguro tutto il successo!

    Gli altri ridono appresso a lui. Come sempre.

    E mi unisco anche io. Come sempre.

    Johnny è così: trascina tutti dove gli pare. Ovunque. E chi lo sa meglio di me? – Ci vediamo domani a scuola, allora. David, non fare tardi che abbiamo interrogazione di italiano! – Mi fa un cenno. – A presto, Roxy. – E le soffia un bacio con la mano.

    Scuoto la testa: Roxy ha trattenuto il respiro e da come si è irrigidita, ha anche trattenuto l'istinto di allungare il braccio per afferrare il bacio volante. – Ci vediamo in sala prove.

    Johnny gira sui tacchi e si allontana.

    – Allora, chi viene con me? – Stefano batte sul tettuccio della Panda ingombra di strumentazione.

    – Io ho lo scooter. – Indico il mio Aprilia Amico incatenato al palo più vicino.

    Stefano si volta verso Roxy.

    – Grazie, Ste', mio padre mi viene a prendere tra un po'.

    Lui apre la portiera e si infila in macchina. Mette in moto e dà due sgasate per farla carburare.

    Gli busso sul finestrino e apro la portiera del passeggero. Non posso lasciare questa cosa in sospeso. – Ste', senti. – Deglutisco. – Scusa per prima, non volevo offenderti o insultarti. Storco le labbra.

    Mi sorride con la cicca appesa alle labbra. – Lo so che non sei uno stronzo. Però neanche io sono un coglione. – Sbuffa il fumo tra i denti. – Se vuoi essere il leader, devi difendere la tua band. Capito?

    Annuisco.

    Lui dà un colpo di clacson e si stacca dal marciapiede.

    Libero lo scooter dalla catena e lo sposto giù dal marciapiede.

    Roxy è stata a un passo da me, senza dire una parola.

    La strada è vuota, illuminata dai lampioni gialli.

    Monto in sella. – Allora? Che ne pensi?

    Sobbalza, strappata dal flusso dei suoi pensieri. – Che ne penso di cosa? Del Music Heroes?

    – Sai a cosa mi riferisco.

    Si morde il labbro inferiore. – Stai pensando a Johnny, vero?

    – Sì. Stasera era strano già prima del concerto.

    Lei sospira. – Non era quello di sempre. E poi, l'errore che ha fatto nel bel mezzo del suo assolo… Non me lo sarei mai aspettato da lui.

    – Capisco che uno possa essere pensieroso, che possa distrarsi, ma non è una cosa che succede a Johnny. – Scuoto la testa. – Suono con lui da anni, da quando ci siamo conosciuti e abbiamo fondato il gruppo, e ti posso assicurare che non ha mai toppato una cosa del genere.

    Tu cosa ne pensi? – Roxy fa un passo verso di me. – Credi che sia invischiato in qualche affare losco?

    Ora tocca a me aggrottare le sopracciglia. – Cosa intendi?

    – Beh, sappiamo com'è Johnny. Non è che… Tira su con il naso. – Non è che si droga?

    La mia mandibola casca fino all'ombelico. Scoppio a ridere.

    – Eddai! È la prima cosa che ho pensato. – Roxy china la testa in imbarazzo.

    – Uno sbaglia un assolo e tu già lo vuoi portare in comunità! – Non riesco a smettere. – E se si fosse scordato del concerto, avresti chiamato la DIGOS?

    – Fanculo, David. Non sai neanche che cos'è la DIGOS!

    Mi asciugo le lacrime. – Scusami. Singhiozzo un paio di volte per rimettermi in sesto. – Però hai ragione su una cosa. Stasera non era lui. Non vorrei che stesse passando un brutto quarto d'ora a casa.

    – Suo padre è rientrato dal Kuwait, vero?

    – Sì, pochi giorni fa. Ma non so nient'altro.

    Ci guardiamo negli occhi. Non c'è bisogno di aggiungere altro: la situazione a casa di Johnny non era delle più felici e lui ne aveva pagato le conseguenze in modi che solo io conoscevo a fondo. Mi metto le mani in tasca. Una brezza fredda scompiglia i capelli di Roxy e lei rabbrividisce.

    – Cosa ne pensi della storia dell'ingaggio? – Tiro su con il naso.

    Alza le sopracciglia. – Ah, il locale misterioso di Johnny… A me sembra una stronzata.

    – Anche tu la pensi così, eh? Mi sistemo meglio sulla sella – Tutta questa storia mi sa di fuffa.

    – Davvero non ti ha detto niente?

    – No, neanche un cenno. E una trattativa con un locale grosso non si risolve con una chiacchierata al telefono. Chissà da quanto tempo va avanti questa storia.

    – Sempre se è vera. – Roxy solleva un dito.

    – Sempre se è vera.

    Dal fondo della via, due fari fanno capolino e vengono verso di noi.

    Roxy scruta il veicolo in arrivo e alza il braccio. Il conducente lampeggia di rimando.

    – È mio padre! – Si strofina le mani e si riavvia i capelli. – Ci vediamo domani in sala prove, ok?

    – Certo.

    L'auto accosta e lei apre lo sportello.

    Mi piego e faccio un cenno di saluto all'uomo al volante. – Buonasera, signor De Mauro!

    – Ciao, David. Tutto bene, stasera? – Il padre di Roxy si sporge verso il sedile del passeggero per guardarmi. Ha un sorriso gioviale sul volto pieno e gli occhi brillano dietro gli occhiali di metallo sottile.

    Roxy si accomoda nella Mercedes.

    – Alla grande! Roxy è stata fantastica.

    Roxy socchiude gli occhi per l'imbarazzo.

    Ops… Mi rendo conto troppo tardi di quanto sia equivocabile una frase del genere e non è certo da pronunciare al genitore di una tua amica. Mi stringo nelle spalle, come una ammissione di coglionaggine.

    Il signor De Mauro ridacchia e si rimette al posto di guida. – A presto, David. – La macchina sparisce lungo la strada.

    Mi metto in sella all'Amico e mi avvio anche io verso casa. La strada mi scorre ai lati, i palazzi sono delle macchie semi illuminate alla periferia del mio campo visivo. Il freddo mi taglia il volto. Novembre sta per finire e un bel prologo di dicembre mi sta scorrendo sulla pelle.

    Johnny popola i miei pensieri. Domani a scuola gli romperò le palle fin quando non sputa il rospo e non mi racconta tutto. Perché su una cosa Roxy ha ragione: c'è qualcosa che non va e non sopporto di non esserne a conoscenza, non dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme, non dopo quello che io ho fatto per lui. L'idea di essere stato tagliato fuori da una sua decisione, che per giunta coinvolgeva l'intera band, mi fa incazzare senza mezzi termini. E ancora di più mi fa imbestialire l'idea che lui stia passando un brutto quarto d'ora e non mi abbia raccontato niente. Non è così che ci si comporta con un amico, e ancor di più con il tuo migliore amico. Johnny, domani non scappi. Dovessi anche prenderti a schiaffi, mi racconterai tutto. Stronzo.

    A casa, entro in punta di piedi e al buio mi rintano in camera. È tardissimo e domani c'è anche l'interrogatorio di italiano. Io odio la letteratura italiana, e soprattutto quella checca isterica di Foscolo e le sue lettere di cazzo a Jacopo Ortis. O era Jacopo che scriveva a Foscolo? Non lo so. Comincio a temere l'interrogazione di domani.

    Spero proprio che il professor Ferri non mi chiami.

    È l'ultima cosa che penso prima di dormire.

    Capitolo 01 – How Can It Hurt (Marillion, 1991)

    3

    Il trillo della campanella della prima ora si esaurisce e il professor Ferri abbassa lo sguardo sul registro alla ricerca del condannato da mandare al patibolo. Vito Persi in prima fila guarda davanti a sé, il libro di letteratura aperto sul banco a dimostrazione di quanto sia secchione.

    Dal fondo della classe, gli lancio una pallina di carta masticata. Il proiettile atterra tra le ciocche e lui, ignaro, continua a leggere (o fa finta di leggere, probabilmente lo conosce a memoria, quel libro di merda) il manuale.

    – Peruzzi? – Il prof scandaglia il banco vuoto accanto al mio, quello di Johnny.

    Abbasso lo sguardo, per non incrociare il suo. – Con questi professori, se mostri un segno della tua esistenza, ti condannano all'interrogatorio senza pensarci due volte.

    – Ah, assente. Peccato. – Ferri si rivolge a me. – Granderi, se lo vedi, riferiscigli che la sua situazione è piuttosto seria. Sì, proprio seria. Si gratta il mento. – Per lui vedo una bella insufficienza. Sì, proprio bella.

    Bella un corno. – Certo, professore. – Prego il dio benevolo che protegge gli studenti impreparati che gli occhi di Ferri si spostino verso altri poveri sfortunati.

    Il prof torna a guardare il registro. – Ah, ecco qua. Salieri! Che ne dici? Vieni qui a chiacchierare con me di Foscolo? Sì?

    Due file avanti alla mia, Carlo Salieri china la testa. – Dalla profondità dello sguardo con cui sfida il prof, si intende che per lui Foscolo è il centravanti della Sanbenedettese. Beh, poco male, per me è il frontman di un gruppo di musica neomelodica e quindi meritevole di essere ignorato.

    Prendo la matita e scrivo sul banco Despite of my rage, I'm still just a rat in a cage. Traccio un rettangolo intorno al verso. Grande Billy, hai riassunto la mia esistenza.

    Johnny mi aveva fatto scoprire gli Smashing Pumpkins, lo stesso Johnny che ora non occupa il banco accanto al mio, come invece fa ogni giorno da quando ci siamo iscritti all'ITIS Majorana quattro anni fa. Perché ha fatto sega senza avvertirmi?

    C'è qualcosa che non quadra.

    Prima non mi racconta dei suoi contatti e ora mi lascia solo in classe a rischiare l'interrogatorio. Non è da lui. Da sempre abbiamo fatto queste cazzate insieme, perché in due è più divertente che da soli. E invece, ora…

    In cosa ti sei cacciato, Johnny?

    Sul banco di Johnny c’è una scritta lungo tutto il bordo superiore: I DON'T WANNA BE BURIED IN A PET SEMATARY, da una canzone dei Ramones. Passo il dito sulle ultime lettere di sematary.

    Che ti stanno facendo a casa?

    Storco la bocca. Non mi piace pensare a queste cose. Sicuramente non sta succedendo niente, Johnny è in giro a fumare, oppure ieri si è ritirato così tardi che stamattina non ha sentito la sveglia e ora è ancora sotto le coperte a ronfare. Lo troverò all'uscita dalla scuola e ce ne andremo a suonare come sempre.

    – Torna a posto, Salieri. Foscolo te ne sarà grato. – Il prof scrive sul registro. – Vediamo chi altri ancora può torturare il povero Ugo. Apre la bocca per designare il successivo condannato, ma qualcuno bussa.

    Il prof alza lo sguardo verso la porta. – Avanti!

    Il preside Trendeleburg, enorme più di Stefano, ma biondo e con un paio di baffetti da sparviero che urlano la sua origine teutonica, occupa l'intero vano della porta. – Buongiorno, Professor Ferri. Scusate l'interruzione.

    Ci alziamo in piedi con un gran rumore di sedie che scorticano il pavimento.

    – Buongiorno, signor Preside.

    Si rivolge alla classe. – Sono qui per Granderi David. È qui?

    Oh, cazzo. Che ho fatto stavolta? Alzo la mano dal fondo della classe. Sarà per le scritte sui banchi? O per quelle nei bagni? – Sono io, signor Preside. – Ma sono solo versi di canzoni! Rendono gli ambienti più vivibili! Dovrebbero ringraziarmi.

    – Bene. Seguimi nel mio ufficio.

    Perché? Gli sguardi dei miei compagni mi setacciano alla ricerca della cazzata che mi sta portando dal Preside. Vito dà di gomito ad Alessandro, il suo compagno di secchionaggine. – Stavolta lo sospendono.

    – Sicuro! Gli fa eco l'altro.

    Andate a fanculo saltellando!

    Seguo il Preside fuori dall'aula e ci dirigiamo nel suo ufficio. Ho sempre immaginato la ramanzina accondiscendente su come sia bello essere bravi ragazzi, non combinare guai, su come poi certe cose crescendo chiedono il conto, eccetera eccetera. Ma non mi dice niente fino alla porta con la targhetta Preside Trendeleburg. La apre e mi fa accomodare.

    Mi siedo con la schiena dritta. Trendeleburg si lascia cadere sulla sua sedia dallo schienale altissimo. Alle sue spalle, appesa al muro, c'è una gigantografia della nostra scuola, incastonata in mezzo a palazzotti e case a schiera. Utile, soprattutto se ti vuoi ricordare in ogni momento in che posto orrendo lavori.

    Il Preside si appoggia con i gomiti sulla scrivania.

    – Granderi. Ero sicuro che prima o poi saresti arrivato qui.

    Non muovo un muscolo. In attesa. Che vuoi da me?

    Giunge le mani davanti al naso e alla bocca. – Qui all'ITIS Majorana ne abbiamo avuti, di studenti turbolenti. E tu, onestamente, non sei neanche tra i peggiori. Hai buoni voti in elettronica, scrivi decentemente e la matematica non ti è completamente oscura. – Mi fissa.

    – Signor Preside, se è per…

    Solleva un dito e mi zittisce. – Non dire niente, per favore. – Stringe le labbra fino a farne due linee sbiancate.

    Sempre più strano. Il Preside non è incazzato, non vuole buttarmi fuori dalla scuola, picchiarmi o tutt'e due le cose insieme. È preoccupato. Nervoso. E il suo nervosismo mi striscia sotto la pelle. – Che sta succedendo? – La mia voce è sfilacciata, come una chitarra con le corde mosce.

    Non mi stacca gli occhi di dosso. – Tu e Gionata Peruzzi eravate molto uniti.

    – S-sì. È vero. È praticamente mio fratello!

    Che hai combinato, stavolta, Johnny? Ehi, un momento: eravate?

    – Purtroppo, abbiamo appena ricevuto la notizia che Gionata Peruzzi non c'è più.

    Sbatto gli occhi. – Ha cambiato scuola?

    – No, David. Non ha cambiato scuola. – Trendeleburg ha gli occhi lucidi. – Il tuo amico è morto.

    Precipito. Il cuore batte all'impazzata e sono assalito dalle vertigini. La scrivania del preside si contrae e si gonfia. Mi accascio contro la sedia.

    Morto.

    Johnny. È morto.

    – Tutto bene, David?

    Come posso, per l'amore di Dio, processare un'informazione del genere? Cosa può significare?

    Morto.

    Non è una cosa logica. I nonni muoiono. I vecchietti che danno da mangiare ai piccioni vicino alla Chiesa un giorno ci sono, l'altro no, e al posto loro compare un manifesto appeso al muro. Si dispensa dalle visite.

    Una cosa del genere non succede a un ragazzo di diciassette anni come Johnny, con tutti i suoi progetti davanti, i suoi sogni e quello che ci riempie la vita alla nostra età. Non dopo che avevamo stipulato il Patto.

    Non è ammissibile.

    – So che è terribile, per questo ho voluto prenderti in disparte, David. Il preside allunga la mano. – Temevo che l'avresti saputo in malo modo, da qualche tuo compagno di classe. – La sua mano è ancora tesa verso di me. Si aspetta che gliela stringa?

    – Non so cosa dire.

    E allora stai zitto, idiota!

    – Se vuoi, posso accordarti un permesso e lasciare la scuola. – Ritira la mano. – Se non ti senti tanto bene, intendo.

    Mi prende per il culo? Che cosa significa: se non ti senti tanto bene? Sto di merda! Johnny. Johnny! È! Morto!

    Non riesco neanche a pensarla, una cosa del genere.

    Mi alzo. – Signor Preside…

    Trendeleburg mi segue con lo sguardo.

    – Meglio che vada a casa. Non credo di poter seguire le lezioni. – Deglutisco un grumo amaro di saliva. Gli occhi mi bruciano.

    – Sì, certo Ti compilo il permesso. – Prende un foglio e ci scarabocchia sopra la data di oggi – 22/11/1995 - e una firma che tutto può essere tranne il suo cognome.

    Mi alzo in piedi con il foglietto in mano.

    – Aspetta un momento, David. – Trendeleburg porta la cornetta del telefono all’orecchio. – Avverto i tuoi genitori che possono venire a prenderti. – Scorre con un dito una rubrica e compone il numero di casa mia. – Sta squillando. – Annuisce verso di me. – Pronto? Signora Granderi? … Buongiorno, sono il Preside Trendeleburg, la chiamo dal Majorana… No, no, non si preoccupi, non è successo niente a David… E no, non ha fatto nulla.

    Anche tu, ma’?

    I Preside attorciglia al dito il filo del telefono. – La chiamo perché Johnny Peruzzi purtroppo è venuto a mancare… No, non sappiamo cosa sia successo. Gliel’ho già detto, David sta bene. Non è accaduto qui a scuola, no… Signora, la prego mi lasci finire. – Volge gli occhi al cielo.

    Ti capisco, Preside. La mamma è fatta così: va sempre come un treno senza freni lanciato in discesa.

    – Le stavo dicendo che suo figlio può uscire prima oggi, vista l’eccezionalità dell’evento… Sì, è qui, glielo passo.

    Mi porge il telefono.

    – Pronto, ma’? – Dall’altra parte, il pianto sommesso di mia madre. Mi si rivoltano le viscere. – Mamma?

    – Sì, tesoro, scusami. Sono un po’ sconvolta.

    Un po’? – Anch’io.

    – Vuoi che venga a prenderti?

    – No, ma’, ho il motorino. Non preoccuparti.

    – E come faccio a non preoccuparmi? Sai cosa è successo?

    – Non so nulla. Ci vediamo più tardi a casa, ok?

    – Sicuro che non vuoi che venga lì? – Un altro singhiozzo. – Non voglio che tu stia da solo.

    – Non sono mai da solo, ma’.

    – Ok. Non farmi stare in pensiero. – Le ultime sillabe si sciolgono in un pianto a dirotto.

    – Ma’, tanto sei sempre in pensiero. – Spero di farla sorridere. – Ti ripasso il Preside.

    Porgo la cornetta a Trendeleburg. – Signora Granderi? – Si stringe nelle spalle. – Ha riagganciato. Rimette a posto il telefono. – Vai a casa da solo? Posso fidarmi?

    – Preside, faccio quella strada tutti i giorni, credo di essere in grado di farla anche oggi.

    – Forse hai ragione. Ma questa notizia ci ha reso tutti un po’ più preoccupati. – Si appoggia allo schienale e giunge le mani sotto il mento. – Non hai la minima idea di quello che può essere successo al tuo amico, vero?

    Mi scruta con gli occhi, come se potesse vedermi sotto i vestiti, sotto la pelle, e ancora più giù fino alla mia anima, spezzata e lacerata.

    – No, Signor Trendeleburg.

    – Sono sorpreso tanto quanto voi.

    – Magari frequentate persone poco raccomandabili?

    Cos’è? Vuole farmi l’interrogatorio? Preferivo Ferri e il suo Foscolo. – No. Sempre gli stessi ragazzi. Nulla di eccezionale.

    – E va bene. Puoi andare. Stai attento.

    Annuisco. – E voi cosa sapete? Com’è accaduto?

    Lui scuote la testa. – Non sappiamo niente neanche noi, David. Abbiamo ricevuto solo la triste notizia. Nient’altro. – Si passa una mano sui baffetti chiari. – Spero che sia stato un incidente.

    Anch’io, perché non oso pensare alle alternative.

    Avvolto in un'aura crepuscolare, torno in classe.

    Qualcuno mi chiama, un altro mi tira per la manica della felpa, il professor Ferri mi chiede cosa sta succedendo. – Vado a casa. – È l'unica cosa che serve che sappiano. – Ho il permesso. – Alias non mi devono rompere le palle.

    Voglio scappare da lì.

    Raccolgo lo zaino da sotto il banco.

    Despite all my rage, I'm still just a rat in cage. Grazie, Billy.

    Passo la mano sulla scritta incisa sul banco di Johnny. Che hai combinato, stavolta? Dove sei andato a cacciarti?

    Lascio l'aula, la scuola, la realtà come la conosco.

    Tutto si è ribaltato e rivoltato su sé stesso.

    Sull'Amico, in mezzo al traffico delle dieci del mattino, una lacrima mi scivola lungo la guancia e vola via.

    Colpa del vento.

    Mi dirigo verso l'unico posto che mi può accogliere adesso e dove posso sperare di trovare un ordine a questo casino che mi ha investito.

    La sala prove è a pochi minuti lungo la strada.

    4

    Fermo di fronte al portellone rosso numero 27, sospiro. Il senso di malessere che mi attanaglia lo stomaco non se ne va.

    Entro in garage e qualcosa dentro di me si aspetta che ci sia Johnny stravaccato sul vecchio divano.

    Accendo la luce: la sala prove è deserta.

    Storco la bocca, scosso da un singhiozzo sommesso.

    Niente Johnny. Né lì né altrove.

    Mi richiudo il portellone alle spalle e mi siedo sul divano. Poggio i gomiti sulle ginocchia e mi tengo la testa fra le mani, invasa da un turbinio di pensieri incontrollabili.

    La sala prove è spettrale: lo striscione con la scritta Dawn of Destruction pende come una benda troppo lenta per tutta la lunghezza della parete.

    Odio scrivere in inglese! Era già la seconda volta che Stefano sbagliava l’ortografia di Destruction. Sembrano lettere messe insieme a caso! E Johnny, con la bomboletta in mano, ridacchiava. Ringraziami se il nome è breve. Il tizio che paga per questo garage. E indicava me. Aveva scelto Ornaments for a dead bride.

    Ed era vero! Era uno dei primi nomi con cui avevamo deciso di chiamare la nostra band, quando ancora eravamo solo io e Johnny.

    Sotto lo striscione c'è la pedana per la batteria: su quel pezzo di pavimento abbiamo stipulato il Patto, in mezzo alla polvere. E proprio come qualche mese fa, mancano tutti gli altri strumenti, accatastati nella Panda.

    La desolazione della sala prove senza strumenti è ancora peggiore: non mancano solo gli strumenti, ora mancano le persone. Non è come un corpo senza organi, ma è come un essere vivente senza anima, uno zombie in decomposizione che non conosce il perché si trova al mondo.

    Mi stendo sul divano e con il braccio sugli occhi mi abbandono a quest'oscurità artificiale e morbida.

    Non essere stronzo, David, abbiamo una missione da compiere.

    La voce di Johnny mi rimbalza nella testa e mi riporta a tre anni prima, quando eravamo solo io e lui, e la band era un'idea dai contorni confusi. Mi sembrava un tipo così strano. I capelli lunghi gli scendevano sulle spalle, la maglia dei Megadeth gli cascava addosso come una vela senza vento con il bordo che arrivava fino a metà coscia dei jeans strappati. L’occhio destro era circondato da un alone giallognolo, i resti di un incontro troppo ravvicinato con suo padre.

    Io tentavo di strappare una melodia dalle corde della chitarra classica. Missione un corno. Non riesco a mettere insieme tre accordi senza incasinarmi. Vorrei distruggere questa chitarra.

    E fallo. Il sorriso che gli scoprì i denti era diabolico. E irresistibile.

    Ma che cazzo dici. Non è neanche mia.

    L'hai tirata fuori da un armadio dove era stata dimenticata. Ed è pure sfondata.

    Me la rigirai sulle ginocchia: il buco sulla cassa era frastagliato e inequivocabile. Non posso.

    E dai, non essere stronzo, David. La nostra missione è diventare delle Rockstar. E sai

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