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Nel cuore del centro storico: Una vecchia indagine di Matteo De Foresta
Nel cuore del centro storico: Una vecchia indagine di Matteo De Foresta
Nel cuore del centro storico: Una vecchia indagine di Matteo De Foresta
E-book230 pagine3 ore

Nel cuore del centro storico: Una vecchia indagine di Matteo De Foresta

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Info su questo ebook

Matteo De Foresta è un giornalista quarantenne, divorziato ed eterno Peter Pan. Vive e lavora a Genova e la sua esistenza si trascina tra il lavoro che svolge controvoglia, le partite di calcetto e lo stadio assieme ai suoi amici Bruno e Andrea. In pochi giorni, però, la sua vita cambierà del tutto e si troverà costretto a fare un viaggio dentro al cuore. Nel suo, ma anche in quello del centro storico di Genova: quando una donna affascinante, un omicidio e lo strano suicidio di una prostituta cambieranno per sempre la sua vita. E mentre farà i conti con il suo passato e la sua idea dell’amore, rischierà la vita e si troverà coinvolto in un’indagine intricata e pericolosa della quale dovrà trovare il bandolo della matassa senza l’aiuto di nessuno, nemmeno del suo grande amico il vicequestore Guido Rocchetti.

Marvin Menini è nato a Genova il diciotto febbraio 1971. È laureato in Medicina e Chirurgia, e specialista in Ortopedia e chirurgia della mano. Svolge il proprio lavoro presso un importante ospedale genovese. È appassionato di cucina, poker e letteratura noir. Ha giocato ventitré anni a Pallanuoto e adesso di dedica al Crossfit. Nel 2012 ha pubblicato in self publishing una raccolta di racconti noir dal titolo Semi Neri su HYPERLINK, partecipando al concorso “ilmioesordio 2012” e giungendo in semifinale. Nel 2015 ha pubblicato sempre su HYPERLINK il romanzo Nel cuore del centro storico, la prima avventura di Matteo De Foresta, ed ha partecipato al concorso “Ilmioesordio2015”. Il libro è arrivato in finale, selezionato assieme ad altre 50 opere da scuola Holden. Pubblicato anche su Amazon in e-book, Nel cuore del centro storico ha venduto dal 30 luglio 2015 ad oggi più di 4000 copie. Nel settembre 2015 ha pubblicato in self publishing su Amazon un racconto lungo, sempre con protagonista Matteo De Foresta, dal titolo Sangue sul Fiume. Nel gennaio 2017 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la seconda avventura di Matteo De Foresta, Poker con la morte. Il romanzo è arrivato al primo posto, nella settimana di Ferragosto 2017, nella classifica assoluta dei best seller di Amazon. Il 24 ottobre 2017 ha pubblicato un proprio racconto sul “Secolo XIX” di Genova – Edizione del Levante. Ha partecipato nell’ottobre 2017 alla raccolta della Fratelli Frilli Editori Una finestra sul noir, con un proprio racconto. Nel febbraio 2018 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la terza avventura di Matteo De Foresta, I Delitti dei Caruggi. Il romanzo è rimasto nella classifica assoluta Top 100 dei best seller di Amazon, categoria Gialli e Thriller, fino a giugno 2018. Collabora regolarmente con i propri racconti al Blog “Racconti Scontati”, gestito da Elisabetta Miari. Nell’ottobre 2018 ha pubblicato un racconto nell’antologia 44 Gatti in Noir edita da Fratelli Frilli Editori. Nel gennaio 2019 ha pubblicato sempre per Fratelli Frilli Editori la quarta avventura di Matteo De Foresta, I Morti non parlano. Complessivamente, le avventure di Matteo De Foresta hanno venduto più di ottomila copie in digitale e duemila in cartaceo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788869434082
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    Anteprima del libro

    Nel cuore del centro storico - Marvin Menini

    1.

    Alla fine ci siamo.

    Che tristezza mi fa dentro quel vestito, stipato come una sardina in un barattolo. Se dovesse scappargli uno starnuto, compresso com’è, il bottone della patta potrebbe saltare dritto nell’occhio della nonna in prima fila. A pensarci bene non sarebbe così male: tutti al pronto soccorso con la vecchia in un lago di sangue, e addio al matrimonio.

    Conosco Andrea Ferrando da ben venticinque anni e posso scommetterci, quella faccia non esprime commozione né tensione: è solo il ritratto della paura.

    Andrea è l’ultimo dei miei amici ad aver resistito alla malattia dell’anulare, ed ero proprio convinto che almeno lui ce l’avrebbe fatta. Tifavo per Andrea da quando Bruno Cevasco, che adesso è seduto in chiesa nella mia stessa fila, solo due posti più in là, aveva capitolato. Amaro scherzo del destino: a dividerci su questa panca, come negli ultimi due anni, c’è la sua adorabile mogliettina con la solita smorfia incolore. Sono indeciso se tirarle una gomitata oppure pestarle un piede.

    Bruno è, assieme ad Andre, il mio migliore amico: un tempo giocava a pallanuoto ed era il top gun della mia compagnia in fatto di conquiste. Alto, schiena scolpita, capelli lunghi e castani, non gliene scappava una, e adesso che ha perso quasi tutti i capelli si ostina nonostante tutto a sfoggiare un’improbabile coda dalla stempiatura troppo alta. Dal fisico poi, si direbbe più un giocatore della squadra olimpica di tombola o freccette. Della gioventù a Bruno resta solo lo sguardo irriverente di sempre, adatto più a uno spadaccino senza meta piuttosto che a un ingegnere informatico con qualche chilo di troppo.

    Parte la musica e inizia la farsa, va’, definiamola pure tragedia. Gli invitati si voltano all’unisono verso il portone della chiesa. Sembra di essere al Louvre, con gli astanti incantati di fronte alla Gioconda. E invece, al posto della Monnalisa, c’è lei.

    Devo ammetterlo: avevo anch’io una bellissima espressione idiota sulla faccia nove anni fa, quando ho sposato Monica Martini, ma almeno io avevo una scusante. Sono stato il primo della mia compagnia a contrarre la malattia dell’anulare. Non c’era nessuno che mi dicesse: Ma che stai facendo? Sei matto?. Andrea invece ha avuto me e il mio esempio. Si è vissuto la mia separazione, il divorzio, le liti per ogni singolo e insignificante oggetto. Uno sano di mente ci sarebbe arrivato, ma d’altronde quale uomo può essere giudicato sano di mente di fronte a una donna?

    Il supplizio giunge al termine, la frittata è fatta: Andrea ha infilato l’anello al dito. In realtà, mentre lo guardo m’immagino lui che infila con un sorriso a trecento denti il pene in una tagliola. Non vedo l’ora che tutto finisca, in testa ho una sola visione: io che mi gusto fino al filtro una Camel mentre nell’altra mano tengo un rum cooler.

    Purtroppo, c’è ancora un consistente ostacolo ai miei piani.

    Esco con tutti gli altri dalla chiesa e osservo Andrea e il suo carceriere fare le foto con i parenti, la nonna sta benissimo, a quanto pare il bottone della patta ha retto.

    Eccoli! Eccoli! urla qualcuno.

    Immagino che la stessa voce lancerà il Baaa-cio, baaa-cio, baaa-cio a breve, per poi terminare con un originale Evviva gli sposi!.

    Bruno mi guarda, trattiene per l’occasione la sua solita risata scomposta e si avvicina con la mogliettina. Mi mette una mano su una spalla.

    Si vede lontano un chilometro che fingi, fratello. Quando sorridi così, con gli occhi strizzati e le labbra tese, sei finto come le banconote del Monopoli.

    Mi conosci da più di vent’anni. Chi vuoi che se ne accorga oltre te?.

    Andre, ad esempio. Lui sì che ti sgama in tre secondi

    Oh, sa benissimo come la penso. Bruno, sono sei mesi che non gli do tregua. Farà finta di niente, ma se avesse le palle mollerebbe lì la moglie per darmi un bel cazzotto nelle gengive.

    Bruno sospira e abbozza un sorriso scuotendo la testa.

    Non essere catastrofico come al solito. Magari pretende solo che uno dei suoi migliori amici partecipi alla sua felicità. Non è che se a te è andata male non bisogna più sposarsi al mondo.

    Sua moglie Emma, mi pare si chiami così, ci saremo visti dieci volte, annuisce e apre la bocca a vanvera.

    Ha ragione Brù. Ma poi, ti ha fatto qualcosa quella povera ragazza?.

    Vorrei chiederle per quale motivo si prende con me la confidenza che ha con suo marito, e già che ci sono, farle notare che Brù è un nomignolo orribile. Preferisco tacere, non mi va di rovinare la giornata a Bruno, ci manca solo che si debba sorbire la pappardella della mogliettina sugli amici maleducati: guardalodicodaannisonostufachetulifrequentienonmisonomaipiaciutiormainonseipiùunragazzino!

    Dopo qualche istante sono anche obbligato alle congratulazioni. Abbraccio Andrea.

    Cento di questi giorni.

    Lui mi dà una bella pacca sulla schiena e tra un po’ mi rompe una scapola.

    Belìn Ciccio, ammazzati, mi risponde.

    Mi tocca anche complimentarmi con la sposa, la bacio sulle guance avendo cura di rovinarle il fondotinta con le labbra.

    Auguri cara! Sei davvero stupenda.

    Mi ringrazia e prosegue con il giro di saluti. Ed ecco che, degno climax del momento, qualche parente della sposa le mette in braccio un neonato: un grande e raccapricciante classico.

    Ho un concreto bisogno di bere.

    2.

    Dopo quaranta chilometri di curve e statali, il ricevimento non è mai per definizione vicino alla chiesa, arriviamo a destinazione.

    Si tratta di un vecchio mulino affondato nella campagna, in mezzo ai girasoli e a pochi ulivi che sbucano qua e là come peli superflui. È una semplice costruzione dai colori pastello, circondata da un grande prato all’inglese morbido sotto i piedi e profumato di erba tagliata da qualche ora.

    Mi lancio sotto il porticato, verso la postazione aperitivi dove si è già formata la coda per bere. Rubo con destrezza il Negroni a una cinquantenne che porta in testa una specie di pacco regalo natalizio e indossa un vestito troppo corto per quelle gambe traboccanti di varici. Sfodero un sorriso cortese mentre le do una leggera spallata: non voglio passare per infantile, ma la mano al barman l’ho tesa prima io. Riesco quindi a realizzare il desiderio del giorno e mi accendo una sigaretta.

    Il familiare ronzio nella tasca mi scuote dall’estasi della prima boccata di fumo, guardo il display: è Serse, il mio caporedattore.

    Ciao Serse, dimmi tutto

    Sarebbe più corretto dimmi di tutto. Hai visto il buco di oggi?

    Sinceramente, no. Non compro i quotidiani, scrivono un sacco di fesserie.

    Spiritoso. Riesci per caso ogni tanto, non pretendo troppo, dico solo ogni tanto, a essere serio?.

    Impossibile. Ne andrebbe della mia reputazione. Piuttosto, posso sapere quale notizia da Pulitzer avrei bucato?.

    La rapina alle poste di Cornigliano. Un vigile urbano ferito.

    Ti giuro che ho la pelle d’oca.

    Il mio capo grugnisce sonoramente, poi si mette a parlare con voce gutturale, quasi da posseduto, tipica di quando si sta arrabbiando di brutto.

    Senti, Matteo. Non puoi vivere di rendita sul servizio di due anni fa in Porto e sull’amicizia che mi lega a tua madre. La misura è quasi colma. Alla prossima ti spacco in due, e sul serio.

    Non ti arrabbiare, che ti sale la pressione. Scusa. Sincero. Non accadrà più, ok?.

    Me lo sento dire da almeno tre buchi, e circa nove mesi.

    Clic.

    Aspetto che il cellulare si rimetta a squillare. No, non è caduta la linea.

    A chi dicevi che non accadrà più?.

    Nel sentire quella voce il mio cuore accelera di colpo. Mi giro, è proprio lei: Alessandra.

    Anche se qualche ruga sottile inizia a segnarle la fronte e il contorno occhi, i tratti decisi del suo viso esprimono lo stesso carattere e la stessa forza magnetica di quando l’ho conosciuta. E soprattutto blocca sempre il fiato al primo respiro grazie a quell’alone di sensualità che la circonda. Indossa un tailleur smanicato blu pavone e una giacca della stessa tinta che rendono giustizia al suo fisico morbido e senza un filo di cellulite. Rimango a bocca aperta.

    Non ti aspettavi di vedermi, oppure sono invecchiata tanto in due anni?.

    Me lo dice mettendo le mani sui fianchi, come se fosse pronta alla sfida.

    No, non lo sei Ale. Resti sempre la solita figa imperiale.

    Alessandra ride. Ci abbracciamo e lei mi strizza forte, è il suo modo per dirmi che le sono mancato, non ci vedevamo dal matrimonio di Bruno, due anni fa.

    I nostri sguardi si fondono per qualche secondo; una specie di colpo di vento scuote il mio cervello e mi si apre un cassetto in testa dal quale iniziano a volare via un sacco di fotografie.

    Era fine ottobre, quell’anno aveva iniziato a fare freddo prima del solito e il mio amato eskimo ci voleva tutto senza indossare un maglione sotto. Ascoltavo in santa pace il mio walkman, seduto sugli scalini della facoltà di lettere.

    E poi, era arrivata lei.

    Ricordo i suoi capelli, un gioco intricato e complesso di ricci e sfumature di colore tra il noce scuro e il mogano; ricordo i suoi occhi verdi: brillanti, profondi e agitati come il mare della Liguria d’inverno. Nella profondità del suo sguardo sembrava covasse una tempesta dalla quale sarebbe stato difficile scappare e in quel momento, quando la vidi per la prima volta, mi sono sentito come se quella tempesta là, in fondo ai suoi occhi, mi strappasse via, come se quel mare mi si rovesciasse addosso e mi risucchiasse in un vortice. Mi aveva chiesto la strada per la biblioteca e ricordo ancora il gesto sgarbato e sciatto che le avevo fatto con la testa indicandole la direzione. E lei nonostante tutto si era seduta vicino a me, trovava già irresistibili le carogne. Mi aveva tolto le cuffie dalle orecchie per indossarle al mio posto.

    O meglio, aveva arraffato direttamente tutto il walkman. Era già abituata al fatto che nessuno le potesse dire di no.

    Che ascolti?.

    "Bon Jovi, Slippery when wet. Conosci?".

    Sì. Cioè, più o meno. Qualche canzone qua e là. Lo ascoltava una mia amica quest’estate al mare.

    Arricciò il suo meraviglioso naso, appena pronunciato e pieno di personalità, e girò in modo vorticoso la rotella per abbassare il volume.

    Questa è musica che per capirla va sentita alta, le avevo detto, e avevo rialzato al massimo.

    Alessandra si era tolta le cuffie di scatto come se al posto della chitarra di Richie Sambora fosse esplosa una bomba, e me le aveva rimesse in mano. In quel momento mi picchiai di nuovo con i suoi occhi verdi, e quel sentore di muschio bianco che la avvolgeva, lieve e morbido come un foulard di seta, mi fece venire voglia di morderla.

    Ciao, io sono Matteo.

    Io mi chiamo Alessandra.

    Piacere.

    Aveva arricciato le labbra in una smorfia piena di dubbio.

    "Certo che è una musica strana per uno con kefiah e cagnaroa. Che so, mi aspettavo più di trovare i Doors, o qualcosa tipo Bob Marley".

    Beh, le Spice Girls no di certo.

    Si era messa a ridere.

    No, magari quelle no, dai!.

    I Doors si ascoltano a quindici anni. Quando pensi che Jim Morrison sia come un eroe dell’Iliade, hai presente?.

    Sì, ma non capisco.

    Mi ero acceso una Camel e le avevo passato il pacchetto con lo scazzo, ma lei aveva rifiutato.

    Ma sì, dai. Uno di quei troiani coraggiosi e puri che si schiantano da soli contro i greci. È questo che rende grande il mito di Jim, lo consideri l’uomo più coraggioso dai tempi di Ettore.

    Continuo a non capire.

    A quindici anni pensi sia meglio fare come lui. Meglio bruciare che consumarsi lentamente.

    Ah, ora ci sono. Intendi dire che è meglio morire che imborghesirsi e conformarsi alla massa?.

    Proprio così.

    E dopo i quindici anni?.

    Cresci e lo vedi più come un tossico che ha buttato fama e ricchezza nel cesso.

    Mi aveva guardato incuriosita.

    Sei sempre così sarcastico e disincantato?.

    Oh, va’ là. A volte divento pure acido.

    E lo spirito del rivoluzionario, almeno quello, ti è rimasto? O il cagnaro lo metti per abitudine e per mantenere il look?.

    Avevo risposto con un grugnito di disapprovazione che le era bastato per capire che no, non era una moda.

    Ok, ok. Scusa.

    E ricordo anche ogni singolo giorno passato con lei nei tre anni seguenti. Il primo appuntamento di sabato pomeriggio al cinema. Il primo bacio in platea, mentre mi sorbivo un film francese che Guarda, uno come te non può non vederlo. Chi se ne frega del film che scegli, pensai, per baciarti andrei pure a vedere un documentario su quell’odiosa musica jazz.

    Ricordo il primo capodanno passato insieme sulla barca a vela dei suoi genitori, ormeggiata in porto. Ricordo l’anno dopo, con la settimana bianca in Val d’Aosta con la sua compagnia; e poi le vacanze in Croazia con Bruno, Andrea e tutti gli altri, e quelle in Turchia con il sacco a pelo e la tenda.

    Ma ricordo più di tutti quel giorno di novembre, quando dopo tre anni mi disse: Non ti amo più.

    Fuori faceva freddo, il cielo era terso e senza nubi e c’era un sole malato che cercava di scaldare il più possibile e stonava con quella sua frase. Avrei voluto il diluvio universale. Eravamo sul divano sfondato del suo piccolo appartamento da studentessa in trasferta, pieno di disordine, cibi in scatola e con il frigo sempre vuoto.

    Me n’ero andato senza dire una parola, avevo lanciato le chiavi sul divano e mi ero chiuso la porta alle spalle con uno schianto, avevo gli occhi pieni di lacrime. Avrei voluto gettarmi ai suoi piedi in ginocchio, pregarla di non dire così e di non distruggere con quel colpo di cannone in mezzo al petto il mio nuovo e inaspettato sogno borghese di noi due, una casa, tanti figli e il cane scemo che dorme davanti al camino. Intanto so che cosa mi avrebbe risposto: che non credeva al matrimonio e non si sarebbe mai sposata.

    Certo, Ale.

    Non ti saresti mai sposata con me.


    a Cagnaro: eschimo, tipico giubbotto impermeabile utilizzato dai portuali genovesi.

    3.

    Il cellulare cominciò a ronzare in modo ritmico e costante. La ragazza si sedette sul bordo del letto e rispose scorrendo il dito sullo schermo. Un nuovo numero. Un nuovo cliente.

    Ciao tesoro. Sì, sono proprio Judith. Ti hanno detto che sono bella? Davvero? Sei molto carino. No, mi spiace tesoro. Questo fine settimana non ho proprio modo di incontrarti. Facciamo la prossima? Dai, richiamami che voglio conoscerti. E ti prometto che ne varrà la pena aver aspettato.

    Posò il cellulare sospirando. Fissò per qualche istante il muro, quindi un nuovo sospiro. Judith scosse la testa e si mise la mano sulla fronte. Sentì gli occhi velarsi e la gola stringersi per il magone. No, pensò. Non era questo che aveva sognato. Doveva fuggire da quella vita e da qualche giorno sapeva anche come avrebbe potuto farlo.

    Judith entrò in cucina e aprì la finestra per far cambiare l’aria. Inspirò a fondo, la nausea che spingeva dal basso sulla bocca dello stomaco si dileguò assieme all’odore di sudore e sesso. Guardò fuori. Nonostante fosse una notte senza luna c’era abbastanza luce: il lampione del vicolo spalmava sui muri dei palazzi e sulla mattonata riflessi azzurrognoli, intensi e gelidi. Dalla strada deserta non proveniva alcun rumore se non il fruscio che la corrente d’aria creava facendo scuotere i sacchetti della spazzatura addossati al bidone. E poi un miagolio: il gatto bianco della vicina di fronte stava ritto e immobile sul davanzale, con la testa verso la strada, piazzato tra la piantina di rosmarino e il vaso dei gerani. Non l’avesse visto più di una volta leccarsi le zampe, avrebbe creduto che fosse di porcellana. Frisbee, si chiamava. Quante volte aveva sentito quel nome? Frisbee è pronta la pappa! Frisbee scendi! Frisbee non toccare! Lo chiamò, poi schioccò le labbra più volte per attirarne l’attenzione. Il felino mosse l’orecchio destro, alzò la testa di sbieco e subito dopo si disinteressò a quella ragazza dalla pelle color cappuccino e i capelli neri, lunghi e crespi.

    Judith sorrise e si domandò se in frigo ci fosse ancora qualche fetta di prosciutto, ma non per Frisbee. Aveva fame, presto sarebbe arrivato l’altro cliente e non se la sentiva

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