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L'importante è raccontarlo: IL TERREMOTO DISTRUGGE IL CORPO, LA DEPRESSIONE DI-STRUGGE L’ANIMA. QUESTO LIBRO RACCONTA LA MIA RICOSTRUZIONE.
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E-book292 pagine4 ore

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Il Panico e la Depressione sono da sempre visti come degli oggetti oscuri e misteriosi da tenere a debita, possibilmente grande, distanza. Andrea in questo lucido racconto autobiografico ci conduce a conoscere la Depressione vissuta in prima persona, quel Terremoto reale e spirituale che ha sconvolto e cambiato la sua vita. Non sempre in peggio. Non solo in peggio. Quello che sorprende è la moltitudine di emozioni e argomenti trattati. L’amore, la tenerezza, la rabbia, il rancore, la passione, l’incomprensione, la poesia, la musica, il tango argentino, la scienza. Più di un racconto autobiografico quindi, più di un racconto sulla Depressione. Andrea Schinardi nasce a Udine il 5 dicembre 1961. Una infanzia tormentata, che impedisce un sereno decollo alla crescita, ad Andrea suscita un profondo interesse per l’Astronomia, la Musica e la Pittura. Una sera di maggio del 1976 un Terremoto distruttivo, che cancella mezzo Friuli portandosi via 1000 persone, sancisce per lui un destino difficile, complicato, drammatico di cui questo libro racconta una autentica ricostruzione. Adolescente, imploso in un carattere e una esistenza priva di luce, scopre l’attitudine verso la Musica attraverso la passione per il pianoforte. Adulto, scopre la Fotografia, il Tango argentino e la composizione musicale. Il suo motto è: “Il Fallimento non è contemplato”. “La mia Angioletta sulla Luna”, disegno di copertina a cura dell’autore.
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2014
ISBN9788898738502
L'importante è raccontarlo: IL TERREMOTO DISTRUGGE IL CORPO, LA DEPRESSIONE DI-STRUGGE L’ANIMA. QUESTO LIBRO RACCONTA LA MIA RICOSTRUZIONE.

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    Anteprima del libro

    L'importante è raccontarlo - Andrea Schinardi

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    ANDREA SCHINARDI

    L’IMPORTANTE è RACCONTARLO

    Il Terremoto distrugge il corpo, la Depressione di-strugge l'anima.Questo libro racconta la mia Ricostruzione.

    aMICOLIBRO

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    Andrea Schinardi

    L’importante è raccontarlo

    Il Terremoto distrugge il corpo, la Depressione di-strugge l'anima.

    Questo libro racconta la mia Ricostruzione.

    Proprietà letteraria riservata

    l'opera è frutto dell’ingegno dell'autore

    © 2014 AmicoLibro

    via Oberdan 2

    75024 Montescaglioso (MT)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione Digitale: ottobre 2014

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    Che ne sai di un attacco di panico?

    In una ventosa serata d’agosto ho incontrato l’autore del libro, il poliedrico Andrea Schinardi. Parlando, ci interrogammo su come fosse possibile spiegare un attacco di panico senza averlo provato.

    Impossibile concludemmo, dovremmo allegare al libro una compressa per scatenarne uno per poterlo far capire.

    Sì perché il Panico e la Depressione sono da sempre visti come degli oggetti oscuri e misteriosi da tenere a debita, possibilmente grande, distanza.

    Andrea in questo lucido racconto autobiografico ci conduce a conoscere la Depressione vissuta in prima persona, quel Terremoto reale e spirituale che ha sconvolto e cambiato la sua vita. Non sempre in peggio. Non solo in peggio.

    Quello che sorprende è la moltitudine di emozioni e argomenti trattati. L’amore, la tenerezza, la rabbia, il rancore, la passione, l’incomprensione, la poesia, la musica, il tango argentino, la scienza. Più di un racconto autobiografico quindi, più di un racconto sulla Depressione.

    Ma torniamo al quesito iniziale, come capire cosa è un attacco di panico senza averlo mai provato. Leggendo questo libro forse riuscirete a capirlo perché la Depressione e il Panico non meritano distanza e paura ma amore e comprensione.

    E se Andrea con questo libro tende la mano a noi, noi la tendiamo a lui, ed empaticamente, alla fine della lettura ci sentiremo di dover dire Grazie.

    Grazie Andrea.

    Roberto Sanna

    Scrittore e fondatore di AmicoLibro

    5 novembre 2011

    È bello leggerti. Sorrido sempre mentre gli occhi a mo’ di spugna si imbevono del tuo inchiostro per stampare le impressioni nella mia mente e nella mia anima. In realtà provo un duplice godimento: da amica e da professoressa d’italiano oramai attempata.

    5 novembre 2011

    Penso a quando scrivevo, adolescente, e a scuola non superavo il 5+. Mi piace raccogliere il consenso di una professoressa di lettere, mi gratifica, mi imbarazza, mi fa restare alunno, giovane, che è la cosa più desiderata. In questi giorni ho scoperto di non ricordare nulla di grammatica; scrivo senza conoscere le regole, è come sedersi in auto e non poter dare spiegazioni sul perché si riesca a guidare: accade in automatico. Non mi piace. Non ha senso saper comporre la scrittura ma non essere capaci di spiegare perché sia così. Tuttavia fa parte del mio modo d’essere, accade anche nella musica, nella fotografia.

    Sto vivendo un malessere di scrittura, avverto il suo arrivo all’orizzonte, come una mareggiata e so che contiene tante idee che posso sviluppare; mi sto preparando, so che se dovessi iniziare a scrivere sarebbe una cascata incessante di pensiero e potrebbe risultare bello. È una bella sensazione, ma non voglio giocarmela con la fretta. Questa settimana ordino quindici copie del mio librino, così finalmente te ne consegnerò una; non è molto ma almeno è quanto io posso darti, di mio.

    Il 29 novembre 2011 ho iniziato a scrivere; ho terminato l’8 febbraio 2012.

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    PRIMA PARTE: LA MIA VITA DA RICOSTRUIRE

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    Preludio

    Con la solita discrezione mi presentai alla porta e subito il mio collega Vincenzo, facendo cenno con la mano, mi accolse alla scrivania. Mi porse il foglietto, nominando chiaramente la persona che il giorno prima era stata oggetto di discussione. Il Nome mi giunse come se, alla persona, non fosse attribuito un corpo piuttosto una Musica o qualcosa di celestiale. Ringraziandolo caldamente, salutai Vincenzo sillabando volutamente quel prezioso Nome la cui rotondità acustica, ampollosa, già mi proiettava verso la certezza che la persona sarebbe stata Bellissima. Era la prima volta che mi sarei presentato presso questa donna la cui esperienza e reputazione, resa avvincente dal collega, sembrava appartenesse a una Eroina.

    Qualche giorno dopo, il 13 gennaio del 1998, alle ore 17, mi presentai presso lo studio per l’appuntamento. Sapevo che avrei incontrato una donna Bellissima, lo sentivo come se fosse scontato e questo era un problema di cui avrei voluto evitare spiacevoli conseguenze.

    Dal corridoio, suscitata mentre avvicinata, sento una voce decisa, rotonda, poi si apre la porta che fa irrompere la conversazione in modo brusco; escono un signore e una Signorina la quale lo congeda e poi si rivolge a me.

    Lei ha un appuntamento vero? Venga che l’accompagno in studio. Prego, da questa parte.

    La Signorina, Bellissima ovviamente, a cominciare proprio dal suo timbro di voce - Karen Carpenters, 1950-1983 del Duo The Carpenters identificata nel brano We’ve only just begun - indossava un gessato grigio scuro, pantaloni e giacca, un maglione rosa, un giro di perle e coppia di orecchini in accordo; era bionda, capelli lisci, frangetta. Bellissima. Pensai che fosse la segretaria e quindi entrai nello studio pronto a vedere la persona interessata. La Signorina Bellissima, invece, era proprio la persona che mi aspettava. Sembrava una studentessa del liceo, era quanto di più bello ci si aspetta o si spera di incontrare e conoscere, tuttavia quello era il luogo, momento e contesto meno opportuno. La Dottoressa, da quel giorno, sarebbe diventata la mia Psicologa.

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    La terraferma trema ed è abisso, è come se il giorno ci tradisse. È come se l’acqua mentisse e due più due facessero cento e nostra madre ci odiasse e la nostra mano si alzasse contro di noi. Dio ci ha dato tante cose: mele, giorni, addii, legni e la speranza, l’altra faccia della paura. Adesso ci tocca il più segreto e il più prezioso dei doni: la fine.

    Jorge Luis Borges

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    1. IL CROLLO DI UNA VITA

    Musica: Una Serenità Interiore Coltivata Attivamente

    La discesa calibrata della puntina ellittica, con il piccolo pennello anteriore, sembrava fosse un appuntamento piuttosto che un contatto. La puntina, in realtà, si s-posava al vinile e questo lo si capiva dal suono, morbido, discreto, cui seguiva un sibilo impercettibile che soltanto un disco ben curato poteva emettere. Pochi istanti di acustica pulita, che mi rassicurava sull’integrità dell’incontro, e poi il salotto si concertava con me diventando il compromesso fra il prodigio tecnologico svizzero e l’idea che io del mondo fossi Musica.

    Il Chicago 4, a mio giudizio, e dopo ascolti a quattro cifre, resta ancora oggi uno dei migliori concerti registrati di tutti i tempi, fra i primi cinque; volendo contare con una mano sola. Resto ancora oggi dell’idea che durante quell’esecuzione, avvenuta nella settimana fra il 5 e 10 aprile del 1971 alla Carnegie Hall di New York, nel palchetto situato al centro della prima loggia, seduto ricurvo, puntando i gomiti sulla balaustra e il mento alle mani, c’era Dio.

    Se ascoltato in cuffia, di notte, in riverente concentrazione, si ottiene la sensazione che di questo concerto si sia parte in causa; la Musica si vede nell’emissione che la superba stereofonia restituisce come una profondità di campo e tu ci sei dentro. Il vinile, che elargisce un’acustica migliore rispetto a quella fredda del cd, al salotto di casa mia regalava quella partecipazione sonora e visiva, cui si associava il profumo; sì, il profumo, l’effluvio, nemmeno da definire odore, che emanava tutto l’impianto stereo già da un po’ in esecuzione.

    Mi piaceva entrare nei negozi di Hi-Fi, quelli specializzati, che vendevano i componenti singoli, quelli più sofisticati; in quei negozi, dove il calore proveniva dagli amplificatori accesi, il profumo era meraviglioso soprattutto se il pavimento era rivestito con la moquette. Quel profumo, per me, allora ragazzino, era quello della Musica suonata bene e senza fruscio.

    Nano, più grande di me, appassionato di Musica e soprattutto dell’arte di ascoltare un brano percependo la stereofonia, per me era amico e maestro. Nel 1975 furono pubblicati i primi dischi dei Beatles in formato audio stereofonico. Il mio amplificatore - il Revox A78 - dispone del commutatore in virtù del quale si poteva ascoltare, di un segnale stereo, soltanto un canale ma emesso contemporaneamente dalle due casse acustiche. Quando ascoltammo il disco Rubber Soul ci accorgemmo che la stereofonia era davvero distinta, infatti dal canale sinistro si sentivano provenire solo le voci; Nano, che aveva vissuto l’epoca dei Beatles in divenire, possedeva i dischi originali mono e mi ricordo quanto era buffo vederlo spostarsi da una cassa all’altra mentre realizzava la stereofonia dei brani come fosse una scoperta scientifica.

    Ascoltavamo la Musica, dimenticando cosa fosse il resto e a quanto poco potesse servire in quel momento; in realtà, stavamo studiando ogni minimo particolare provenire dalle casse acustiche, cercando poi deduzioni, confronti, paragoni. Se oggi facessimo questa operazione rigorosamente didattica, ci prenderebbero per matti. Ho trascorso anni ascoltando la Musica in questo modo e se non fosse stato per la conoscenza di Nano, oggi sarei un’altra persona. Già a quei tempi comprava dischi, soprattutto rari e bootleg, facendoseli spedire dallo Store di Nannucci con sede a Bologna. Era un privilegio per pochi e il Chicago 4 era un sonoro esempio: un cofanetto rigido che contiene quattro dischi, per quei tempi era fantascienza. Non avevo ancora registrato degnamente questo concerto, dedicandogli il tempo e l’attenzione dovuta, soprattutto perché l’operazione comportava l’uso di una bobina vergine affinché il registratore - Revox A77 -, a due piste, fosse all’altezza delle aspettative. Registrare una bobina, per me, era una forma d’arte, di conservazione storica che doveva durare nel tempo e doveva essere il più possibile affidabile. Per me registrare aveva il sapore di una professione. Volevo che il vinile fosse lucido e privo di carica elettrostatica; pulivo le testine del Revox con l’alcool, poi seguiva la prova dei canali, l’inserimento dei jack in modo da evitare il rumore di massa del giradischi, infine le prove sui potenziometri. Quando avviavo il giradischi Thorens MK126, l’abbrivio era lento, sembrava quasi una fatica e si udiva dal suono della cinghia che muoveva il piatto in virtù di trazione eccentrica; poi la rotazione diventava continua, esatta, e guardavo l’immagine dello stroboscopio che indicava la giusta calibrazione dei giri in virtù di tre segmenti in cui il centrale doveva essere fermo e gli altri due scorrere. Un potenziometro comandava questo assetto, l’operazione era compiuta con doverosa precisione manuale e al giradischi attribuiva un prestigio non comune.

    Premere Rec-Play sul Revox, con indice e anulare, era un evento, qualcosa che alla mia vita dava un senso nobile di cui anche, poco dopo, mi giungeva sempre l’effluvio del nastro mentre veniva avvolto dalla bobina ricevente di destra.

    Un pomeriggio di maggio del 1976 avevo deciso di recarmi da Nano per chiedergli in prestito il prezioso Chicago 4. Abitava al secondo piano dello stesso condominio in cui alloggiavo io, al quarto. Suonare alla sua porta mi procurava sempre un certo imbarazzo, unito a uno spiccato senso reverenziale riposto verso un amico più grande. Aprì lui e subito gli chiesi la cortesia. Mi fece entrare e mi portò in camera dove c’era una ragazza; io avevo quattordici anni, sebbene ne dimostrassi dieci, e loro erano ventenni tuttavia ero sempre ben accolto dai grandi. Mi piaceva la parete che Nano aveva dedicato alla sua discografia, con un mobile a muro bianco dal sapore coloniale, che elencava i dischi i quali, solo a guardarli, si capiva quanto fossero di pregio.

    In quel periodo avevo conosciuto musiche appartenenti al Rock Progressivo e con il Trio Emerson Lake & Palmer era stato subito colpo di fulmine; Nano invece a quella Musica era avverso. Sfilato dallo scaffale il cofanetto Chicago 4 si rivolse alla ragazza con ironica severità: Ma lo sai che questo ragazzino si sta convertendo agli Emerson Lake & Palmer?. La ragazza mi guardò ironicamente severa quasi a dire, Ma come hai potuto fare questo a Nano? e poi, ammiccante, sorrise. Nano mi consegnò il cofanetto e io lo presi in mano come se fosse un vassoio facendo attenzione che la copertina risultasse in alto e visibile dalla mia parte. Non mi stava consegnando dei semplici dischi ma qualcosa che già apparteneva alla storia, anche alla nostra. Lo ringraziai e tornai a casa con l’ascensore, dietro prudente raccomandazione di evitarne la caduta accidentale e rovinosa.

    Il pomeriggio era estivo e avrebbe suggellato un tramonto indimenticabile. Posai il cofanetto su una sedia del salotto. Avrei dato inizio a un evento che in sé portava il senso di una sacralità che soltanto la mia passione avrebbe potuto nutrire. Il cofanetto profumava di tela rigida e dopo aperto offriva un grande poster, piegato a quadrati, che rappresentava diverse fotografie del gruppo e di ogni singolo musicista. Solo il poster, la sua qualità e la sua efficacia visiva, suggeriva di avere fra le mani un’opera della storia; niente e nessuno, avrebbe mai potuto convincermi che un libro di letteratura avrebbe dovuto essere di maggiore prestigio e significato. Dando luce al primo vinile, porgendogli poco riflesso, controllai la superficie e notai uno strato di polvere; lavai tutti i dischi con acqua tiepida corrente e poi li asciugai con il phon tenuto a debita distanza.

    La discesa calibrata della puntina ellittica, con il piccolo pennello anteriore, sembrava fosse un appuntamento piuttosto che un contatto. La puntina, in realtà, si s-posava al vinile e questo si capiva dal suono, morbido, discreto, cui seguiva un sibilo impercettibile che soltanto un disco ben curato poteva emettere.

    Il concerto dei Chicago, alla Carnegie Hall di New York, inizia con l’accordatura degli strumenti cui segue una strimpellata di pianoforte che conduce infine a quella magica sequenza di accordi, in arpeggio e gruppo di tre, che anche al più idiota orecchio musicale porgono su un vassoio d’argento la sensazione acustica che si tratti di un’apertura, di un Ecco. Ci siamo. È un momento di sospensione, che tu vedi dentro un’acustica ad ampio spettro da cui limpido e solo emerge il raccapricciante Goodevening del Pianista Robert Lamm che suscita l’applauso del pubblico ma smorzato subito dalla voce Cow-boy che mentre srotola una frase promuove enfasi in crescendo terminando con with Chicago!. Solo questo momento, di per sé, è qualcosa di unico che suscita un sussulto all’anima. Restai in piedi, a occhi chiusi, fra le due casse, a formare un triangolo equilatero; lasciai che i brividi circolassero ovunque e diventassero pura libertà al mio udito, sdoppiato, affinché fosse complice e testimone maggiore di quell’inizio sonoro polifonico emesso dalla sezione fiati da cui emerge il Trombone di James Pankow provenire da sinistra. Avevo un ottimo motivo per essere al Mondo, in quel momento, in contemplazione di quel contesto meraviglioso. Niente e nessuno sarebbe mai riuscito a convincermi che io avrei dovuto rivolgere attenzione e dovere all’imminente esame di terza media. Non sarei riuscito a immaginare la mia vita senza la Musica, senza quella passione riposta come fosse una fede. Amavo ascoltare mentre l’udito si premurava della ricerca e ritrovamento di ogni strumento, anche secondario, affinché imparassi il brano a memoria, suonandolo a mente, integrale oppure solo la parte di uno strumento. Era affascinante vivere tutto questo, a occhi chiusi, mentre di me perdevo la percezione fisica sebbene fossi in piedi; avevo un poderoso orecchio musicale che stavo accudendo e nutrendo tuttavia senza saperlo.

    Giunse la sera e cominciò il tramonto.

    L’ora legale, per me, è sempre stata un motivo di benessere. Mi piaceva molto l’astronomia e appena il tramonto iniziava, mi recavo sul terrazzo da cui osservavo il panorama con il binocolo; ma la mia vera attesa era dedicata a poter vedere bene il Sole. Quella sera di maggio 1976, ho visto delle macchie solari all’altezza dell’equatore, a destra. Il tramonto era lunghissimo, beato; il cielo regalava l’arcobaleno con sfumature rossastre e intense. Le rondini, a loro volta, offrivano circonferenze cantate che rasentavano il condominio e tutto l’isolato di fronte. La vita e l’ambiente salutavano il Sole in un’atmosfera prossima all’estasi. Io, fino a quel giorno, contemplavo la vita anche in questi dettagli e ringraziavo sempre il Sole, quando si spegneva all’orizzonte, pur vivendo quel timore costante che il giorno dopo non tornasse. Rimasi sul balcone, con meraviglia, lasciando che lentamente la luce declinasse e poi venne un silenzio totale, come se la Natura avesse tolto all’improvviso il volume.

    Rientrai in casa, dal soggiorno. Erano circa le 20:50. I miei genitori avevano il televisore in camera e mi piaceva trascorrere con loro la serata. Il Telefunken, sintonizzato su Rai2 mentre trasmetteva il film Le 12 seggiole, era posto nell’angolo in fondo a destra entrando, di fronte al letto. Io presi posto sull’angolo sinistro del letto. Avvisai una strana sensazione, come una specie di calo di pressione dandomi un’idea di vertigine. Rimasi solo nella stanza, sempre seduto sullo spigolo sinistro del letto, ma origliando una discussione accesa: mia sorella Elisabetta, che era nell’antibagno, sosteneva di avere visto lo specchio oscillare, ma mia madre attribuì quella sensazione alla stanchezza per lo studio. Mio padre assecondò l’accaduto. Ore 20:59. La discussione mi giungeva ormai ovattata e non ritenevo più fosse interessante.

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    La mia infanzia, innamorato d’Arte

    (Ritorno al passato - Inizio)

    C’è un limite dell’uomo, a parte la morte, che non ci è dato prevedere: l’imponderabile. A meno di nascere, sopravvivere e crescere in zone di mondo avverse, in regime di carestia, è piuttosto difficile che si possa coltivare l’idea della morte in età adolescenziale. Al tempo in cui io sono stato ragazzino, negli anni ’70, la vita era semplice, priva della tecnologia odierna, e si trascorreva quasi tutta la giornata fuori casa. In quegli anni ho dedicato il mio tempo oltre alla scuola, per me inutile, a giocare a pallone e ascoltare Musica. Il Campo Asquini era la mia seconda residenza, tutti i pomeriggi, tutto l’anno, da dopopranzo all’ora di buio. Non era possibile che mi assentassi perché era l’attività per cui sentivo di poter vivere in questo mondo; giocavo bene sia nel ruolo di portiere che di ala destra, avevo ottimi riflessi, il senso della posizione in porta, correvo veloce. Mi piaceva parare in modo plastico e quella solitudine in campo sembrava fosse lo specchio della mia anima. Durante l’inverno si respirava il profumo del terreno umido di nebbia e la porta opposta si vedeva a fatica; era una bella sensazione che mi riconduceva allo stadio di San Siro che spesso veniva coperto di neve d’inverno. Ogni ragazzino tifava la sua squadra, cercava di emulare il suo calciatore preferito e ogni partita, in qualche modo era memorabile: mai vinti, mai stanchi, mai doloranti, rassegnati, sebbene andassimo incontro a rischi di cadute, calci, a volte risse. Si giocava ore intere, senza sosta, compiendo continue accelerazioni visibili nei respiri fumosi dei tardi pomeriggi invernali. Eravamo ragazzini di ceti sociali diversi, tutti con la libertà cucita sulla maglia; avevamo talento, ognuno coltivava il sogno del prestigioso provino in qualche squadra di categoria per realizzare una carriera calcistica nella Juventus, Inter o Milan.

    Al primo buio, che purtroppo d’inverno a Udine giunge presto, si doveva tornare a casa per svolgere il dovere che per me era sempre stata la parte idiota della vita. A casa, da quel momento, non ero più io e soltanto l’ascolto della Musica in salotto sarebbe riuscito a rassicurarmi, a donarmi maggiore serenità, a emozionarmi davvero. Lo studio, anzi l’obbligo di dover imparare per forza, rendeva la mia vita opprimente. Là dove si obbliga un ragazzino a compiere qualcosa già di per sé posta male e in modo severo, si otterrà un risultato uguale e contrario alle attese. Mi ricordo bene le dimensioni del libro di storia di prima media il cui autore era Enzo Biagi: un volume spesso circa quattro centimetri con le pagine scritte con un carattere molto fitto, era la sintesi di una disgrazia per un ragazzino di 12 anni. Il testo era difficile, prolisso, sebbene esaustivo, ma non promuoveva nessuno stimolo, nessuna curiosità che potesse indurmi ad accettare il fatto che avrei dovuto conviverci per mesi e poi altri due anni con i relativi volumi.

    Durante la lettura di una pagina dedicata agli Egizi, scoppiai in lacrime ben consapevole di non possedere le facoltà mentali per apprendere un simile contenuto. Non ho mai perdonato Enzo Biagi per questa stesura storica scellerata, adatta a studenti

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