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Imperium
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E-book240 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Un caso di facile soluzione per Simona Morzenti, giovane e brillante Comandante della Compagnia Carabinieri di Bergamo. Almeno all'apparenza. Perché da subito esso assume una sfumatura imprevista, che la costringerà a lottare col suo passato e a rimettere in discussione il presente e il futuro.
Qualunque sarà l'esito della sua indagine, nulla potrà più essere come prima.


Federico Saccomandi, 52 anni, vive a lavora in provincia di Bergamo, sul lago d'Iseo.
Dopo i lusinghieri apprezzamenti raccolti per "Prima che cada la notte", il suo primo romanzo pubblicato nel 2019, torna in libreria con l'atteso nuovo libro.

 

LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2022
ISBN9791221361803
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    Anteprima del libro

    Imperium - Federico Saccomandi

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    Professor Licitra! Professore!

    Licitra si voltò e vide che, dal fondo del corridoio, qualcuno lo chiamava facendo ampi cenni con la mano. Riconobbe Giampaolo Lamantia, il suo studente più brillante che, a grandi passi, si dirigeva verso di lui. Si fermò e attese che il ragazzo lo raggiungesse.

    Professore, questo è lei, vero? gli chiese Giampaolo molto eccitato, mostrandogli una fotografia pubblicata su una vecchia rivista di architettura.

    Oddio! rispose Licitra infilandosi gli occhiali per vedere meglio. Ma dove hai scovato questa foto? Guarda lì, quanti capelli avevo...

    Quindi è esatto quello che scrivono qui: lei ha collaborato con Vittorio Cefis?

    Ebbene sì rispose Licitra. Sono stato per cinque anni uno dei suoi assistenti. Ma è stato tanto tempo fa.

    Ed è ancora in buoni rapporti con lui?

    Mah, non certo stretti. Cefis si ritirò alla fine degli anni ’70 e da allora ha quasi azzerato i rapporti col mondo. Però ogni tanto ci sentiamo per un saluto. Ma mi vuoi dire cosa ti frulla in quel cespuglio di ricci che chiami testa?

    Ecco professore, dato che non ho ancora scelto l’argomento della tesi e che ho sempre ammirato le opere di Cefis, pensavo che...

    Che potresti preparare la tua tesi su di lui e che io potrei farti da relatore, vero?

    Se la sentirebbe?

    Licitra provava per Giampaolo un affetto quasi paterno, non avrebbe mai potuto dirgli di no.

    Ma certo, ne sarei felice. Sarà un po’ come rivivere quegli anni.

    E pensa che le sarebbe possibile organizzare un incontro fra me e lui?

    La domanda provocò un evidente imbarazzo nel docente, che cercò di abbozzare:

    Per quello non saprei. Cefis ha sempre avuto un pessimo carattere; come dicevo, da anni non vede quasi nessuno. Ci posso provare, ma non ti prometto nulla.

    Fantastico! Grazie professore esultò Giampaolo. Non vedo l’ora di cominciare, corro in biblioteca e comincio a procurarmi dei testi.

    Licitra non fece nemmeno in tempo a salutarlo che già il ragazzo era sparito lungo il corridoio. Si incamminò verso l’uscita e subito si rabbuiò: aveva fatto bene ad assecondare la richiesta di Giampaolo?

    Tutto ciò che gravitava attorno a Vittorio Cefis andava trattato con la massima delicatezza e discrezione, non erano cose da prendere alla leggera. E lui lo sapeva bene.

    Il ragazzo avrebbe rischiato di mettersi in pericolo?

    In fondo, si tratta solo di mettere insieme una tesi sull’opera di uno dei più grandi architetti del secondo novecento, nulla di più pensò.

    Bastava solo fare attenzione.

    Di una cosa però era certo: non avrebbe mai organizzato un incontro fra Giampaolo e Vittorio Cefis.

    I.

    sei mesi dopo

    Licitra guardò distrattamente lo studente che gli sedeva davanti con aria ebete, non ricordava neppure il suo nome: avrebbe meritato a malapena un diciotto, giusto per fargli un favore.

    Ma quel giorno non aveva voglia né tempo di questionare e gli appioppò un ventidue che il ragazzo incassò con un sorriso a tutta bocca. La sua assistente Teresa lo osservò stupita ma lui, con uno sguardo, le fece capire che non era il caso di discutere.

    Era l’ultimo esame della giornata perciò raccolse le sue cose e si diresse alla caffetteria dell’ateneo, dove lo aspettava Giampaolo. Da sei mesi aiutava il ragazzo nella preparazione della tesi, continuando a ignorare con delle scuse la sua richiesta di poter incontrare Cefis. Ma ora le cose erano cambiate e non avrebbe potuto più tirarsi indietro.

    La tensione lo divorava e uscendo dall’aula si dimenticò di salutare Teresa, che ci restò male. Nel corridoio incontrò un paio di studenti che lo salutarono e ai quali rispose a fatica, così decise di tagliare attraverso il giardino e il parcheggio per evitare altri incontri. Per rendere ancora più chiaro che non aveva voglia di parlare con nessuno, inforcò un paio di occhiali da sole.

    Gli ripugnava quello che avrebbe dovuto fare, da giorni si tormentava per trovare il modo di cambiare il corso prestabilito delle cose. Sperava che Giampaolo gli desse retta, evitando di mettersi nei guai.

    Nella caffetteria, come al solito, c’era un grande andirivieni di gente ma individuò subito il ragazzo che si era sistemato a un tavolo proprio davanti al bancone, e lo salutò con un gesto della mano. Gli fece cenno che preferiva sedersi in una zona più appartata. Giampaolo si alzò e lo raggiunse a un tavolo in fondo alla sala, semicoperto da alcuni grossi frigoriferi colmi di bottiglie d’acqua e di bevande.

    Scusami, sai… mentì Licitra. Preferisco mettermi all’ombra, oggi il sole mi dà mal di testa.

    Non si preoccupi professore, qui o là fa lo stesso.

    Il ragazzo era visibilmente emozionato e impaziente.

    Allora, è riuscito a parlare con Cefis?

    Licitra sbuffò e abbassò la testa.

    Che c’è, professore? Non si sente bene?

    No, no … sto bene, non ti preoccupare.

    Qualcosa che non va? Cefis le ha detto di no?

    Ma no, l’ho sentito ieri sera. Ti ho detto che è un tipo particolare, molto eccentrico.

    E quindi?

    È che io … ecco, ci ho pensato e non penso che sia una buona idea. Vittorio Cefis è una persona scontrosa, per niente cordiale. Oltretutto ora è anche molto anziano, non so quanto sia ancora lucido. Credimi: meglio soprassedere.

    Giampaolo non trattenne un cenno di stizza.

    Professore, io non credo a ciò che sento. Lei mi sta dicendo di rinunciare? Adesso che ormai ho scritto due terzi della tesi? Ma è impazzito?

    Ma figlio mio, ragiona: io non ti sto dicendo di buttare la tua tesi. Semplicemente dovrai solo variarne un po’ l’impostazione, senza basarti sull’incontro con Cefis. Guarda, facciamo così: a fine settimana termina la sessione d’esame, mi prendo qualche giorno di ferie e ti aiuto io.

    Giampaolo sgranò gli occhi e alzò la voce: No, professore … io davvero non posso crederci. Aveva accettato di aiutarmi con Cefis, perché ora si tira indietro? Lei sa meglio di me che a questo punto incontrarlo è di fondamentale importanza. Che senso avrebbe altrimenti tutta l’analisi sul significato sociale e antropologico dei suoi progetti? Sarebbero solo sei mesi di lavoro buttato. Mi dica la verità: cosa le ha detto Cefis? Ha accettato di incontrarmi, o almeno di parlarmi?

    Lo disse a voce così alta che molti dei ragazzi seduti ai tavoli vicini gli rivolsero sguardi incuriositi.

    Licitra era in evidente difficoltà. Sì, sì, ha accettato, ma...

    Mi dia il suo numero!

    Ma Giampaolo, ascolta...

    La prego professore, mi dia il suo numero. Per favore, non mi faccia questo.

    Licitra sospirò profondamente, poi prese dalla borsa un post-it giallo su cui era annotato un numero a matita e lo porse al ragazzo.

    Giampaolo tornò a sedersi e lo afferrò.

    È un numero di telefono fisso?

    Sì. Cefis non possiede cellulari.

    Grazie, professore. Mi scusi se mi sono alterato, io capisco che lei è preoccupato che Cefis mi deluda. Ma mi lasci tentare: se l’incontro sarà un buco nell’acqua, allora accetterò la sua offerta e rivedremo insieme tutto il lavoro. Ma io devo fare questo tentativo, lo capisce?

    Licitra annuì, lasciandosi andare sulla sedia come se gli mancassero le forze. Strinse la mano a Giampaolo che lo ringraziò di nuovo prima di uscire a razzo dalla caffetteria. Restò seduto per alcuni minuti con la mente vuota e una morsa allo stomaco. Poi si rimise gli occhiali scuri, afferrò la borsa portadocumenti e uscì nuovamente nel parcheggio, senza salutare nessuno. Studenti e professori seduti ai tavoli lo guardarono stupiti.

    Nel giardino si sedette su una panchina all’ombra, gli mancava l’aria e respirava affannosamente. Non era riuscito nell’intento di dissuadere Giampaolo, lo aveva consegnato alle fiere e sapeva che non lo avrebbe più rivisto.

    Ebbe orrore di sé stesso: non aveva trovato il coraggio di ribellarsi. Tutto per colpa di uno sbaglio, una leggerezza di tanti anni prima. Ora avrebbe avuto sulla coscienza anche la vita di un bravo ragazzo, che aveva l’unica colpa di essersi fidato di lui.

    Come avrebbe potuto d’ora in avanti guardare in faccia i propri studenti? Come avrebbe accettato di farsi ancora chiamare ‘Professore’, sentendosi orgoglioso di essere per loro una guida?

    Sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto.

    Era un vigliacco, un lurido vigliacco.

    Il cellulare squillò, lo prese e rispose.

    Hai eseguito le istruzioni?

    Sì, ma...

    Qualche problema?

    Vi prego disse piangendo. Non gli fate del male.

    L’interlocutore chiuse la comunicazione.

    II.

    E adesso chi cavolo è questo?

    L’enorme portinaia del palazzo di via S. Salvatore si sollevò a fatica dalla poltrona dov’era sprofondata solo pochi minuti prima, borbottando improperi per lo sforzo che le costava alzarsi e perché quel seccatore rischiava di farle perdere l’inizio del suo programma preferito.

    Dalla porta a vetri della portineria aveva intravisto passare una sagoma che si dirigeva verso i piani superiori. Si sporse dal pianerottolo e notò un giovanotto riccioluto che si aggirava con aria smarrita al piano superiore.

    Ohe, giovane! gli urlò dalla tromba delle scale. Si entra così in casa altrui? L’educazione non è più di moda?

    Il ragazzo, imbarazzato, si sporse dalla ringhiera.

    Mi perdoni, non avevo notato la portineria. Ho appuntamento con l’architetto Cefis. Sta al terzo piano, vero?

    Alla portinaia Mafalda già giravano le scatole perché aveva sgobbato tutta la mattina a pulire scale, spazzare il cortile e fare la spesa. Per cui il fatto che un giovane seccatore, per giunta terrone, cercasse di prenderla per il culo la mandò su tutte le furie.

    Ohé, baluba! gridò con la sua voce baritonale. Chi credi di prendere in giro? Forza, andare subito, se no chiamo i Carabinieri!

    Il ragazzo scese alcuni gradini e parve ancora più disorientato.

    Mi scusi signora, ma guardi che io ho veramente appuntamento per le 11:30. Ho parlato personalmente al telefono con l’architetto pochi giorni fa.

    La portinaia pensò a questo punto che il giovane fosse ciucco, oppure che gli mancasse qualche giovedì.

    Ma certo, personalmente con l’architetto … e magari durante una seduta spiritica? Cicciobello, il manicomio sta da un’altra parte.

    Ma che dice? Seduta spiritica? Non capisco.

    Io non conosco altro modo per poter parlare con un morto, per giunta al telefono.

    Il ragazzo sbiancò e gli tremarono le gambe, tanto che la Mafalda temette di doverlo raccogliere di peso in fondo alla rampa di scale.

    Ma come morto? balbettò. E quando sarebbe morto?

    Morto, defunto, cadavere. Capisci? Ormai saranno tre settimane che sta al cimitero.

    Il ragazzo, barcollando, fece ancora due gradini all’ingiù, poi fu costretto a sedersi sulla scala. La Mafalda ebbe paura che gli pigliasse un colpo e cominciò a pensare che forse qualcuno avesse giocato un brutto scherzo al giovane meridionale. Gli tese la mano e lo aiutò a rialzarsi.

    Vieni con me. Mi sa che hai bisogno di un caffè.

    Il ragazzo si fece accompagnare docilmente nella portineria e attese silenzioso la preparazione del caffè. La Mafalda lo osservò, mentre armeggiava con la macchinetta espresso: gli sembrava sinceramente smarrito e un po’ gli fece tenerezza. Gli mise davanti la tazzina e si sedette davanti a lui su una sedia di paglia, che cigolò penosamente.

    Allora, ragazzo mio: prima di tutto, dimmi come ti chiami e da dove arrivi.

    Il ragazzo trangugiò il caffè e parve riprendersi un po’.

    Mi chiamo Giampaolo Lamantia, sono uno studente di architettura di Catania.

    Piacere, io mi chiamo Mafalda e sono la portinaia del palazzo. Cosa ci fai qua a Bergamo?

    L’ho detto. Avevo … o almeno pensavo di avere un appuntamento per incontrare l’architetto Vittorio Cefis. Sto preparando la tesi di laurea sulle sue opere.

    E quindi avresti parlato con lui qualche giorno fa. E chi ti avrebbe dato il suo numero?

    Un mio professore, che è anche il relatore della mia tesi. Lui in gioventù ha collaborato con Cefis e lo conosce personalmente.

    Mah. E potrei sapere che numero hai fatto?

    Ecco, l’ho memorizzato sul cellulare.

    Il donnone inforcò un paio di occhialini da lettura dalla montatura rosa shocking che portava appesi al collo e osservò lo schermo.

    Mai visto questo numero. Non è di questo palazzo.

    Il ragazzo intascò il cellulare con evidente delusione, poi di colpo si illuminò.

    Aspetti, io stamattina ho incontrato Mirella e ho parlato con lei!

    E chi sarebbe ‘sta Mirella?

    Ma come … Mirella, la nipote dell’architetto. Non la conosce?

    Per tua informazione, io sto in questo palazzo da quasi sedici anni e conosco vita, morte e miracoli di tutti gli inquilini. Ti garantisco che l’architetto non aveva nipoti semplicemente perché non aveva fratelli, sorelle né tantomeno figli.

    Ma io l’ho vista uscire da questo portone. Anzi, ci siamo praticamente scontrati qui fuori.

    Hai detto stamattina? Ma non è che era una biondina con un cappottino bianco a fiori rossi?

    Esatto! Proprio lei.

    Ma quale nipote e nipote. Quella era una ficcanaso che si è presentata qui dicendo che cercava un appartamento in affitto. Ho pensato che fosse venuta a fare un sopralluogo per conto di qualche ladruncolo. Volevo persino chiamare i Carabinieri, di questi tempi non si può mica stare tranquilli.

    Giampaolo armeggiò di nuovo con il cellulare.

    Aspetti: mi ha lasciato il suo numero. Provo a chiamarla.

    Ma va … sarà un altro numero farlocco, vedrai.

    Si udirono diversi squilli nel cellulare, poi partì la segreteria.

    Niente, non risponde.

    Che ti avevo detto? Senti un po’, caro il mio Giancoso, ascolta il consiglio di una vecchia strega: tornatene in Sicilia e lascia perdere tutta questa storia. Non so perché, ma qualcuno ha voluto farti un brutto scherzo.

    Ma perché? Non capisco, anche il mio professore aveva detto...

    Se io potessi indovinare la risposta non starei certo qui a lavare scale e ramazzare cortili. Forza ora, fai la valigia e torna a casa da mammà, che io c’ho da lavorare.

    Sì, certo... biascicò Giancoso alzandosi e dirigendosi verso la porta con passo tremolante.

    Guardalo lì pensò la Mafalda mentre lo osservava allontanarsi dalle finestre della portineria. Neanche un ‘grazie’ o un saluto. Ma chi gliela insegna l’educazione a questi del meridione?

    E si rimise sulla poltrona, mentre sullo schermo della TV compariva la sigla del suo programma preferito.

    III.

    Un dio greco!

    Il Capitano dei Carabinieri Simona Morzenti non trovava altro modo di descrivere il ragazzo che stava interrogando da ore: alto, atletico, una cascata di riccioli morbidi e nerissimi che scendevano fin sulle spalle, occhi di un verde intenso. Non aveva avuto occasione di notare il suo sorriso, ma era certa che fosse degno di un attore americano.

    Era sospettato di omicidio, ma lei proprio non ce lo vedeva come assassino: pareva piuttosto un pulcino spaurito, cascato chissà come dal nido.

    Fuori era già buio e Simona si vide per un attimo riflessa nel vetro della finestra: il suo viso era stanco e tirato.

    Simo si promise silenziosamente. Dopo questo caso ti prendi quindici giorni di licenza, cascasse il cielo.

    Il dottor Amidei, il magistrato che conduceva l’interrogatorio, era esperto e sapeva il fatto suo. Usava metodi diretti e aveva una pazienza infinita.

    Allora, signor Lamantia disse Amidei dopo un lungo momento di silenzio, mentre fingeva di sfogliare distrattamente le pagine dell’incartamento. Vogliamo ricominciare? Vediamo se ci siamo scordati qualcosa?

    Il ragazzo era chinato in avanti, con i gomiti sulle ginocchia e le mani sulla testa. Scosse i ricci con un gesto che nel Capitano suscitò un certo fremito.

    Simo, togligli gli occhi di dosso! si ordinò Simona mordendosi l’interno del labbro inferiore.

    Ancora? sbottò il ragazzo Cosa dovrei essermi dimenticato? L’ho ripetuto mille volte.

    E facciamo milleuno.

    Giampaolo Lamantia sospirò rassegnato.

    Da dove comincio?

    Il magistrato si voltò verso Simona.

    Il ragazzo chiede da dove cominciare. Che domande! Dall’inizio. Vero, Capitano?

    Giampaolo le rivolse uno sguardo disperato, ma lei si limitò ad annuire. Quindi si abbandonò sullo schienale della sedia e, dopo l’ennesimo sospiro, ricominciò:

    "Mi chiamo Giampaolo Lamantia, frequento l’ultimo anno della facoltà di architettura dell’università di Catania e

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