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Lettere fra l'erba
Lettere fra l'erba
Lettere fra l'erba
E-book541 pagine8 ore

Lettere fra l'erba

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Info su questo ebook

Un uomo e una donna che avrebbero potuto essere felici, una ragazza alla ricerca della verità sul  proprio passato e sulla madre mai conosciuta. Le reticenze degli adulti, i risentimenti, il dolore che riaffiora... i nodi che si sciolgono.
L'autrice costruisce una appassionante e appassionata storia d'amore e d'amicizia, di crescita e di speranza che avvince il lettore fino all'ultima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2021
ISBN9791220245623
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    Anteprima del libro

    Lettere fra l'erba - Clara Cerri

    XXIV

    I

    Quando la ragazza apre la porta a vetri per entrare nel teatro, una faccia tesa che si alza a guardarla gira per un istante in quello specchio confuso. Sul palcoscenico in fondo i ragazzi seduti in cerchio, coi copioni in mano, hanno già cominciato a leggere la commedia.

    «Rinserra l’uscio, spolvera una sedia e siediti, o creatura celeste!» Esclama l’unico adulto in mezzo a loro, un uomo basso, rossiccio, che tradisce una grande energia già solo nel tendere la mano verso Isabella.

    «Buonasera, Don Marcello le ha detto che... »

    «So tutto di te, fanciulla!» L’uomo ha già smesso di guardarla. «Vola quassù e unisciti a questo nostro convivio del diletto e del sapere, che s’è fatta una cert’ora!»

    Un altro uomo di mezza età, una specie di Harpo Marx senza riccioli biondi e senza pastrano, si alza da una sedia di platea per porgerle un copione e l’aiuta a salire sul palco.

    «Insomma», le sta dicendo il secondo uomo, che la prende in consegna dopo la prova, «secondo me ti troverai bene, si vede che non è la prima volta che reciti, e poi sai, qui da noi nessuno ti lega a un palo se ti dimentichi una battuta, l’importante è che si veda l’impegno.»

    «Lei... tu pure sei attore?»

    L’uomo ride: «Per carità! Io faccio le scene, i cartelloni, sono il factotum della città. Adesso andiamo nella stanza di là e mi dai il telefono e l’indirizzo.» Apre la porta e accende la luce, la stanzetta è tappezzata di foto e caricature.

    «È tanto tempo che esiste la compagnia?» L’uomo cerca qualcosa sul tavolo e nei cassetti.

    «Con questo nome sono sette anni, però in questa sede è il primo anno», l’uomo si volta a guardarla e a un tratto cambia espressione. «Io però ho l’impressione di averti già vista, da quant’è che abiti nel quartiere? Oh, finalmente sei uscita fuori!» Estrae una rubrica azzurra.

    «Mio padre sono tre anni che ci abita, io però fino all’altr’anno sono stata in collegio.»

    «Addirittura, ma allora sei una vera signora! E come farai a mescolarti a noi poveri villani? Non appena sentirai Antonio quando si arrabbia, scapperai via come il vento.»

    Isabella cerca di sorridere, tanto per non rispondere che non è stata in collegio perché è una signora, ma perché le è morta la madre quando aveva tre mesi. «Ma no, perché?»

    «Tanto per intenderci invoca parti del corpo, parenti morti, conseguenze fisiche delle pratiche omosessuali... Ovviamente abbiamo un fior di computer ma io per prudenza mi tengo stretto alla preistoria. Allora, tu esattamente ti chiami Fanciulla, o Creatura Celeste?»

    Lei ride. «No, mi chiamo Isabella Amelia, abito in Via Mantegna 93.» .

    L’uomo alza il viso e la guarda stupito.

    «Non è possibile, ma allora noi ci conosciamo! Ti ho vista nella culla!»

    «Davvero?» L’uomo ha un sorriso tenero e un po’ triste.

    «Sì, ero al tuo battesimo, pensa! Oddio… un momento, tuo padre si chiama Vincenzo e fa il chirurgo, no?»

    «Sì.»

    «E allora non ci sono dubbi! Oddio come sono contento, ma allora tuo padre sta meglio... » Certo che sa proprio tutto.

    «Sì, da un po’ di tempo... », risponde lei incerta. «Già da prima che tornassi a casa.»

    «Ma Antonio... Antonio lo sa chi sei, no?»

    «Non so... Antonio sarebbe il regista? Allora sì, deve averglielo detto il parroco quando mi ha presentata», però a lei non ha detto nulla.

    «Ma pensa te!»

    «Ma perché, anche lui mi conosce?»

    «No, lui non ti ha mai vista... Io sono Riccardo, ho conosciuto tuo padre ai tempi dell’università.»

    Torna a sorridere e per un attimo sotto alla faccia dei quarant’anni e rotti balena un’espressione da ragazzo. «Conoscevo anche tua madre.»

    Un amico di sua madre. È la prima volta che conosce un amico di sua madre. «Allora... », come si dice in questi casi? «Dirò a papà che ti ho incontrato, te lo saluto.»

    L’uomo distoglie lo sguardo. «No, be’, senti... », si impiccia, «forse non è il caso, sai, una volta eravamo molto amici ma poi con Antonio ha litigato, pure io... non credo di stargli più tanto simpatico.»

    «Davvero?»

    Isabella lo guarda perplessa, lui agita una mano e cerca di rimediare.

    «Ma niente, è solo che non ci siamo più frequentati dopo che... Certo, quando ti verrà a vedere ci rincontreremo, forse gli farà piacere.» Però non lo dice molto convinto. «Ti accompagno a casa, eh? »

    «Ma no, è vicino.»

    «No, non si discute, poi se ci rapiscono Titania chi lo sente Antonio? Chiudiamo la baracca e andiamo!»

    Riccardo si siede al buio in cucina. Incredibile. Ha accompagnato a casa la figlia di Ilaria, dopo sedici anni. Le aveva parlato per mezz’ora e non aveva capito chi era, poi è stato fin troppo facile trovare le somiglianze, il colore degli occhi, la statura, la voce... Però è più timida di Ilaria, più discreta. Anche Ilaria alla prima impressione sembrava timida, ma quando voleva veramente qualcosa era un bulldozer. Una volta, all’epoca dell’occupazione dell’università, l’aveva sentita proporre al suo professore di venire all’assemblea e spiegare agli studenti per quali ragioni ritenesse la protesta inutile e manovrata. Quell’episodio lo aveva impressionato. Ilaria era molto affezionata al suo professore e il suo tentativo era sincero. Lui le disse che non ce l’aveva con lei, perché sapeva che era un’idealista, ma non accettò la proposta.

    Idealista era un insulto, negli anni ‘80. E anche nel 1990, per quanto volessero tornare a essere idealisti, quando qualche studente gridava: «Hasta la victoria», gli altri rispondevano: «Spesso!» O gridavano: «Pagheremo caro, pagheremo tutto», e scoppiavano a ridere, come se la vittoria non li riguardasse, o comunque, non ci contassero troppo.

    Hasta la victoria siempre. Quando ci si sposa si è ancora più idealisti. Si dice «ci ameremo sempre», cioè «qualunque cosa accada», e la vittoria sembra scontata: si possiede per sempre l’amore, la compagnia, la benedizione celeste. Ilaria ebbe la faccia di chi apprezza la vittoria solo il giorno in cui si sposò con Vincenzo, un matrimonio che aveva voluto per anni, che aveva perseguito con tenacia, vincendo le perplessità della sua famiglia e quella vaga ostilità della madre di lui. Ma non sembrava più un bulldozer, accanto a Vincenzo: era tenera e premurosa, come se quell’uomo grande e grosso fosse il suo bambino troppo cresciuto, e lui l’assecondava sorridendo. A volte Riccardo si sorprendeva a fantasticare su quel gioco di sottomissione, a chiedersi se si prolungasse quando erano nudi e soli, e Ilaria si donasse con un sorriso di premura, con parole gentili, troneggiando su di lui e guidandolo con le mani...

    Non si sentiva certo in colpa per queste fantasie, sapeva di avere un piccolo debole per Ilaria, un fondo di desiderio insoddisfatto. In realtà, e alla soglia dei cinquant’anni ormai l’aveva imparato, quello che succede tra due persone che si amano è invisibile, non ha nulla a che fare con la nostra curiosità o la nostra fantasia. Nemmeno con i nostri tentativi di capire, di dare la colpa all’uno o all’altra quando qualcosa si guasta, quando compaiono visi amari, mezze risposte agli amici, e belle mani abbandonate sulle ginocchia senza più un amore da guidare.

    Vincenzo ha costruito negli anni uno steccato di abitudini, come per proteggere un nucleo di pensieri e di sentimenti innocui che lo lascino vivere sereno. Isabella si è adeguata e le rispetta: del resto, ha passato una vita a rispettare le regole. Quando è tornata a vivere col padre non ha preteso di creare un’intimità che non è mai esistita, ha soltanto allargato quella felicità prudente dei pochi incontri di un tempo, delle vacanze passate assieme a casa dei nonni. Non ha impiegato molto a capire che la vita in famiglia non sarebbe stata esattamente come sognava da bambina, ma è abituata a contenere le sue richieste di affetto, ad accontentarsi. Salvo poi sentire un prurito perenne sulle cicatrici dell’infanzia, come le domande su sua madre che non ha mai fatto.

    Una domestica si occupa della casa e della cucina, una signora filippina di mezza età che lavora per suo padre da prima che lei nascesse. Stasera ha preparato il minestrone con le verze, Isabella se ne accorge appena varca la porta di casa.

    «Allora, ci sei andata per davvero a questa compagnia?» Il padre sta scrivendo al computer, nello studio in fondo al corridoio. Isabella lo raggiunge e si ferma sulla porta.

    «Sì, ciao, sono andata.»

    «Ah, e com’è?»

    Le brillano gli occhi. «Bellissimo! Abbiamo letto tutta la commedia seduti in circolo, ognuno una battuta, ogni tanto al regista toccava una parte da donna e ci faceva morire dalle risate. Alla fine ha assegnato i ruoli e mi ha dato da fare Titania!» Il nome le è uscito dalla bocca come un colpo di fucile.

    «Oddio, Titania chi sarebbe?»

    «La regina delle fate, facciamo il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.»

    «Ah, bello... » Vincenzo si lambicca il cervello per un po’, poi si arrende. «È una parte importante, vero?»

    «Certo che è importante! » La sua voce si allontana. «Devo anche cantare... Rosa, dove la metto la giacca, che non mi prenda puzza di verza?... »

    From: isamelia@gmail.com

    To: fataverde@libero.it

    Ciao bella, sono andata alle prove della compagnia, finalmente! E ho fatto bene. Il regista fa ridere e i ragazzi sono dei gran fichi, altro che quei cessi dei miei compagni di classe. E sono pure gentili con me, invece di bollarmi subito come brutta/secchiona/presuntuosa. Mi fanno fare Titania, ti rendi conto? Sono così contenta che mi potrebbe uscire il cervello dalle orecchie.

    C’è solo un problema, alla compagnia collabora anche un amico dei miei, Riccardo, se ho capito bene anche il regista era amico loro. Gente che frequentava mio padre prima che mia madre morisse. Sai che lui non parla mai di queste cose con me, se non ci fossero mia nonna e la signora Rosa non avrei saputo mai niente di lei, e loro a parte «era tanto allegra era tanto buona» non è che mi abbiano detto granché. Sai come succede quando sei piccolo. Solo che questo potrebbe creare dei problemi, a quanto pare hanno litigato, Dio solo sa perché, e magari se papà sa che li frequento non mi permetterà più di andare al teatro. Insomma, per adesso me ne starò zitta, perché non ho nessunissima voglia di perdermi questa cosa. Voglio fare Titania e voglio vedere qualcuno che non siano i compagni di scuola. Ce ne fosse una tra le ragazze che vale quanto te o quanto Silvia! Mi mancate un sacco. Mollo che sono le undici, baci,

    Isa

    Due prove dopo cominciano a montare i movimenti sul palcoscenico, e Isabella non ha ancora detto niente a suo padre. A proposito, sul fondo della sala c’è una signora elegante che la osserva mentre prova, se ha capito bene è la moglie di Riccardo. Forse anche lei era un’amica di sua madre, magari sta lì solo perché era curiosa di vedere lei. Più ci pensa più si arrabbia, si sente in mostra come uno scimpanzé del circo. Poi si rende conto che è lei stessa per prima a scrutare quella donna con curiosità, a chiedersi se riuscirà a parlarle e a farsi raccontare qualcosa. Ma pensa anche che difficilmente una perfetta estranea si confiderà con lei.

    Cristina, la moglie di Riccardo, sta pensando più o meno le stesse cose. In quella ragazza alta e secca c’è la pupa di Ilaria, ci sono i pochi chili che un giorno hanno pesato sul suo petto, con tutto il calore che un bambino emana da sé come un piccolo sole per appellarsi alla sua specie. Vorrebbe sapere tutto di lei, altro che guardarla, come è vissuta tutto questo tempo, cosa le piace, ma per ora è una perfetta estranea, dura di adolescenza e di imbarazzo naturale, che trasale quando Antonio la prende per le spalle per mostrarle da quale parte deve uscire, poi la scuote.

    «Oh, sciolta con questa schiena, sei la regina delle fate, mica un corazziere di guardia al Quirinale!» E tutti i ragazzi ridono, perché a sedici anni è già molto più alta di lui.

    A sedici anni Ilaria era molto più alta di Cristina, aveva degli occhiali terribili, parlava troppo forte, vestiva sempre male, e quando provava a vestirsi bene era ancora peggio. Semplicemente, non era cresciuta abbastanza. Cristina, al contrario, si sentiva molto cresciuta e depositaria di tutta la saggezza muliebre dei millenni, non fosse altro che perché lei aveva già avuto un ragazzo, e Ilaria no. Ilaria non se la prendeva, in fondo c’era tempo. Ma viveva in un mondo tutto suo e ogni attenzione le riempiva la testa di illusioni, puntualmente disattese, non capiva la differenza tra la semplice attrazione e un sentimento, perché era convinta di non attirare nessuno. E sesso niente, figuriamoci, al massimo sul piano del fantastico, con la vaga convinzione che non l’avrebbe mai fatto prima di sposarsi, o comunque, non prima di avere diciott’anni. Passare alla realtà, ritrovarsi a vent’anni col primo ragazzo della sua vita e affrontare gli orrori e le meraviglie di un amore reale, dovette essere un trauma per Ilaria - ma Cristina non lo seppe mai, non si facevano quel tipo di confidenze.

    La consigliera specializzata della questione meridionale era Emanuela, che non aveva peli sulla lingua e odiava le fantasie fini a sé stesse: quel che si progetta, scopata o poema immortale che sia, o prima o poi deve essere fatto. Ilaria ed Emanuela fecero arrossire fin le robuste stoviglie della mensa di Via De Lollis, puntualmente tutti i giovedì, raccontandosi le loro disavventure genitali, confrontando pesi e misure e buttando sul ridere le loro angosce di deflorande. La prima a saltare il fosso, Emanuela, offrì il gelato all’altra. Il gelato offerto da Ilaria si fece aspettare un bel po’, tanto più che Ernesto dissimulava la sua stessa inesperienza in un mare di chiacchiere che non mettevano tanta voglia. Cristina, invece, aveva tanto fatto fruttare la sua sapienza millenaria da riuscire a mettersi con Luigi, il bello di Lettere e filosofia, che sapeva benissimo di esserlo. Riccardo all’epoca disse che era l’unico uomo talmente pieno di sé da poter sopportare una piena di sé come Cristina, ma forse, quando più tardi la sposò, si era convinto di essersi sbagliato. Probabilmente Ilaria e Cristina avevano solo due modi diversi di reagire all’insicurezza.

    Cristina e Isabella aspettano in macchina che Riccardo finisca di chiudere il teatro. Si sono presentate e hanno esaurito le solite domande che un adulto fa a una ragazza in questi casi, avevi già recitato, che liceo fai, com’era stare in collegio, ora sono rimaste in silenzio. Cristina si accende una sigaretta.

    «Ti prego, se fumi alla tua età non dirmelo... »

    Isabella sorride, le sembra quasi che la donna stia imitando suo marito. «No, si figuri... »

    «Io alla tua età lo facevo, pensa che stupida... Non mi dare del lei, però.»

    Isabella prende il coraggio a due mani, adesso o mai più. «Riccardo le... ti ha detto chi sono, no?»

    Adesso o mai più, Cristina si confessa con un sorriso. «Sì, me l’ha detto, non ho resistito, mi spiace. Sono sedici anni che non ti vedo.» Non sa come continuare, poi dice la prima cosa che le viene in mente: «Sai che ti ho tenuta in braccio che avevi un giorno? Eravamo proprio amici dei tuoi, Ilaria doveva essere la mia testimone di nozze... » Si affretta a correggersi. «Insomma, quando dovevo sposare un altro, poi è arrivato Riccardo... vero?» Il marito è arrivato con calma alla macchina.

    «È vero cosa?»

    «Che quando dovevo sposarmi con Luigi Ilaria mi doveva fare da testimone?»

    Riccardo si siede alla guida e fa partire la macchina. «Siete già arrivate al punto in cui arrivo a salvarti dal crudele Luigi in groppa a un cavallo bianco?»

    «Dal crudele Luigi mi sono salvata da sola», puntualizza Cristina, «e poi abbiamo appena cominciato, giuro. Non sono nemmeno arrivata all’occupazione della Sapienza.»

    «Per raccontare l’occupazione dell’università ci vuole una notte buia e tempestosa, mica puoi rivenderti il mitico movimento del ‘90 dentro una station-wagon!»

    «Adesso non esagerare, nemmeno fosse stata una guerra civile.»

    «Per quel che mi riguarda, lo è stata! Se avesse visto la faccia di mio padre quando mi ha visto al TG2 mascherato da Berlusconi!»

    C’era già Berlusconi?

    «Madonna, quelle manifestazioni erano la cosa più bella di tutte, si cantava, si ballava... Io e Ilaria stavamo con i suoi colleghi dell’Istituto Orientale, con una fascetta in fronte con scritto ‘Viva Tienanmen’ in cinese - forse tu non sai cos’è successo a piazza Tienanmen, ci avevano manifestato gli studenti cinesi e li avevano schiacciati con i carri armati.»

    Che ironia, pensa Isabella, come sua madre da un camion sette anni dopo, e nemmeno per la libertà. «No, me ne hanno parlato a scuola... Però non sapevo che ci fosse stato un movimento degli studenti qui a Roma.»

    «Mah», dice Riccardo, «per noi è stato molto importante, ma in realtà abbiamo perso, o meglio tutto quello che abbiamo conquistato se lo sono ripreso gli anni seguenti, e gli studenti che sono venuti dopo di noi... » Sono quasi arrivati davanti casa di Isabella, lui si riscuote. «Va bene, è un discorso lungo, forse non ti interessa nemmeno, scusami.»

    «Ma no, figurati! Grazie, ci vediamo, eh?» Isabella si sottrae in fretta alla sua stretta di mano e balza giù.

    Riccardo la segue con gli occhi mentre raggiunge il portone a lunghi passi.

    «Ma ci pensi?» Sembra parlare a sua moglie ma non la guarda, anche adesso che Isabella è sparita oltre il vetro. «Se tutto andava come doveva andare a quest’ora ci vedevamo, ci chiamava zio Riccardo e zia Cristina, l’avremmo vista crescere, magari sarebbe stato naturale... » Si blocca e increspa le labbra.

    «A che stai pensando?»

    «Ma che cazzo ne so», si anima, «sarebbe stato normale, no?, ora che è grande, invitarla a cena da noi, anche senza il padre, farsi raccontare che fa di bello... »

    Cristina china gli occhi. «Forse, ma non è andato niente come doveva andare, Riccardo. È inutile recriminare.»

    Riccardo si ribella: «E chi se ne frega, senti, perché non la invitiamo lo stesso? Magari a pranzo è più facile, magari pranza sempre da sola... Basta che mi prendo un paio d’ore di permesso, che ci vuole?»

    Cristina scuote la testa, quando suo marito parte con un’idea è perfettamente inutile opporsi. Lui è sempre quello che sogna di mettere tutto a posto e correggere gli errori del Padreterno.

    «Tu prova a chiederglielo, ma non ti offendere se ti dice di no, mica è detto che una ragazza di sedici anni abbia voglia di andare a pranzo da due babbioni che conosce appena, la metti in imbarazzo!»

    «Figurati, questi ragazzi moderni non si imbarazzano di nulla». Si gira e sorride alla moglie. «Non saresti contenta pure tu?»

    «Ma certo, che c’entra... » Cristina sorride a sua volta, ma solo a metà. «Che dice Antonio?»

    Riccardo fa una faccia scura e riparte.

    «Che sono stato uno stronzo a dirle che conoscevamo sua madre, che bisognava fare finta di niente. Almeno mi poteva avvisare prima, no? Lasciamo perdere, guarda.»

    Cristina lascia perdere, sa che le sue incazzature con Antonio durano lo spazio di un mattino.

    Antonio torna a casa con un’ispirazione, si toglie la giacca davanti allo specchio che copre una parete dello studio, tira su una spalla irrigidendo i muscoli, poi l’altra, poi tende il collo in avanti. Poi rilascia le spalle e le allarga per aprire il petto, ma molli, leggere, come dovrebbe fare Isabella. Decide che il secondo atteggiamento è quello della regina delle fate, il primo l’imitazione del povero cafone ateniese trasformato in somaro. Dovrebbe anche guardare un po’ di traverso e camminare con i piedi divaricati... sì, lallero, figurati se Carlo capisce, è già tanto se non si scorda quattro battute su sette. Eppure dovrebbe insistere, non si può recitare il Sogno di una notte di mezza estate come tanti sacchi di patate viventi. Se davvero sarà costretto a fare Puck il folletto, dovrà mettersi una palla al piede per non strafare: ecco, basta che si inchini come ha fatto adesso e già sembrerà fuori posto, ed è abituato a fare salti, capriole, a passeggiare a testa in giù sul palcoscenico - per non far notare che il folletto ha tanti capelli bianchi?

    Basta, questa è la volta buona che li metto in riga e gli insegno come ci si muove su un palcoscenico, a costo di tagliare mezzo testo e farmi tirare gli alluci di notte dal fantasma di Shakespeare.

    Tira su la spalla destra, la spalla sinistra, tende il collo, divarica i piedi e si dice che Carlo dovrà dargli retta stavolta, prendere o lasciare. Rilassa le spalle, apre il petto, pure Isabella è tanto bravina ma ne ha di cose da imparare, si deve sciogliere, frega assai che è stata dalle suore. Sgrana gli occhi e inclina la testa per imitare il suo ingresso con la manina timida a mezz’aria, Don Marcello le ha detto... e ride, sembra incredibile che siano passati solo dieci giorni. Somiglia tanto a sua madre che ogni tanto deve mordersi la lingua per non sbagliare nome. La manina alzata di Isabella torna a essere la mano di Antonio e si porta sullo stomaco, la faccia nello specchio torna di Antonio e seria. Somiglia un po’ a Lucia quand’era piccola.

    Antonella osserva sorridendo le sue mosse dalla porta dello studio, se sta pensando al teatro è perfettamente inutile prendersela perché è rientrato senza salutarla.

    «Oh, ciao bella!» Antonio si volta e indica lo specchio come per scusarsi. «Devo riprendere a fare esercizio, forse mi tocca fare il folletto.»

    «Vai a vendere gli aspirapolvere?»

    «Tu ci scherzi, sai che strazio badare ai ragazzi e recitare assieme! Ho chiesto a Simona se poteva aiutarci, ma quella ha sempre da fare»

    «Ma scusa, che fine ha fatto Emanuele?»

    «È andato volontario nell’esercito, mi ha messo in un guaio.»

    «Emanuele militare? Madonna come passa il tempo... »

    Antonio le prende una mano e la porta davanti allo specchio.

    «Eh sì, mia signora, siamo guariti dalla giovinezza e mai più ci ammaleremo.»

    «Parla per te, amore, io sono giovane.» Lo specchio le dà ragione, e Antonio ha troppo rispetto per il suo specchio per mettersi a protestare.

    Lo specchio a figura intera dell’ingresso, quand’era ragazzo, era il suo peggiore nemico. Proprio nell’istante in cui usciva di casa, gli ricordava quanto poco distassero da terra la testa che aveva così ben pettinato al bagno, i suoi famosi occhi azzurri, e la faccia su cui lasciava crescere quel tanto di barba perché i vigili capissero che era maggiorenne. Una vera tragedia, o almeno così gli sembrava. Poi c’era sempre qualche amico pronto a dirgli che il problema era un altro, che era aggressivo, scontroso, che era incapace di inserirsi in un gruppo o farsi notare da una ragazza, anche se lo desiderava con tutta l’anima. E lo diceva per consolarlo, perché in fondo il carattere si poteva sempre migliorare, mentre superare quel metro e sessanta dichiarati scarsi era poco probabile, passati i vent’anni.

    Antonio si fece sequestrare dal movimento del ‘90, si fece prendere tutto il tempo e tutti i pensieri, vuoi per non pensare più al suo carattere di merda, vuoi perché sperava di cambiarlo, finalmente. Ci mise tutta la forza di una vita che non era mai stata come voleva, e nemmeno quello era stato come voleva. Si risvegliò una sera, era tornato a casa morto di sonno dopo le ultime notti passate in facoltà a fare la guardia alla biblioteca del loro istituto. Non l’avevano lasciata incustodita neanche un momento, dal primo giorno dell’occupazione, e la tenevano aperta tutti i giorni. Quando si risvegliò era buio, era solo in casa, faceva freddo dopo l’illusoria primavera dei due mesi passati, e scoppiò a piangere come un bambino perché quei giorni stavano finendo, e al di là della fine non c’era che la vita come era sempre stata, e Antonio come era sempre stato.

    Giovedì sera, prima prova in scena del terzo atto, Isabella vede per la prima volta Antonio esplodere nella sua famosa incazzatura.

    «Io alle volte penso che siete morti e non ve ne siete accorti! Le gambe non ce le avete solo per uscirvene a destra o a sinistra, cazzo di un campanaccio!»

    Isabella è rimasta inchiodata al suo posto dopo appena due battute.

    «Questa volta le cose o le fate come dico io, o lasciamo perdere e mettiamo su delle belle scenette sul Festival di Sanremo, okay? Almeno io non perdo tempo e voi vi divertite, vi mettete tanti bei costumi... Io voglio vedere l’impegno, mi sembra il minimo che possa pretendere, dopo sei anni che lavoriamo! E vale pure per te che sei nuova, Isa, non ti credere! Adesso tutti fuori e si ricomincia da capo, e se vi rivedo fare gli zombi in scena (hai capito, Isabellina?) o buttare i piedi a destra e a sinistra come papere (mi senti, Aldino?) ricominciamo di nuovo, e di nuovo, finché non vedo scorrere il sangue, va bene? E non perdete tempo per dirmi che siete d’accordo, tanto non avete scelta!»

    I ragazzi tornano ridacchiando dietro le quinte, la tensione cade giù dalle spalle di tutti, tranne che da quelle di Isabella.

    Isabella si infila la giacca e fa per andarsene in fretta, sgusciando via dal chiasso delle chiacchiere dopo la prova. Antonio le passa accanto. «Verresti un attimo di là, per cortesia?»

    Ecco, adesso chissà che altro rimprovero le vuole fare, le gambe le spalle la ci la bi la esse, Isabella spinge con forza sul groppo che le chiude la gola e lo segue a testa bassa. Antonio chiude la porta della stanzetta dietro di sé.

    «Volevo farti vedere una cosa, sta’ un po’ indietro.» Senza preavviso spicca un balzo e fa la ruota davanti alla scrivania, poi si volta, atterra sulle mani e attraversa la stanza a testa in giù, la faccia rossa per lo sforzo, per rialzarsi con un colpo di reni di fronte a lei. «Sai io che faccio nella vita, Isa? Metto i timbri. E ho vari rotti più di quarant’anni, per giunta. Però mi piace fare il pagliaccio e allora mi esercito tutti i giorni, o quasi. È per questo che mi permetto di rompere le palle a te, o a Carlo o a Sabrina, perché so cosa si ottiene quando ci si impegna, e so che è bello.» Le prende le mani fissandola negli occhi. «Tu sei molto intelligente, ma non sei fatta solo di cervello, hai anche un corpo, e il corpo non serve solo per attirare i ragazzi e andarsi a infrattare... oh, finalmente ridi, e che è successo?... Bisogna imparare a sentircisi dentro, a usarlo per entrare in contatto con gli altri. Allora sei un attore, non uno che dice delle parole con una bella vocina. Sai io perché mi sono messo a fare queste cose? Non ti spaventare, eh? Prima o poi lo racconto a tutti. Ho cominciato a fare il mimo su consiglio dello psichiatra, perché da ragazzo», fa il gesto di tagliarsi i polsi, «ho tentato di ammazzarmi. Pensa te che stronzo. Ma il fatto è che non mi volevo bene, e forse avevo ragione, però senza volersi bene non si può campare, non credi? Allora, uno usa il corpo per imparare a conoscersi, a sentirsi dentro sé stesso, invece di stare sempre fuori con il fulmine celeste in mano, a giudicarsi... A quel punto pure se sbagli non importa, stai imparando. E mi dirai, a me che mi frega, io sono venuta qua per divertirmi, mica per farmi fare i nervi a pezzi da questo vecchio bagonghi, e hai ragione! Però io ti prometto che se mi dai retta, e impari qualcosa di diverso da quello che hai fatto finora, ti divertirai molto di più, e alla fine ti vorrai anche più bene. Quanto ci scommetti?»

    Isabella cerca di sorridere. «Niente, tanto perdo sempre», ma pensa che l’ha toccata con le mani su cui ha camminato, e il giorno in cui riuscirà a capire quello strano signore e le sue prediche, e a volergli bene come sembrano volergliene tutti gli altri, le sembra molto lontano.

    Roma, 20 maggio 1996

    Cara Emanuela,

    stavolta è proprio finita. Ho scritto il finale del mio film di serie B, e in fondo non chiedevo altro dalla vita. Non ti voglio raccontare i dettagli, per ora ti sfrutto solo per scrivere una volta per tutte la verità che devo portare a coscienza e accettare: non mi ama. Probabilmente lo sapevo fin dall’inizio, ma ho voluto fare un esperimento con me stessa, con la mia capacità di soffrire. Cosa volesse fare lui non lo so, e non mi importa. Non ho pensato ad altro che a lui per tutto questo tempo, ormai sono diventati mesi. Adesso il famoso «resto della vita» pretenderà la mia attenzione, e dovrò trovare la forza di dargli retta. Ma è questo il punto, che tutto ciò che volevo non esisteva, o è lui il problema, quell’uomo in particolare e il muro di ferro che lo circonda? A volte temo di non arrivare all’estate, ma queste sono sciocchezze. Quali siano le cose serie te lo saprò dire tra un po’ di tempo, quando avrò addomesticato la disperazione e i ricordi, i miei peggiori nemici. Probabilmente alla fine, quando li avrò sconfitti, non ci sarà che la stessa Ilaria di sempre, e la vita come è sempre stata. E in più un figlio, che forse non poteva capitare peggio, o no? Se tanto mi dà tanto, credo che lo amerò per tutta la vita, qualunque cazzata riesca a organizzarmi - e visto che è figlio mio, ne organizzerà sicuramente parecchie.

    Ti abbraccio e saluto il pianista, Ilaria.

    Emanuela stira la schiena, sono le due di notte, sono ore che legge le vecchie lettere di Ilaria, non ha fatto altro da quando Cristina l’ha chiamata da Roma per dirle che ha incontrato sua figlia.

    Sembra passato troppo tempo per essere tristi, ma le sembra il minimo che possa fare. Le lettere stanno per finire e, come sedici anni prima, le sembra di non aver capito nulla, le sembra impossibile che là dentro ci sia tutta la verità sulla vita di Ilaria. Quella che riservava a lei era la parte più amara, quasi sempre. In nessuna lettera ci sono più di poche parole su questa figlia che ora è ricomparsa. Le scrisse poco dopo che era nata, poi qualche telefonata, poi un camion l’aveva quasi decapitata vicino Piazza Vittorio, come quello stronzo di Luigi si era premurato di farle sapere con tanti bei dettagli truculenti. Solo la parte più amara. È su questo pensiero che alla fine riesce a piangere.

    II

    Q uando Antonio dovette sforzarsi di ricordare come aveva cominciato a pensare alla morte, si ricordò di aver sceso le scale della facoltà di Lettere, una delle ultime mattine dell’occupazione, per andarsi a comprare una pizzetta allo spaccio. C’era una strana polvere dappertutto, sui gradini, sull’asfalto del piazzale - avevano comprato una targa di marmo per ribattezzarlo ‘Piazza Tienanmen’, la polizia aveva preso le generalità di quelli che l’avevano montata, poi una notte, pochi giorni dopo, era stata spezzata. Forse era solo quel tipo di sabbia che usano per pulire il marmo, ma gli sembrò qualcosa di sinistro, tutta bianca sotto il sole.

    Davanti alla facoltà stazionava un’auto marrone con agenti in borghese a bordo, una pistola sul cruscotto, immortalata su un giornale satirico da un disegnatore. Una pistola là fuori, dentro vignette, fotocopie, rassegne stampa, uccelli di carta appesi al soffitto e un’immensa tenda dipinta, fatta di plastica a strisce, tra l’atrio e il corridoio di archeologia classica. L’aveva disegnata e realizzata Riccardo. Pensava a quelle minacce ridicole e inutili del potere e se le sentiva addosso, attaccate alla pelle. Era per Antonio Di Giacomo quella pistola, colpevole di aver dormito in un sacco a pelo sul tavolo della biblioteca, di aver scritto e appeso una poesia sul movimento, di essersi dichiarato comunista, e altri delitti consimili.

    Fantasticava, e non erano belle fantasie. Potrebbero mettere una bomba sotto queste scale, e mentre passo farla esplodere, solo per pescare nel torbido e far dire era tutto vero, questi studenti sono tutti terroristi. Pensava ai giornali, che non vedevano l’ora. Oppure non morire, ma finire nel mucchio negli indagati, salire sul cellulare, manette, compagni pallidi come lui, giorni sporchi e scomodi, ore di domande gridate in faccia, botte. Un avvocato mandato da suo padre, sua madre professoressa in fila con una borsa di biancheria. Lasciò perdere la pizzetta e lo spaccio, si sedette su una panca, sotto gli alberi, a guardare l’auto marrone degli agenti in borghese.

    Suo padre credeva di capire tutto prima e meglio degli altri, come al solito. Tutte le sere litigavano sull’occupazione, il padre diceva: «Non avete nessuno che vi appoggi, non avete un progetto politico coerente, non sapete cosa volete.» Antonio diceva: «Non vogliamo l’appoggio di nessuno, cosa vogliamo lo sapremo appena saremo capaci di pensare con la nostra testa ai nostri bisogni, nessuno può decidere al posto nostro.»

    Poi decise di dormire in facoltà, così in un colpo solo si rendeva utile e non vedeva suo padre. Il caro uomo tornò alla carica non appena l’occupazione chiuse i battenti, lo attendeva al varco ogni sera a cena, quando Antonio tornava a casa già stanco di discutere con i colleghi ritornati in facoltà, quelli per il quale il movimento della Pantera non era stato altro che un’interruzione arbitraria dell’anno accademico, una sessione d’esami saltata, un professore che sarebbe tornato al suo posto acido e imbufalito. Aveva già perso due o tre amici in questo gioco. Restavano gli altri, quelli rimasti fino all’ultimo, fino alle assemblee con quattro gatti e musi a terra, Ilaria e Cristina dell’Istituto orientale, quello stronzo di Luigi che si sentiva l’idolo di Lettere, Riccardo di Architettura, Vincenzo di Medicina, Emanuela e Silvana di Storia dell’arte, Ernesto di Italianistica - Ernesto era proprio quel vecchio caro compagno di scuola che cercava di confortarlo dicendo che il suo problema non era tanto essere basso quanto essere rompicoglioni. Ma col passare dei giorni li vedeva sempre di meno: tutti impegnati a leccarsi le ferite e a recuperare il tempo perduto, del resto lo avevano detto, pagheremo caro pagheremo tutto.

    Chissà perché, si convinse di stare pagando più degli altri. Non riusciva a riprendere a studiare come avevano fatto gli altri, a volte non riusciva ad andare a lezione, a volte ci andava e tornava a casa a guardare per ore il soffitto della sua stanza. La madre raccontò che piangeva tutti i giorni, ma non era vero, aveva pianto una volta sola. Gli pareva di non aver sentito mai come quei giorni il peso della sua solitudine, il carico della virilità sprecata, non avere nessuno da toccare e nessun conforto se non sé stesso. Provava a parlarne con Riccardo, che gli rispondeva con quattro oscenità e per un po’ riusciva a farlo ridere, o con Ernesto, che gli spiegava punto per punto dove stava sbagliando e dove aveva sbagliato dal quinto ginnasio al presente. Con Luigi non avrebbe parlato di queste cose neanche sotto tortura, e nemmeno con Cristina, per la proprietà transitiva.

    Fortuna che c’era Ilaria, si incontravano a lezione di Letteratura latina e parlavano, lui di solitudine, della sua passione per il teatro mentre i suoi avevano voluto che facesse lettere classiche, lei delle sue materie che non le avrebbero mai fatto trovare un lavoro, di Ernesto che come ragazzo era peggio di niente, era sempre freddo, sempre tra color che son sospesi, mentre durante l’occupazione era stata tutta un’altra musica, chissà perché non funzionava più. Sembravano avere entrambi un bisogno d’affetto troppo grande per questo mondo, troppo violento per chiunque, ma anche tra loro due, non parevano pensare che potesse esserci di più di questa amicizia di scarico, di queste chiacchierate infinite mentre andavano alla stazione Termini. E poi Ilaria era ancora innamorata di Ernesto, nonostante tutto.

    Isabella si siede sul divano accanto a Riccardo, sono passati i tortellini, il pollo, le patate, la verdura, il gelato, si sta godendo fino in fondo il suo primo invito a pranzo da adulta, fino al caffè in salotto, tanto per sottolineare. Questa sensazione sovrasta tutte, una cortese accettazione, all’apparenza fredda, come se tutto le fosse un po’ dovuto. Non sa nemmeno lei perché ha accettato di andare a casa di una coppia che conosce appena, per giunta senza dirlo a suo padre. Riccardo sembrava tenerci tanto.

    Finalmente le ha potuto raccontare dell’occupazione dell’università, della pantera scappata da un circo che si era persa per le campagne attorno a Roma e aveva dato nome al movimento degli studenti, di come ha conosciuto sua madre e suo padre, del loro matrimonio. A Isabella pare restino da fare solo le domande spiacevoli, e da una dovrà pur cominciare.

    «Ma Antonio... è vero che da ragazzo ha tentato di uccidersi?»

    Riccardo la guarda, per la prima volta serio. «Te l’ha raccontato tuo padre?»

    «No, me l’ha detto lui. Ha detto che prima o poi lo racconta a tutti», cerca di sorridere per sdrammatizzare, «poi ha camminato sulle mani e mi ha parlato del corpo e dell’attore.»

    «Ah, ti ha fatto la predica standard, sentirsi dentro, sentirsi fuori... » C’è un fondo di imbarazzo nella voce di Riccardo. «Però non è vero che lo racconta a tutti, in realtà... Si vede che di te si fida, che gli piaci.»

    Lei sorride, lusingata. «Infatti non mi dà pace un attimo: stai giù, stai su, più sciolta, più vivace, più forte, più dritta... »

    Riccardo ride: «Povera te! È la sua specialità, appena trova un ragazzo bravo lo prende di mira e lo tormenta a morte! Il vecchio Antonio non perdona nessuno, l’hai vista l’incazzatura, no?»

    «L’ho vista... » Guarda la tazzina vuota, prende fiato. «Io non riesco a immaginarmi una persona che decide di uccidersi. Voglio dire, la vita può anche fare schifo, ma la morte mi sembra talmente orribile... Cioè, tanto morire si muore lo stesso, e anche così è terribile per chi resta, se uno si uccide vuol dire proprio che non ama nessuno, che non gli importa nulla del male che fa.»

    Cristina vorrebbe dire qualcosa, poi ci ripensa e porta via le tazzine del caffè. Isabella pensa che si sia offesa per qualcosa che ha detto. «No, senti, Riccardo, io non volevo offendere Antonio, è solo che mi sembra... che ne so, mi sembra uno spreco!»

    Riccardo scuote la testa con forza. «Ma no, no... Tu hai ragione, può darsi che in quei momenti non si ami più nessuno, io non lo so, non ci sono mai passato»

    «Ma voi vi frequentavate, allora?»

    «E certo! Mi telefonò la madre dall’ospedale, la sera stessa, andammo tutti a casa di Ilaria che si era sentita male. Tu non ti puoi immaginare quanto pianse tua madre, voleva molto bene ad Antonio, gli era veramente amica»

    «Ah, ecco. E perché, tu e lei no?» Cristina è tornata in salotto

    «Sì, ma forse non eravamo sensibili come tua madre». Sembra pensoso. «Lei sentiva tutto più forte, sia le gioie che i dolori, io non so se questa sia una disgrazia o una fortuna, so solo che quella volta l’ho invidiata.»

    «Sì, anch’io», interviene Cristina. «Avrei dato non so cosa quella sera per riuscire a piangere, e invece niente. Anche dopo, quando Antonio stava in ospedale, tua madre era l’unica che aveva il coraggio di stargli vicino, lo andava a trovare tutti i giorni, e noi invece stavamo tutti terrorizzati a casa di qualcuno a discutere su cosa avevamo sbagliato, cosa avremmo potuto fare, perché era fallito il movimento... »

    «E... perché l’ha fatto, c’era un motivo particolare?»

    «È difficile dirlo, Antonio quando finì l’occupazione rimase molto deluso, non riusciva a riprendere una vita normale... almeno così si disse all’epoca, noi... »

    Riccardo la interrompe con veemenza. «Dai, ma queste sono stronzate, scusa, Cristina! Uno non s’ammazza per il movimento, era depresso, si sentiva solo, era pieno di complessi... »

    «Ma sì, solo che quella è stata l’ultima goccia! Insomma, lui ci credeva alla lotta politica, ci credeva più di tutti noi. Magari gli serviva per non pensare al resto, e allora a maggior ragione, quando è finito tutto... » Isabella ha l’impressione di assistere alla replica di una discussione consueta.

    «Ma che lotta politica, bastava un po’ di fica!»

    «Riccardo, per favore... »

    «No, davvero, io penso che se avesse detto a Ilaria... » Riccardo arrossisce e si guarda in giro, ormai non può rimediare. «Cioè... »

    Cristina sbuffa. «E dai, Riccardo, non c’è niente di male se glielo diciamo! A un certo punto Antonio si era preso una cotta per tua madre», si rivolge al marito. «Ma non prima, dopo! Tu non ti ricordi bene, fu dopo che tentò di ammazzarsi, quando lei stava sempre a casa sua. D’altronde è anche naturale, lei si occupava di lui e lui le si era affezionato.»

    «Sì, ma io ti dico che pure prima gli piaceva! E poi me l’ha detto, me l’ha detto lui stesso, che cacchio!»

    Isabella guarda i disegni del tappeto, un po’ imbarazzata. «E non sono stati mai insieme?»

    Riccardo scuote la testa. «No, no, all’epoca lei stava con un altro, Ernesto. Poi conoscerai anche lui, ha un figlio un po’ più piccolo di te, sicuramente verrà a vedere lo spettacolo. Lei in qualche modo lo capì, ma Antonio non le disse nulla. Qualche volta succede, no?»

    Restano in silenzio, Isabella non si arrende, le sembra di essere arrivata al primo segnale di vita in un ritratto melenso e scarno, l’amico sfigato e complessato che si innamora di lei, e meno male, era tutto qui quello che non si poteva dire?

    «Com’è carino, però», dice sorridendo. «Magari uno pensa che queste cose succedono solo alla mia età, che uno è innamorato e non dice nulla, e invece... Ma a lei non piaceva?»

    Riccardo allarga le braccia in un gesto teatrale.

    «Signor giudice, le giuro, non lo so! Posso dire solo che Antonio mi fece due palle come due caciocavalli, con questa storia che non riusciva a confessare il suo folle amor, poi tua madre si mise con tuo padre e, come dice il Grande Bardo, il resto è silenzio: ci mise una pietra sopra e si diede da fare in altre direzioni! E gli andò molto bene, c’è da dire... »

    «Poi col teatro conobbe un sacco di altre ragazze, gli ha fatto un bene santo.»

    «Se vedi la ragazza con cui vive adesso, è la fine del mondo... Mica come questa vecchia carampana che mi ritrovo io!»

    «Ah sì?», interviene ridendo la moglie. «E allora perché non te ne cerchi una giovane anche tu, gioia?»

    «Ma che dici, non la sopporterei una come Antonella... già tu ti dai le arie di quella che avrebbe potuto sposare chissà chi!»

    «Oddio, ancora con queste vecchie storie, non ti sopporto più!»

    Riccardo le siede accanto sul bracciolo della poltrona e le cinge le spalle con aria melodrammatica:

    «Dai, confessa che talvolta pensi ancora ai capelli fluenti di Luigi... Luigi era il ragazzo più bello di Lettere, come apriva bocca in assemblea faceva cadere svenute le donne nel raggio di chilometri.»

    «Faceva cadere le palle, nel raggio di chilometri!»

    Isabella segue a stento questa schermaglia, capisce solo che il momento delle confidenze serie è finito, che la sua domanda sgradevole non può più sperare in altre risposte, e per le domande che le sono

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