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Inviato a giudizio
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E-book530 pagine6 ore

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Info su questo ebook

Un grande giallo italiano

Dopo trent’anni come collaboratrice di un quotidiano locale sardo, Giovanna Mameli viene assunta dal «Corriere» e inviata a occupare un posto vacante in una redazione periferica della Penisola. Qui conosce Giulio Costa, un brillante avvocato che le è subito d’aiuto per capire come muoversi nell’ambiente giudiziario. Quando, poco tempo dopo, l’avvocato Costa è costretto a prendere le difese di Nicola Piavan, un tossicodipendente pregiudicato, accusato dell’omicidio dell’anziana Adelaide Santonofrio, Giovanna decide di affiancarlo nelle indagini. A puntare il dito contro Piavan sono due complici entrati con lui nella villa della vittima, che però si dichiarano estranei all’omicidio. Mentre Giulio ingaggia una lotta senza quartiere per smontare le tesi dell’accusa, che sembrano inossidabili, Giovanna conduce la sua personale inchiesta, convincendosi che Piavan sia stato incastrato. Ma come dimostrare la sua innocenza?

Il nuovo imperdibile giallo dell’avvocato scrittore che ha conquistato i lettori italiani

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un viaggio nel processo e nel sentimento della giustizia.»
Corriere della Sera

«Un legal thriller che tiene ancorato il lettore fino al gran finale, del tutto inaspettato.»
L’Unione sarda

«Come Grisham, Pinna Parpaglia racconta storie della provincia incastonandole in un contesto forense italiano, con un’ombra noir. Gli avvocati ringraziano. Tutti gli altri apprezzano.»

«Un giallo magnifico. Pinna Parpaglia è una garanzia.»
Paolo Pinna Parpaglia
È nato nel 1974. Laureato in giurisprudenza, svolge la professione forense dal 2005. Vive a Cagliari. La Newton Compton ha pubblicato Quasi colpevole, Quasi innocente, Vendetta privata e Inviato a giudizio.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2021
ISBN9788822755209
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    Anteprima del libro

    Inviato a giudizio - Paolo Pinna Parpaglia

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2917

    Dello stesso autore:

    Quasi colpevole

    Quasi innocente

    Vendetta privata


    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Nomi, luoghi e avvenimenti sono il frutto

    dell’immaginazione dell’autore,

    e qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali,

    viventi o defunte, è del tutto casuale

    Prima edizione ebook: luglio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    ISBN 978-88-227-5520-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Paolo Pinna Parpaglia

    Inviato a giudizio

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Prologo

    «Oh».

    «…».

    «Svegliati».

    «…».

    «Mi senti?»

    «…».

    La sagoma era riversa sul sedile posteriore della carcassa di un’auto abbandonata in mezzo agli sterpi. Spuntavano solo i piedi e parte delle gambe, avvolte in jeans sporchi e stracciati. Un diffuso frinire di cicale e il rumore delle auto che sfrecciavano sulla circonvallazione erano gli unici suoni di un afoso pomeriggio di giugno.

    L’uomo nella macchina non sentiva nulla. L’ultima siringa era conficcata nella gommapiuma del sedile. Attorno al braccio, afflosciata come un serpente senza vita, stava la cintura di pelle logora che gli aveva stretto il bicipite un’ora prima.

    Il ragazzo stava in piedi fuori dall’auto e si riparava dal sole con una mano davanti agli occhi. Era di qualche anno più giovane della persona che vegetava nel sedile. Lo osservava con schifo e commiserazione. Lo chiamò ancora.

    «Svegliati!».

    Gli diede un calcio sulla scarpa destra. Aveva quasi fastidio a toccarlo in qualunque altro modo, ma doveva parlargli con urgenza.

    Alzò la voce e gli calciò la scarpa con più forza. Finalmente la sagoma si mosse. Prima un sussulto, poi qualche sommesso gorgoglìo, finché si voltò con la testa ancora annebbiata. L’effetto magico dell’eroina era svanito, restavano solo i postumi, la spossatezza, la sete inestinguibile, il prurito dentro le vene, la sensazione di essere tornato in un posto che odiava. Cercò una bottiglietta d’acqua tra la spazzatura dell’abitacolo e ne bevve un sorso con movimenti rallentati.

    «Chi sei?», disse alzandosi sui gomiti e guardando verso l’esterno, con gli occhi che lentamente cercavano di abituarsi alla luce.

    Il ragazzo non rispose e attese che il tossico si mettesse seduto.

    «Ma chi sei?»

    «Vieni fuori, ti devo parlare».

    Conosceva già quella voce, ma non la udiva da tanto tempo e non riusciva a collegarla a nessuna faccia. Era troppo presto per tirarsi su, troppo presto per pensare, troppo presto per fare qualunque cosa.

    «Vattene…».

    «Avanti, fatti vedere. Ho bisogno di parlarti».

    Il tono non era più quello di un ordine ma di un invito, quasi una richiesta amichevole.

    Il tossico si sporse e si sedette sul sedile. Lo vide in volto e lo riconobbe. Pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa di adatto al momento.

    «Come hai fatto a trovarmi?», disse invece.

    «Al Palazzone non c’eri. Ho fatto il giro dei posti dove vanno quelli come te».

    Il tossico riprese la cintura con la quale si era stretto il bicipite e la infilò faticosamente dentro alle asole dei jeans. Ogni movimento era rallentato. Il mondo tutt’intorno sembrava sul punto di fermarsi, per lui.

    «Ce l’hai una sigaretta?».

    Gliela diede da un pacchetto che non aveva mai visto prima. La mise tra le labbra senza accenderla, poi rimase con la testa ciondolante per alcuni secondi. Osservò meglio il ragazzo che l’aveva svegliato. Non lo vedeva da molti anni. Pensava che non l’avrebbe più rivisto, ma non l’aveva dimenticato anche se il suo volto era cambiato, cresciuto. Sorrise senza gioia, mostrando la bocca priva dei due incisivi superiori. Uno gli era stato buttato giù con un pugno da un pusher al quale doveva dei soldi, l’altro era marcito e caduto poco tempo dopo.

    «Devo parlarti».

    «Di cosa?».

    Avrebbero avuto molte cose di cui parlare, ma non era quello il momento. Dalla tasca posteriore dei pantaloni il ragazzo prese una busta ingiallita dal tempo che conteneva un foglio. Si inginocchiò vicino a lui.

    «Cos’è?»

    «Una lettera. Leggila».

    «Una lettera?»

    «Sì, leggila».

    «Perché?»

    «Leggila e basta».

    «Fallo tu».

    «Ok».

    La lesse adagio, scandendo parole e concetti. Ogni tanto guardava verso il tossico per studiarne l’espressione. Quando terminò attese per capire se lui aveva compreso.

    «Vuoi che la rilegga?»

    «No».

    Ora si sentiva abbastanza lucido per affrontare la situazione.

    «E perché sei qua?».

    Il ragazzo avrebbe potuto dargli tante risposte e tutte sarebbero state corrette. Ma se era lì, in quel giorno a quell’ora con il bisogno di parlargli con urgenza, era per un solo motivo.

    «Ascoltami». Si sedette con le gambe incrociate davanti all’auto e gli parlò senza tralasciare alcun dettaglio.

    Il tossico l’aveva visto tante altre volte in quella posa, ma era molti anni prima. Aveva fame e sete. Aveva sempre fame e sete quando si svegliava dopo un trip. Cercò l’accendino nella tasca, lo trovò ma non accese la sigaretta e rimase ad ascoltare le parole del ragazzo rigirandola tra le dita.

    Alla fine, il ragazzo rimase a guardarlo dentro gli occhi spenti.

    «Ora tocca a te», gli disse.

    Il tossico stette in silenzio. Toccava a lui. O forse no. Si sarebbe potuto alzare da lì, dimenticare quell’incontro, e ciondolare sino a un altro posto, resistere per quanto era possibile e poi spararsi in vena l’ultimo schizzo. Aveva anche finito i soldi. Aveva paura a pensare cosa sarebbe stato il giorno dopo senza eroina né soldi. Un eroinomane all’ultimo stadio, senza droga e senza soldi diventa un uomo pericoloso.

    «E se non ce la faccio?»

    «Ce la fai. Stai pulito sino a stasera e ce la fai».

    «Perché non lo fai tu? Sai già tutto… fallo tu», disse con parole rallentate.

    «Te l’ho detto. Ho paura. Non posso. Non posso», il ragazzo diede dei pugni per terra maledicendo sé stesso. Prese un coltello a scatto che teneva in tasca e lo conficcò nel terreno duro tra di loro. Il tossico lo guardò.

    «Devi entrare in quella villa del quartiere Europa. Se fai come ti ho detto sarà una cosa veloce e facile. Va fatto… andava fatto. E io sono stato un coglione. Uno stupido coglione cagasotto».

    Il tossico sfilò il coltello da terra e lo osservò.

    «Questo?».

    Il ragazzo annuì.

    Il tossico guardava il coltello come per leggerci il recente passato. Lo apriva e lo chiudeva facendo scattare l’interruttore d’acciaio.

    «E il cappellino, ricordalo».

    «Verde…».

    «Sì, un cappellino verde con visiera».

    «Un cappellino verde con visiera», ripeté il tossico, come per memorizzarlo.

    «Posso fidarmi?», gli chiese il ragazzo.

    Fece un segno di assenso con la testa. Nessuno si fidava di un eroinomane, quelli come lui erano capaci di vendere la madre per una dose, questo si diceva in giro, perché allora adesso per un affare tanto delicato ci si sarebbe dovuti fidare proprio di lui?

    «Tocca a me…».

    «Sì».

    «Stasera… vado stasera. Col buio».

    «Poi sbarazzati di tutto. Non devono trovare nulla, è importante».

    Il ragazzo si alzò.

    «Tutto chiaro?»

    «Sì… sì…».

    «Ripetimi esattamente quello che devi fare».

    Lo fece senza esitazioni. Si fermò solo in un punto.

    «… a destra del cartello…». Quel passaggio se l’era perso. L’aveva sentito, l’aveva capito, ma poi era evaporato. Gli capitava sempre più spesso di non ricordare cose che sapeva di conoscere.

    «No… ascoltami. Ci sono due cartelli stradali all’esterno», ripeté il ragazzo. «In quello di destra c’è un divieto di parcheggio. Tu devi scavalcare a sinistra… no a destr… no no, a sinistra del cartello. Solo da lì, è importante».

    «Va bene…».

    «Chiaro?»

    «Sì… a sinistra del cartello divieto di parcheggio».

    «Esatto. Continua».

    Continuò senza tentennamenti sino alla fine.

    Il ragazzo rimase a studiarlo. Era uno sbaglio affidarsi a lui. O forse era l’unica possibilità. Si alzò e si voltò per non dover dire nient’altro prima di lasciarlo.

    «Oh…».

    Il ragazzo si girò nuovamente.

    «Cosa?»

    «C’hai qualcosa? Dei soldi? Sono a secco».

    Aprì il portafoglio. Aveva molte banconote, le prese e gliele consegnò tutte.

    «Te li ridò…», cercò di dirlo con un accento credibile. In tanti avevano sentito parole come quelle: Te li ridò, Te li restituisco domani, Massimo una settimana e ti rendo tutto, qualcuno ci aveva anche creduto. Ora però lui per primo avrebbe voluto sembrare sincero.

    «Ma non buttarteli in vena».

    «E che ci faccio…? Mi rifaccio i denti… per sembrare più bello? Certo che me li sparo… tutti me li sparo… non vivevo così se non ero un tossico…»

    «Non stasera».

    «No, prima no… dopo che faccio questa cosa però sì… non mi rimane altro a me… solo la roba…».

    Il ragazzo avrebbe voluto fargli un discorso saggio, inginocchiarsi vicino, guardarlo negli occhi come un adulto con un ragazzino, e illuminarlo con le parole giuste. Qualcosa sulla vita che non si deve buttare nel cesso, sulle speranze, sulle aspettative, sulle seconde possibilità. Tutti hanno diritto a una seconda occasione, ma non tutti hanno la fortuna di averla. Ecco, quello gli avrebbe voluto dire, ma sarebbe stato ridicolo.

    «Ciao Nicola», e se ne andò senza aggiungere altro.

    1

    Per arrivarci bisognava percorrere una strada bianca in mezzo alla campagna che si apriva al di là dell’estrema periferia della città. L’ultimo tratto era segnato da profonde buche sempre piene di acqua o fango, così che occorrevano molti minuti di curve per coprire i due chilometri scarsi di distanza. Si vedeva dalla città, nitidamente stagliato a turbare l’armonia dell’orizzonte piatto, ma non se ne intuiva né l’imponenza né la condizione. Nelle carte del comune si chiamava: Lottizzazione – zona Ovest, ma per tutti era solo il Palazzone, un immenso fabbricato che sarebbe dovuto diventare il primo corpo di un polo ospedaliero d’avanguardia. Il progetto risaliva a trent’anni prima, erano state poste le fondamenta, i tralicci, le divisioni tra i cinque piani e la copertura, poi, dopo un anno di lavoro, si era bloccato tutto, il cantiere era stato chiuso e nessuno si era più fatto vivo. Del progetto non se ne fece nulla, rimasero solo infinite cause giudiziarie per accertare responsabilità e quell’immenso scheletro grigio che divenne subito un luogo di ricovero per decine di tossici, extracomunitari e disperati di ogni genere.

    Gli abitanti del Palazzone si ritagliavano piccoli angoli di qualche metro quadro recintato da lamiere dove gettavano un materasso e le loro cose. Non era una vera comunità, ognuno viveva e gestiva il proprio squallore, il vicino era visto come un potenziale nemico, un ladro delle proprie infime ricchezze.

    La polizia si faceva vedere raramente, brevi sopralluoghi, arresto di qualche spacciatore, un po’ di rumore, solo per dare alla popolazione del Palazzone la sensazione di non essere completamente in una terra di nessuno, e per ricordargli che quello non era il loro posto. Tuttavia, nonostante il degrado e lo squallore, nessuno aveva veramente intenzione di demolirlo. Faceva comodo a tutti che i rifiuti della società si rifugiassero tra i pilastri fatiscenti del Palazzone; gli onesti cittadini si domandavano preoccupati dove sarebbero andati quei rifiuti qualora si fosse deciso davvero di sgombrarlo.

    A poche decine di metri dal punto in cui partiva la stradina dissestata verso il Palazzone, dietro una costruzione per la centralina elettrica, Priamo e Nicola erano seduti su una panchina in ghisa rubata anni prima da una piazzetta della città. Erano le nove di sera di un giorno di giugno, il sole era tramontato da poco ma la luce consentiva ancora una buona visibilità. Intorno a loro, ovunque si guardasse, c’erano mozziconi di sigarette, siringhe e profilattici mezzi sepolti nella terra. Priamo, un ventunenne con i capelli cortissimi, indossava una maglietta nera e, nonostante il caldo, una giacca di pelle scura con tante tasche e un’aquila stampata sulle spalle. Fumava una sigaretta dopo l’altra, ogni tanto chinava la testa e, per gravità, lasciava che la saliva accumulata in bocca colasse nello spazio di terra tra i suoi piedi. Si guardava spesso intorno, aveva lo scooter fermo a pochi metri da lui per poter fuggire in mezzo agli sterpi al primo segnale di pericolo. Rispondeva spesso al telefono con monosillabi, mai più di quattro o cinque parole, telefonate di massimo dieci secondi che iniziava sempre con un: «Sì?», e che chiudeva senza salutare.

    Nicola sonnecchiava al suo fianco, la testa reclinata in avanti e il mento sul petto. Era più grande di Priamo di qualche anno, eppure dimostrava il doppio della sua età. Portava abiti logori, una maglia grigia a maniche lunghe e jeans sporchi e stracciati. Ai piedi scarpe da tennis in tela di cui si riusciva solo a intravedere il colore blu originario.

    «Dammi del fumo», disse Nicola lentamente, trascinando le parole come faceva sempre, incapace ormai di articolare le frasi come un tempo. Era la prima volta che parlavano nell’ultima mezz’ora.

    Priamo fece finta di non sentire. Nicola si allungò sulla panchina e dopo aver cercato nella tasca dei pantaloni tirò fuori un biglietto da dieci euro. Poi sembrò ripensarci e prese anche un biglietto da venti. «Anche dell’altra roba».

    Senza guardarlo, Priamo estrasse due involti da tasche diverse del giubbotto e glieli consegnò.

    «Oggi sei carico», gli disse prendendo i suoi soldi.

    Con gesti lenti Nicola girò un cannone e lo portò alla bocca senza accenderlo. Aveva dei pensieri che gli martellavano la testa. Era nervoso e sapeva perché. Non ce l’avrebbe fatta ad andare da solo, aveva bisogno di una spalla. Entrare in quella casa da solo o con altri cambiava poco. E poi il quartiere Europa era lontano, troppo lontano per arrivarci a piedi nelle sue condizioni.

    «Oh…», disse.

    «Cosa?», rispose Priamo.

    «Facciamo una casa?»

    «Che stronzata stai dicendo?»

    «La casa di una vecchia. All’Europa».

    «Fai quello che vuoi, tu. Io non ne voglio sapere».

    «C’ha soldi e gioielli… l’ho vista andare in chiesa… con tutte le cose addosso».

    «Non mi frega nulla».

    Il telefono di Priamo squillò.

    «Sì?». Rimase in silenzio alcuni secondi. «È quasi buio… massimo dieci minuti».

    Nicola accese il cannone e diede due lunghe boccate.

    «La vecchia non c’è…».

    «Ancora?»

    «C’ha oro e gioielli».

    Priamo smise di ascoltarlo, guardò l’orologio. Era tardi, si sentiva il rumore delle auto che sfrecciavano nella strada a scorrimento veloce alle loro spalle. Dopo alcuni minuti udì il rombo del motore di una moto di grossa cilindrata e venne illuminato dal fascio di luce di un fanale che arrivava dalla loro destra. Nicola si allarmò.

    «Chi è?».

    Priamo non gli rispose. Non ci parlava mai volentieri con i tossici, erano buoni clienti, docili e affidabili, sempre puntuali agli appuntamenti, facilmente scacciabili se diventavano molesti. Non aveva amici clienti e Nicola, che conosceva da diversi anni, non faceva eccezione. Dalla moto scese un ragazzo poco più grande di Priamo, alto e robusto con le spalle rinforzate dalla palestra ma irrimediabilmente basse. Indossava jeans e scarpe griffate e una camicia bianca con le iniziali cucite in rosso all’altezza dello sterno. Tolse il casco e lo appoggiò sul sellino della moto. Arrivò davanti a Priamo quasi saltando. Era eccitato ed euforico. Guardò solo per un istante Nicola, lo identificò per quello che era poi si rivolse al pusher.

    «Dammi il meglio, cazzo! Dammi duecento carte della bamba migliore che hai!».

    Si voltò prima verso la campagna dove si riusciva ancora a intravedere lo skyline del Palazzone e poi verso la città dall’altra parte della strada.

    «Oggi la spacco questa cazzo di città!», urlò verso il cielo. «Capito? Stanotte spacco tutto, tiro tutto, bevo tutto e scopo tutto!».

    Saltellava da una parte all’altra, diede tre pugni violenti contro il caseggiato della centralina elettrica. «Spacco tutto, cazzo! Sono a mille! Sono a milleee!», urlò.

    Priamo sorrise. Kristian, con la kappa come ci teneva sempre a precisare, era un arrogante figlio di papà, spavaldo e presuntuoso, sempre pronto a ostentare i suoi soldi e i muscoli gonfiati con i pesi. Con lui sì che ci parlava, con tutti i soldi che lui e i suoi amici gli portavano ogni settimana, era d’obbligo anche scambiarci qualche parola.

    «C’hai giro di figa?»

    «Sì cazzo, sì. C’è sempre figa e io sono a mille, capito? A mille!». Andò sino alla moto ancora accesa, e senza salirci inserì la marcia, bloccò la ruota davanti e fece girare vorticosamente quella posteriore con rapide accelerate che sollevavano fumo e polvere, e mentre il motore rombava lui urlava al cielo.

    L’aria si riempì di un odore acre di benzina e olio bruciato. Spense la moto e tornò da Priamo con duecento euro nella mano. «Dammi la migliore, cazzo, dammi la migliore bamba che c’è al mondo!».

    Priamo divideva la cocaina in fiale di plastica da cento euro l’una, gliene consegnò due.

    Alla vista della cocaina gli occhi di Kristian si accesero.

    «La tiro subito, poi vado a smontarla questa cazzo di città!».

    Illuminato dal fanale versò una parte della polvere bianca sulla punta di un coltello che teneva in tasca. Nicola lo osservava mentre si preparava a tirare. Anche lui si era fatto di coca qualche volta, ma solo per provare, e gli era sembrato un modo stupido di spendere i soldi. Nulla era paragonabile all’eroina, gli effetti in vena duravano a lungo mentre la coca era come un mucchietto di fieno che brucia: una vampata veloce che illumina molto ma non riscalda.

    Mentre Kristian portava la punta del coltello vicino al naso, Nicola scorse sul manico d’acciaio qualcosa di simile a un simbolo. Non ci badò e guardò il ragazzo aspirare con vigore.

    «Sì, cazzo! Sì!», riprese a saltare da una parte all’altra, mimando gesti da pugile. «Oggi spacco culi, stanotte faccio danni, cazzo. Mi scopo le donne e spacco il culo agli uomini, eh? Credi di no? Lo faccio, cazzo! Giuro che lo faccio!».

    Non era sempre così, Kristian, ma il fine settimana gli piaceva sballarsi, perdere la ragione, uscire dagli schemi, spendere i soldi del padre e liberare il demone che gli covava dentro per poi tornare, durante la settimana, a una routine piuttosto anonima fatta di casa, studio e palestra.

    In un attimo di silenzio, Nicola disse qualcosa.

    «Cos’hai detto? Eh, Priamo, cosa ha detto quel fango del tuo amico?»

    «Non è mio amico».

    «Parlo con te, fango, cosa hai detto?»

    «Ci facciamo una casa?»

    «Cosa significa?»

    «La casa di una signora…», biascicò Nicola. «All’Europa, ci sono soldi e gioielli… lei non c’è».

    «Ti sembra che ho bisogno di soldi? Secondo te mi servono i soldi, a me? Sono pieno di soldi, mi ci pulisco il culo con i soldi, io».

    «Ma io no».

    «E sai quanto stracazzo me ne fotte a me. Tu ti fai l’ultima spada e poi muori, io invece spacco tutto, capito?». Gli berciava addosso con occhi spiritati e frenetici.

    Nicola lo guardava dal basso senza riuscire a tenere ferma la testa che ciondolava da una parte all’altra. Non voleva litigare, in un’altra occasione gli avrebbe risposto, ma non quella sera.

    «La facciamo questa casa?», ripeté.

    Kristian lo guardò in faccia per un po’. Si mise a ridere. Tirò altra cocaina.

    «Ma sì, cazzo, sì che la facciamo. Andiamo all’Europa, sgozzo la vecchia e poi vado a fottere tutta la notte». Fece volteggiare il coltello un paio di volte.

    «Non c’è la vecchia…».

    «Frega un cazzo, oggi faccio danni! Andiamo Priamo, andiamo a farci questa casa».

    «Non dire stronzate, non vorrai dare retta a questo qui?»

    «La sto studiando da giorni, la vecchia non c’è. E c’ha i soldi», intervenne Nicola.

    «Capito?», disse Kristian a Priamo, «il tuo amico fango ha studiato. Facciamoci questa casa… oggi si esagera! E se c’è la vecchia, prima me la fotto e poi la apro, cazzo, la apro in due!». Urlò. Nicola nel frattempo si era alzato. Kristian tirò un altro paio di pugni contro il muro della cassetta elettrica, poi infilò il casco.

    «Allora?», chiese a Priamo.

    «Fate quello che volete, voi due, ma a me non mi cercate».

    «Vieni anche tu», disse Kristian mostrando, per la prima volta, uno sguardo serio e credibile, «altrimenti né io né nessun altro che conosco ti compra più nulla, a te. Non sei l’unico spaccia di questa città». Rimasero a guardarsi alcuni secondi. Priamo ebbe voglia di metterlo in riga. Kristian era più alto e grosso di lui ma la sua unica forza stava nei muscoli finti da palestrato e nella cocaina che lo rendeva spavaldo. Non aveva mai fatto a pugni con nessuno. Priamo invece era nato nei quartieri popolari e si era fatto le ossa all’ombra del Palazzone, dandole e prendendole. Aveva poco da temere da uno come Kristian Ascenzi.

    Lui e i suoi amici gonfi di soldi però erano clienti eccezionali, non poteva rischiare di perderli.

    «Va bene, disse. Ma non facciamo cazzate».

    «Sì, cazzo, sì», urlò al cielo Kristian. «Caricati il fango sullo scooter e fatemi strada sino alla casa della vecchia».

    Salirono sulle moto e per vie laterali arrivarono sino a uno degli ingressi del quartiere Europa. Si fermarono in una zona buia, poco illuminata dai lampioni.

    «Seguitemi», disse Nicola, «passiamo dove non ci sono le telecamere». Sentiva forte il bisogno di eroina. Aveva la roba, avrebbe voluto spararsela in vena lì, sul marciapiede e poi lasciarsi avvolgere dall’unico effetto che ancora riusciva a dargli emozioni, sotto lo sguardo schifato di chiunque l’avesse visto, ormai insensibile a ogni perdita di dignità. Ma doveva andare fino in fondo. E non solo perché l’aveva promesso. Si stava convincendo che quella cosa doveva e poteva farla lui. Finalmente si sentiva di nuovo utile, aveva un vero obiettivo che non fosse rimediare i soldi per le dosi quotidiane. In quel momento si sentì sicuro, forte, affidabile e si pentì di aver coinvolto altre persone. L’avrebbe potuto fare da solo ma non poteva più tornare indietro. Non dopo essere arrivato a quel punto.

    «Abbiamo Lupin! Ha studiato le telecamere, il fango!», disse Kristian sempre più eccitato.

    Il quartiere Europa era una lottizzazione formata da villette singole o bifamiliari abitate per lo più dalla media borghesia cittadina. La casa da svaligiare era una villa su un unico piano, con il giardino su tre lati. Era l’unica del quartiere che non avesse mai subito una vera ristrutturazione: i muri erano scrostati in più punti, gli infissi ancora quelli originali di molti decenni prima, la base della recinzione esterna era marcia per l’umidità che risaliva dal suolo. Solo il giardino sembrava essere tenuto con cura.

    I tre erano nascosti tra due macchine parcheggiate e guardavano la villetta sul lato opposto.

    «Mi sembra un cesso questa casa», osservò Priamo. Aveva ancora la speranza di farli desistere. Aveva precedenti penali per furto e spaccio, e fra sospensione condizionale e altri benefici previsti dalla legge se l’era sempre cavata con poco. Il suo avvocato, la bella e sensuale Agnese Bacelli, gli aveva detto di non fare imprudenze. Aveva usato proprio quella parola, imprudenze, che nascondeva il vero significato che non aveva avuto bisogno di spiegare: La prossima volta che ti beccano, anche per una sciocchezza, vai in galera e sconti tutto. Se spacciare gli serviva per vivere ed era un rischio che poteva correre, entrare dentro quella casa era l’imprudenza che avrebbe dovuto evitare.

    «È avara…», disse Nicola, faticando. Sentiva i richiami dell’eroina, la crisi di astinenza che si avvicinava. Non aveva più molta autonomia, occorreva fare in fretta. «I soldi li tiene dentro, non li spende per la casa. Manco alle banche li dà».

    «Ha una risposta per tutto!». Kristian tirò altra cocaina. A lui non interessava se la casa fosse di gente povera o ricca, lui ormai voleva fare quella casa, voleva esagerare. Voleva amplificare l’effetto della droga con la febbrile eccitazione per un gesto proibito, illegale, immorale. «Se trovo un gatto, giuro che lo apro in due e glielo appendo nella camera da letto a quella vecchia!».

    «Andiamo e facciamo una cosa veloce», disse Priamo.

    Nicola ora era incerto. C’erano diversi punti in cui si poteva scavalcare con facilità il recinto e trovarsi dentro il giardino, ma uno solo era quello giusto. Vide il cartello con il divieto di parcheggio. Gli aveva detto da destra o sinistra? Aveva memorizzato ogni parola del ragazzo, ma quel dettaglio gli sfuggiva. Gli aveva anche chiesto di ripeterglielo, eppure non lo ricordava. Si sforzò senza riuscire a riempire quel buco nero. Gli sembrava avesse detto sinistra, ma poi si era corretto. O il contrario?

    «Allora, fango?»

    «Da lì…».

    Il quartiere era silenzioso e tranquillo, da quella parte non passavano automobili e le luci delle case erano spente. C’era una quiete spettrale. Prima di uscire, Priamo prese dalla tasca dei guanti in lattice e li indossò.

    «E quelli?», chiese Kristian.

    «Ne ho sempre con me, da quella volta che c’è stato il virus».

    «E ne hai altri?».

    Li aveva e li diede ai compagni.

    «Ho anche queste», disse mostrando tre mascherine chirurgiche, arrotolate e sporche che teneva da molti mesi nella tasca interna del giaccone. «Se dobbiamo fare questa cazzata, cerchiamo almeno di non farci beccare come dei coglioni. Cosa ne so se questo tossico sta dicendo la verità? Almeno così non ci riconoscono».

    «Sì, sì, sì. Siamo dei fottuti killer!».

    Indossarono tutti e tre la mascherina, poi uscirono dal nascondiglio e corsero sino al muretto esterno dell’abitazione. Nicola li seguiva, aveva difficoltà a tenere il loro passo, le sue gambe erano sempre pesanti, i movimenti rallentati, il mondo andava a una velocità maggiore della sua. Scavalcò anche lui nello stesso punto degli altri e si ritrovò nel giardino. Dall’interno era più bello di quanto si potesse percepire da fuori, c’erano molti fiori e alcuni alberi da frutta che spandevano nell’aria un odore dolce e intenso.

    Nicola fece strada sino a una finestra stretta con la tapparella abbassata per metà.

    «Solleviamola». Bisbigliò Priamo.

    La tirarono su, lentamente e senza fare rumore. Da dentro il giardino non potevano più essere visti da nessuno, ma i rumori, nel silenzio della notte, potevano richiamare l’attenzione dei vicini. Al di là della tapparella, la finestra in vetro era solo accostata, bastò spingerla, scavalcare e poi si ritrovarono dentro la casa, in un bagno di servizio collegato alla cucina. Si mossero circospetti facendosi luce con la torcia dei cellulari.

    «Dai, facciamo veloci, camera da letto, cassetti, sono là i soldi e i gioielli. Un paio di minuti, poi dobbiamo andare via». Priamo sentiva il peso dell’imprudenza, ma non gli dispiaceva l’idea di un guadagno facile. Conosceva gente che comprava a prezzi buoni. Gli sarebbe bastato trovare qualche gioiello, una collana, magari di quelle d’oro massiccio come le facevano una volta.

    La cucina dava su un lungo andito dal quale si aprivano diverse stanze su entrambi i lati.

    «Tu vai nelle prime due», disse Nicola a Priamo, «io in quelle di mezzo e lui nelle ultime… poi ci troviamo qui. Quando usciamo dividiamo».

    Nicola si mosse per primo, Kristian lo seguì subito dopo, eccitato, con il cellulare in una mano e il coltello nell’altra.

    Priamo aveva ascoltato il tossico, il piano sembrava bene orchestrato. Nicola era un eroinomane all’ultimo stadio, uno dei tanti che per uno schizzo avrebbe fatto qualunque cosa, ma non era uno stupido. I suoi ragionamenti, quando era abbastanza lucido da farli, erano lineari, parlava poco ma mai a sproposito. Facendo luce con la torcia del cellulare entrò nella prima stanza indicata da Nicola, una camera da letto piccola con due grandi armadi che contenevano coperte, lenzuola e asciugamani. Non trovò nulla di prezioso e passò nella stanza di fronte, un piccolo studiolo che puzzava di muffa, e mise all’aria i cassetti della scrivania, poi ispezionò gli scaffali della libreria che saliva sino al soffitto, dove c’erano diverse cornici con vecchie foto in bianco e nero. Quasi tutte erano di poco valore, ma lì vicino vide un bagliore che riconobbe subito. Erano tre piccole cornicette in oro, identiche, di appena cinque centimetri di lato, con alcune immagini sacre. Le prese e sentì il peso confortante dell’oro massiccio. Tolse la foto e il sostegno di legno e le mise in tasca. Era soddisfatto, si guardò distrattamente intorno per vedere se individuava qualcos’altro da prendere. All’improvviso sentì un rumore provenire dalle altre stanze. Si bloccò, pronto a fuggire. Idioti, pensò, fate piano, Cristo!. Dopo alcuni secondi sentì la voce soffocata di Kristian, ma non riuscì a comprendere cosa diceva, poi altri rumori che si confondevano con una voce che gli sembrò sempre quella di Kristian. Tornò il silenzio. Era nervoso, voleva andare via il prima possibile. Uscì dalla stanza e tornò al punto di ritrovo. Non c’era ancora nessuno.

    «Dai, cazzo!», disse bisbigliando verso l’andito. Nicola, per primo, e Kristian subito dopo, lo raggiunsero. Erano entrambi nervosi e sudati.

    «Avete trovato qualcosa?», chiese loro. Nel buio e nella fretta, non si accorse che Kristian non aveva più il coltello con sé, né che Nicola teneva tra le mani un cappellino da baseball, vecchio e malandato. Vide però che la camicia bianca di Kristian era macchiata di qualcosa all’altezza del fegato.

    Senza dire nulla Kristian lo scostò malamente e uscì dalla stessa finestra dalla quale erano entrati. Poi scavalcò il muro e scomparve.

    2

    Quando si lasciò alle spalle il cartello di benvenuto, e si trovò a guidare all’interno di una città sconosciuta, orientandosi solo con il navigatore del telefono cellulare incastrato nel cruscotto dell’auto, Giovanna Mameli si sentì come se fosse il primo giorno di lavoro. Non lo era, faceva la giornalista da trent’anni ed era stata inviata dal «Corriere» in un luogo nuovo per fare il suo solito lavoro. Era però la prima volta che lasciava i confini della Sardegna per andare a lavorare altrove, in posti di cui non sapeva nulla di più di quello che aveva appreso cercando su Wikipedia. A cinquant’anni, dopo una vita trascorsa come collaboratrice esterna in un quotidiano regionale, il «Corriere» l’aveva assunta e adesso doveva coprire un posto vacante al di là del Tirreno. Era emozionata come quando, a ventun anni, aveva scritto il suo primo articolo e l’aveva visto pubblicato sul giornale con il suo nome sotto. Si era trattato solo di un trafiletto sull’inaugurazione di una chiesa dopo i lavori di restauro, ma per Giovanna era stata una delle emozioni più forti che ricordasse. Adesso si sentiva come allora, animata dalle stesse speranze, attese, incognite.

    Era stato Tommaso Caponero, il collega milanese che si occupava anche delle edizioni locali, a comunicarle la notizia. La loro era una conoscenza solo virtuale, fatta di e-mail, telefonate e messaggi, ma sufficiente a far nascere in entrambi un interesse che andava oltre il rapporto professionale. Ogni volta che si parlavano restava tra loro un sottinteso, come se dovessero dirsi qualcosa di più, ma era ancora troppo presto per farlo.

    Giovanna parcheggiò la Ford Fiesta vicino alla palazzina dove c’era l’appartamento nel quale avrebbe alloggiato. Mentre scaricava le due grosse valigie, osservò la sua auto. Era vecchia, sporca, con molte ammaccature e un recente foro di proiettile nella portiera posteriore sinistra. Quando era ispirata lasciava intendere a chi le chiedeva spiegazioni che il proiettile contro la sua auto era stato un avvertimento perché stava conducendo inchieste scomode, il più delle volte però diceva la verità e raccontava di aver lasciato l’auto parcheggiata vicino a un cartello stradale nelle campagne di Orani che era stato usato come bersaglio da alcuni balordi con fucili da caccia. Un pallettone era finito sulla sua auto. Con il nuovo stipendio avrebbe potuto finalmente cambiare la Ford che aveva festeggiato da poco i 400.000 chilometri, ma non si decideva a farlo. Un po’ perché era sinceramente affezionata alla sua auto, acquistata faticosamente moltissimi anni prima da un amico di famiglia, un po’ perché detestava dover perdere tempo a sbrigare pratiche burocratiche. Aveva deciso quindi di imbarcarsi sul traghetto per la Penisola con la Fiesta sforacchiata e rinviare il problema a un’altra data.

    L’appartamento era piccolo ma accogliente, arredato con mobili sobri ben integrati. Per prima cosa testò il divano e ne fu soddisfatta, non era proprio come quello di casa sua che ormai si era adattato alle sue forme pesanti, ma andava molto bene. Quando stava in casa Giovanna trascorreva la maggior parte del tempo sul divano, dove scriveva gli articoli con il PC portatile appoggiato sulle cosce, faceva colazione, telefonate di lavoro oppure si rilassava. Aveva l’abitudine di cenare davanti alla televisione e addormentarsi con il sottofondo di RaiNews.

    Era metà mattina, provò anche la doccia, decisamente migliore di quella della sua casa di Oristano, e si preparò per il primo appuntamento della nuova avventura.

    Mario Inglese, che tutti conoscevano solo come l’Inglese, la attendeva seduto all’esterno di uno dei bar della piazza centrale. Aveva sessantasette anni e due grandi baffi bianchi ingialliti dal sigaro che teneva costantemente tra le labbra. Giovanna lo riconobbe dalla sua foto sul profilo di WhatsApp, e andò decisa sino al tavolo. Si presentarono formalmente, dopo essersi solo parlati una volta per telefono. Era quasi l’una, Giovanna ordinò un aperitivo.

    «Come ti senti?», le chiese Mario.

    «Stanca per il viaggio, nel traghetto ho dormito poco, e poi ho guidato per tre ore. Ma sono anche emozionata: mi sembra il primo giorno di scuola».

    Mario sorrise, riaccese il sigaro che si era spento e diede una boccata. Mario Inglese era andato in pensione un mese prima, Giovanna l’avrebbe dovuto sostituire in attesa che venissero riorganizzate le redazioni periferiche.

    «E tu? Non sei contento di essere finalmente in pensione?»

    «Diciamo di sì».

    «Diciamo?»

    «Potrei dire anche diciamo di no, la sostanza non cambierebbe. Racconto i fatti di questo pezzo di mondo da ventidue anni, ormai lo conosco, gli abitanti conoscono me, sono uno del posto di cui si fidano. Faccio due telefonate e ti scrivo il pezzo, un po’ come fanno i vecchi giornalisti impigriti. Ma sono quelli come me che danno qualità ai quotidiani. Invece mi mettono a riposo a neanche settant’anni».

    «Non ti hanno proposto neanche di collaborare?», gli chiese Giovanna. Era normale che i giornalisti continuassero a collaborare anche dopo la pensione, proprio per dare qualità al giornale e per

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