Adesso che la guerra è finita
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Il tema unificante è il rapporto con ciò che siamo stati, avremmo potuto e forse potremmo essere.
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Anteprima del libro
Adesso che la guerra è finita - Giovanni della Casa
1940
E’ IN MONTAGNA
Racconto
-E’ tuo figlio Giovanni. Vedi? Qua lo riconosci?- Teneva con la mano sinistra il portaritratti con la foto all’altezza del suo viso mentre con la destra stringeva il manico della carrozzina, chinandosi lievemente nella speranza che avvicinare i suoi occhi all’immagine potesse riuscire a forzare il riconoscimento di quel volto. Lo sguardo del vecchio si posava sulla foto come se la messa a fuoco fosse indistinta, come se la cornice o il paesaggio alle spalle di quel volto avessero la stessa importanza del viso sorridente in primo piano, accennando una sorta di sorriso imbarazzato che pareva voler dire mi spiace
. Avrebbe potuto rimanere per ore con quel mezzo sorriso davanti a quel ritratto. Lei posò delicatamente il portaritratti sul tavolino, con un sospiro raddrizzò la schiena e con entrambe le mani sui manici della carrozzina la mosse all’indietro allontanandola da quel tavolino ingombro di cornici e immagini.
-La settimana scorsa l’avevi riconosciuto, anche se non ti ricordavi il nome. Ieri, invece, niente.- Per un attimo rifletté sul fatto che in realtà non era sicura che l’avesse riconosciuto, ma le era piaciuto pensare che fosse così. -Ieri, proprio niente. E’ stato tutto il tempo davanti a te e tu guardavi il muro di fronte. Bella soddisfazione, venire a trovarti- aggiunse, in un accenno di scherzo.
Condusse la carrozzina in giro per l’ampio salotto, tra i mobili, come a cercare in questo modo di ravvivare la sua attenzione, ma soprattutto perché sentiva il bisogno di muoversi un po’. Tra un’ora circa l’avrebbe portato fuori per la solita passeggiata fino al momento del pranzo.
Lui sollevò lievemente la testa. -Ieri?-
-Sì, ieri- gli rispose.
-Non ricordo.-
Lo so che non ricordi
pensò, mentre, fermata la carrozzina davanti alla finestra, guardava fuori. Non le piaceva sostare in quel salotto, la opprimevano quel divano, quel tavolo così grande, quelle sedie che non venivano mai mosse da sotto il tavolo se non per pulirle, l’assoluta,irritante, inutilità di quel mobilio. Preferiva quando stavano in cucina, lui di fianco alla porta-finestra che dava sul terrazzo mentre lei preparava da mangiare.
Sbirciò la sua espressione. Come tante altre volte, si era rabbuiato nel vano transitorio tentativo di mettere a fuoco la memoria. Un po’ ancora la feriva, le spiaceva, cogliere quell’aspetto di frustrazione e di preoccupazione che compariva sul suo volto in quei momenti. Sapeva che sarebbe durato pochi minuti, ma le spiaceva.
-Non ricordo- ripeté. Per un po' rimase chino muovendo gli occhi a studiare il pavimento, poi alzò il capo e girò lo sguardo verso la finestra. Rimase a guardare fuori per due o tre minuti, come se gli occorresse questo tempo per capire che cosa stava osservando, poi disse: -C’è il sole.-
-Dovresti ricordarglielo, Natasha, dovresti far valere i tuoi diritti. Gli accordi erano che ogni Giovedì pomeriggio era di libertà. Dovresti farti rispettare. Una volta su due trovano qualche scusa e ti tocca restare in casa. Lo dico per te.- Olga era seduta in cucina mentre lei le preparava il caffè. -Quando nel parco non ti ho vista ho subito immaginato che era andata così anche stavolta. Se accetti sempre se ne approfittano, lo sai.-
Non rispose. Continuava ad armeggiare con la caffettiera e le tazzine. Avrebbe potuto dire che in fondo non era così importante per lei trovarsi nel parco il Giovedì pomeriggio con Olga e le altre. In effetti, non era poi così importante, per lei. Ma le sembrava potesse suonare sgradevole dirlo. - Sì, glielo farò presente- disse alla fine.
-Tutte le volte quella stronza di sua figlia trova delle scuse, sembra che solo lei abbia da fare. E poi ci sono i due figli maschi. Potrebbero anche loro darsi da fare. L’unico dei due che si fa vedere è quel Giovanni che sembra che venga a fare delle visite di cortesia.-
Rimasero in silenzio per un minuto o due, mentre sorseggiavano il caffè. Poi Olga la guardò, quando parlò sembrava cercasse le parole giuste: -Vladi si fa sentire?-
-Certo, ci sentiamo. Quando gli telefono io, è chiaro. Lui i soldi per telefonarmi non ce li ha, a sedici anni non può avere un soldo in tasca.-
-Come sta? Ce l’ha la ragazza?-
-Non glielo chiedo, si irrita se glielo chiedo e allora mostra di voler far durare il meno possibile la telefonata. Già normalmente non è molto loquace. D’altra parte, a stare così lontani finisce che si dicono sempre le stesse cose: Stai bene? Studi?.- Abbozzò un sorriso, sembrava un sorriso di giustificazione come se volesse scusarsi di qualcosa. -Sono nove anni, in questi nove anni l’ho visto quattro volte, sempre per pochi giorni. L’ultima volta facevo tanta fatica a tenerlo lì a parlare con me. Parlo sempre con lui, qua, la sera a letto prima di addormentarmi, il pomeriggio in poltrona quando posso riposarmi un po’.