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Il Barone Ungern: Vita del Khan delle steppe
Il Barone Ungern: Vita del Khan delle steppe
Il Barone Ungern: Vita del Khan delle steppe
E-book791 pagine11 ore

Il Barone Ungern: Vita del Khan delle steppe

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Info su questo ebook

Chi era Unger Khan, che i mongoli consideravano il Dio della Guerra? Il generale “bianco” che combatté i bolscevichi in Estremo Oriente sino all’ultimo, finché venne sconfitto e fucilato dopo un processo farsa? Il barone Roman Fëdorovič von Ungern-Šternberg (1886-1921) era un nobile baltico di religione buddhista dalle tendenze mistiche, che si riteneva investito di una missione provvidenziale: riconquistare l’Occidente partendo dal cuore della Mongolia.
Intorno alla sua figura è fiorita tutta una leggenda a livello popolare, romanzi, fumetti, giochi di ruolo, a riprova di come le personalità eccezionali, nel bene e nel male, si circondino di un alone mitologizzante che avvince, nonostante gli anni e il tempo che passa. Ossendowski con Bestie, uomini, dei (1922) ha impedito che la Storia lo inghiottisse e lo annullasse, facendolo diventare un simbolo tra realtà e leggenda, “l’ultimo degli antibolscevichi”, come lo definì Julius Evola nel 1938.
Leonid Juzefovič, in questa prima vera biografia storica, ricostruisce dettagliatamente la vita avventurosa, la vocazione alla guerra, le battaglie, le idee e la morte di questo eroe sui generis dell’antibolscevismo, pubblicando anche i verbali del processo a suo carico e della fucilazione, a opera dei comunisti.
Ecco che cosa vogliamo: proteggere l’evoluzione dell’umanità e lottare contro la rivoluzione:
io sono sicuro che l’evoluzione conduce alla Divinità, la rivoluzione alla bestialità.
Roman von Ungern-Šternberg
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2018
ISBN9788827228432
Il Barone Ungern: Vita del Khan delle steppe
Autore

Leonid Juzefovič

Leonid Juzefovič, laureatosi nel 1970 presso la Facoltà di Filologia dell’Università di Perm, ha poi servito nell’esercito in Transbajkalia durante gli scontri di frontiera con la Cina. Ph.D. nel 1981 con una tesi sulla diplomazia russa dal XV al XVII secolo, dal 1975 al 2004 ha insegnato Storia a Mosca. Ben conosciuto e apprezzato per i suoi romanzi polizieschi ambientati nell’Impero russo della pre-rivoluzione, pubblicati negli anni Settanta e Ottanta, deve la sua popolarità al presente lavoro storico sul Barone Ungern. Gli oltre venti romanzi di Juzefovič sono stati tradotti e pubblicati in inglese, francese, tedesco, mongolo, polacco e spagnolo, e per alcuni di essi ha ricevuto dei prestigiosi premi in Russia. Juzefovič si è inoltre dedicato alla televisione, scrivendo sceneggiature originali di grande successo nate dai suoi libri, alcune delle quali divenute serie TV molto apprezzate.

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    Anteprima del libro

    Il Barone Ungern - Leonid Juzefovič

    Prefazione

    Realtà e leggenda di Ungern Kahn

    Ecco che cosa vogliamo: proteggere l’evoluzione dell’umanità

    e lottare contro la rivoluzione:

    io sono sicuro che l’evoluzione conduce alla Divinità,

    la rivoluzione alla bestialità.

    Roman von Ungern-Šternberg

    Testa piccola, spalle ampie, capelli biondi arruffati, baffi rossi ispidi, volto magro, emaciato, come un’icona bizantina. Poi tutti i particolari scomparvero e l’attenzione fu attirata solo dalla fronte grande, sporgente sopra gli occhi d’acciaio pieni di vita, che mi guardavano come quelli di un animale dal fondo di una caverna.

    Chi era questo personaggio rivestito di una veste mongola di seta rossa, che ha una voce secca e sibilante e l’aria di essere un uomo pericoloso? È il Generale Barone Roman Fëdorovič von Ungern-Šternberg, così come viene descritto dal primo e più famoso libro che lo rivelò al pubblico occidentale subito dopo la Grande Guerra, Przez kraj ludzi, zwierząt i bogów (1922), cioè alla lettera Attraverso il paese delle bestie, degli uomini e degli dei, che, dopo l’originale edizione polacca, si diffuse con grande successo in tutto il mondo grazie alle varie traduzioni (Beasts, Men and Gods, 1923; Bêtes, hommes et dieux, 1924; Ljudi, zveri i bogi, 1925; Bestie, uomini e dei, 1925). L’autore era un ingegnere minerario polacco, ma anche chimico-fisico, giornalista, scrittore vicino agli ambienti esoterici russi e non per ultimo uomo politico: Antoni Ferdinand Ossendowski (1876-1945).

    Il suo libro di ricordi e di avventure rivelò all’Occidente due figure mitiche, quella del Re del Mondo e quella del Barone Ungern, intorno alle quali fiorirono altri libri, interpretazioni, suggestioni, discussioni. Qui ci interessa quella del secondo, anche perché è stato uno dei rarissimi vinti, dei presunti sconfitti dalla Storia che non è stato sepolto dall’oblio e dalla prevaricazione storiografica dei vincitori. Anzi, al contrario, intorno a Ungern è fiorita tutta una leggenda a livello popolare, romanzi, fumetti, giochi di ruolo, a riprova di come le personalità eccezionali, nel bene e nel male, si circondino di un alone mitologizzante che avvince, nonostante gli anni e il tempo che passa, e che scorre parallela a quella di chi crede di aver messo una pietra tombale, reale e metaforica, sui perdenti e sulle loro idee. Ossendowski ha impedito che la Storia lo inghiottisse e annullasse e Ungern è quasi diventato un simbolo, quello de l’ultimo degli antibolscevichi, come lo definì Julius Evola nel 1938, tra realtà e leggenda.

    Il Generale Barone ha suscitato ben tre vite romanzate, la prima a sedici anni dalla sua uccisione da parte dei Bolscevichi, dovuta a Vladimir Pozner, prolifico scrittore francese di origine russa, La mort aux dents (1937), tradotto come Il barone sanguinario (Adelphi, 2012), la seconda un anno dopo a opera di un autore tedesco, Berndt Krauthoff, Ich befehle. Kampf und Tragoedie des Barons Ungern-Sternberg (1938), e infine la terza per mano di un francese, Jean Mabire, Ungern le baron fou (1973), seconda edizione accresciuta come Ungern, le dieu de la guerre (1987), tradotto come Il dio della guerra. Il Barone Roman Feodorovič von Ungern-Šternberg (Edizioni di Ar, 2009). Vite romanzate, certo, ma che hanno contribuito a far aleggiare un’aura mitica intorno alla sua figura. Anche se, invero, a livello di cultura popolare è stato piuttosto un illustratore e disegnatore come il veneziano Hugo Pratt (1927-1995) a decretarne la definitiva consacrazione grazie all’incontro del suo personaggio più famoso, Corto Maltese, con il Generale Barone. Il che avvenne in Corte Sconta detta Arcana (pubblicato prima a puntate su Linus nel 1974, poi in volume nel 1980 per la Milano Libri e, in versione critica, nel 2000 per la Lizard, tradotto in varie lingue) e da cui l’artista trasse un romanzo dallo stesso titolo pubblicato postumo (Einaudi, 1996).

    Il barone folle di quella vicenda non era dunque, come molti giovani lettori degli anni Settanta e Ottanta avrebbero potuto credere, un’invenzione di Hugo Pratt, ma un personaggio realmente esistito, anche se la sua figura storica, per l’eccezionalità degli avvenimenti di cui fu protagonista, è risultata poi ammantata di leggenda e fantasia. Pratt era un uomo di vaste letture, comprese quelle esoteriche (basti ricordare , 1992, dove sono più esplicite) e di certo per ambientare storicamente l’avventura del suo marinaio nella Russia del 1919-1920, per fargli incontrare quei particolari personaggi reali – il Barone Ungern, il generale Semenov, il generale Chang (oggi traslitterato in Zhāng) – deve essersi documentato su almeno due testi reperibili negli anni Settanta, e cioè l’edizione di Bestie, uomini, dei, da me curata per le Edizioni Mediterranee nel 1973 (una nuova edizione, ritradotta e arricchita, è uscita nel gennaio 2000), e la citata prima edizione del romanzo di Jean Mabire, uscita sempre quell’anno. Non ci possono essere dubbi in proposito: Pratt riprende dati, ricostruzioni, vicende da questi due testi, considerando anche che nell’opera di Mabire viene inserito tutto l’episodio che vede per protagonista Ossendowski. Da qui una inaspettata popolarità del Generale Barone, con descrizioni e dialoghi attinti dal libro di quest’ultimo.

    Chi era dunque questo personaggio che, con il contorno di altri comprimari, affascinò tanto Ferdinand Ossendowski, Vladimir Pozner, Bramd Krauthoff, Jean Mabire e infine Hugo Pratt? Oggi lo possiamo sapere nei minimi particolari dopo la pubblicazione di una vera biografia basata sulla realtà, quella del romanziere e storico russo Leonid A. Juzefovič, Samoderzec pustyni. Fenomen sud’by barona R.F. Ungern-Šternberga (1993) che ebbe una traduzione francese, la cui seconda edizione, totalmente riscritta e raddoppiata, è apparsa nel 2010. Essa ricostruisce in ogni dettaglio la vita avventurosa, la vocazione alla guerra, le battaglie, le idee e la morte del nostro eroe, pubblicando anche i verbali del processo a suo carico e la fucilazione a opera dei comunisti nel 1921. E non è che la vera realtà della storia sia meno affascinante e terribile di quella romanzata nota sino a oggi…

    L’opera, la cui traduzione italiana basata sulla seconda edizione russa è stata curata da Paolo Imperio, non ha soltanto un valore di per sé, per aver fatto conoscere le vicende accertate del Barone Ungern-Šternberg, ma ha anche un valore come qualcosa di simbolico. Essa esce infatti nel centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, un evento epocale che cambiò i destini del mondo insieme al crollo degli Imperi centrali, sconvolgendo per sempre un assetto geopolitico non solo del Vecchio Continente. Tra le migliaia e migliaia di libri a essa dedicati, spesso apologetici, nel corso dei decenni ci sono certamente state anche le storie degli avversari del bolscevismo soprattutto nei primi anni dopo la vittoria della rivoluzione, ma nulla che dal punto di vista essenzialmente storico sia stato dedicato al Barone, sino appunto a Leonid Juzefovič. Ungern, un militare, non è stato seppellito dal discredito e dal disprezzo o dalla dimenticanza. Al contrario, come si è detto, è poco alla volta assurto quasi a eroe della letteratura popolare.

    L’Impero sovietico è durato settanta anni ed è collassato come un castello di carte, corroso dall’interno, senza che nessun esperto e storico lo avesse previsto, lasciando tutti di stucco e dietro di sé una scia di oltre cento milioni di morti in tutto il mondo, come ha documentato senza possibilità di smentite Il libro nero del comunismo (Mondadori, 1998) scritto da un gruppo di specialisti francesi, con un calcolo considerato da molti addirittura al ribasso. Morti che in genere non si ama ricordare perché del comunismo sono valide solo le speranze di riscatto che suscitò nei lavoratori di tutte le nazioni d’Oriente e Occidente, e il costo umano che esso causò passa in secondo piano rispetto alle buone intenzioni che aveva e che cercò di mettere in pratica con metodi terribili e sanguinari, ragionamento che non si fa mai nei confronti di altre ideologie che, pur avendo provocato assai meno morti complessivi, non si pongono in parallelo e vengono condannate senza appello in eterno… E infatti in Italia nel 2017 nel corso di due processi pubblici con tanto di storici come difesa e accusa, sia la Rivoluzione d’Ottobre in sé, sia Lenin come suo principale esponente sono stati assolti ai punti dai voti popolari e degli storici, e Lenin in particolare definito un utopista. Nessuno a quanto pare ha ricordato che la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni

    Ricordare un eroe sui generis dell’antibolscevismo come il Generale Barone Ungern-Šternberg proprio in questo anniversario ha un po’ il sapore del riscatto nei confronti di tutti coloro che al comunismo si opposero con le idee e con le armi e che sono caduti nell’oblio storiografico. E Ungern lo fece nonostante gli fosse stato predetto almeno due volte il suo destino, come racconta Krauthoff nel suo libro dove certamente s’intrecciano realtà e fantasia: egli ebbe il primo vaticinio sul suo futuro allorché incontrò il Principe Djam Bolon (Džambalon), che si ritrova anche in Bestie, uomini e dei, il quale lo portò da una potente sciamana che così gli predisse il futuro e la tragica fine: Vedo il Dio della Guerra. Egli cavalca su un grigio cavallo sulle nostre steppe e sulle nostre montagne. Dominerai su un grande territorio, o bianco Dio della Guerra. Vedo sangue, molto sangue. Il cavallo… (seguono mormorii incomprensibili). Molto sangue. Rosso sangue… non vedo più nulla. Il bianco Dio della Guerra è scomparso.

    Ma il Generale Barone non era solo una macchina da guerra: in base a quale visione del mondo egli agiva e combatteva? A Ossendowski, Ungern spiega: Tutta la mia vita l’ho passata a far la guerra e a studiare il Buddhismo. Mio nonno ci portò il Buddhismo dall’India, e mio padre ed io lo accettammo e lo professammo. In Transbajkalia, ho tentato di formare l’Ordine Militare Buddhista per combattere senza quartiere la depravazione rivoluzionaria. Così riporta Juzefovič: Mio nonno ci fece conoscere il Buddhismo di ritorno dall’India e mio padre e io ne facemmo la nostra religione. In Transbajkalia ho cercato di istituire l’Ordine Militare Buddhista per combattere la depravazione rivoluzionaria.

    Le idee del Barone Roman von Ungern-Šternberg sono anche quelle che egli espone nelle conversazioni con Corto Maltese: la guerra contro cinesi e Rossi era soltanto un elemento accidentale di un più vasto combattimento, fisico e metafisico, fra Luce e Tenebre, Spirito e Materia, influenzato dalla apocalittica cristiana e buddhista. Nei testi buddhisti e negli antichi libri del Cristianesimo, dice a Ferdinand Ossendowski, si leggono gravi profezie sul tempo in cui dovrà cominciare la lotta fra gli spiriti del bene e gli spiriti del male. Allora verrà la Maledizione sconosciuta che invaderà il mondo, cancellerà la civiltà, ucciderà la morale e distruggerà i popoli. La sua arma è la rivoluzione. E poi: La rivoluzione è una malattia infettiva: l’Europa, entrando in trattative con Mosca, si è ingannata e ha ingannato il resto del mondo.

    Durante un tempestoso viaggio nella notte a bordo di una enorme e potente Fiat rossa chissà come arrivata sin lì, il Generale Barone spiega ancora all’attonito ingegnere polacco quale fosse la sua idea su uno Stato asiatico, primo passo per un Impero universale: Se l’umanità impazzita e corrotta vuole ostinarsi a combattere l’elemento divino che ha dentro di sé, a far scorrere il sangue e a opporsi al progresso morale, lo Stato Asiatico deve opporsi e farla finita; deve stabilire sui continenti una pace sicura e durevole. L’utopico intento di Ungern era, parole sue, sollevare tutta l’Asia e col suo aiuto riportare sulla Terra la pace di Dio. Io voglio avere la coscienza di aver lavorato per la grande idea col liberare la Mongolia.

    Idee troppo grandiose e troppo poco legate alla realtà per solleticare i suoi momentanei alleati. Una serie di lettere spedite da Urga (oggi Ulàn Bàtor), da lui conquistata il 4 febbraio 1921, ad alcuni politici e militari cinesi, russi, tibetani per farli partecipi del suo progetto annunciando uno scontro epocale tra le forze della luce e quelle delle tenebre, non ottiene (ovviamente) riposta. Per uscire dallo stallo il Barone lascia Urga il 21 maggio 1921 con la sua Divisione Asiatica di Cavalleria ridotta a poche migliaia di uomini di molte nazionalità diverse, solo un terzo dei quali russi.

    Prima della partenza un’indovina, come riferisce Ossendowski, gli aveva predetto solo centotrenta giorni di vita. Al che Ungern avrebbe esclamato: Debbo morire! Debbo morire!… Ma non importa, non importa. La causa è in cammino e non muore. Emanò quindi l’Ordine n. 15, un vero e proprio testamento spirituale, una ventina di pagine che furono stampate a grande tiratura, a quanto pare: tra le altre cose si affermava di voler combattere per una Russia unita sotto il suo legittimo capo (e infatti la Divisione Asiatica era entrata in Transbajkalia sotto la bandiera tricolore con l’aquila bicipite dei Romanov e il monogramma dell’imperatore Michele II), si ordinava di eliminare tutti i commissari politici bolscevichi, si annunciava la massima durezza per sradicare il male giunto sulla terra ad annientare il principio divino nell’animo umano e si concludeva affermando che per il mondo era necessaria la pace, bene supremo del Cielo.

    È evidente che una personalità del genere, fuori dal comune e al di là del comune, una personalità eccezionale sopra la norma, non potesse che interessare in quanto personaggio storico e simbolico Julius Evola che recensì subito il libro di Krauthoff prima sul quotidiano Il Regime fascista del 2 dicembre 1938 e poi più ampiamente sul mensile Bibliografia fascista del gennaio 1939, dove spiegò perché Ungern fu quel che fu, soprattutto il suo ascetismo, la sua impermeabilità ai sentimenti da tutti accettati e la sua intransigenza ideale e morale, non certo per alcuni sfortunati casi personali ma in parte per il proprio retroterra spirituale (il Buddhismo), e anche perché la figura del von Ungern rimanda invero ai caratteri uniformi riscontrabili in tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno spostato la loro coscienza in un piano superiore, più che umano, al quale non possono più applicarsi le ordinarie misure, i comuni concetti di bene e di male. Sono le qualità che spesso accompagnano i cosiddetti ‘uomini del destino’, e tale avrebbe potuto essere il Barone von Ungern, un ‘Capo’ nel senso più alto del termine, se egli avesse incontrato una congiuntura di circostanze favorevoli e, soprattutto, se le nazioni europee non avessero tradito o abbandonato a se stesse quelle forze russe, che ancora combattevano per la controrivoluzione e che all’Ungern avrebbero potuto aggregarsi. Ciò non avvenne, e l’esistenza del Barone ebbe solo il bagliore fugace e tragico di una meteora.

    Sconfitto sul campo, tradito dai suoi, il Generale Barone nel tardo pomeriggio del 17 agosto, quasi tre mesi dopo essere partito da Urga, viene consegnato a Shetinkin (Ŝetinkin), membro del Soviet Militare e capo dei partigiani dello Ienissei, di cui si dice fosse addirittura stato un buon amico di Ungern sul fronte della prima guerra mondiale. Il 15 settembre 1921, il Barone viene condotto davanti al Tribunale rivoluzionario straordinario della Siberia. Di quel processo qui vengono pubblicati i verbali. I commissari politici gli chiedono che cosa pensi dell’Internazionale ed egli risponde: A mio giudizio l’Internazionale è nata tremila anni fa a Babilonia. È ovvio che intendeva riferirsi sia alla Torre di Babele, simbolo di ogni confusione, sia alla città biblicamente considerata madre di ogni fornicazione e di tutti i terrori della Terra. Viene così confermata la sua visione del mondo, il suo intendere la rivoluzione come il nemico del genere umano, di cui quella bolscevica era solo l’ultima incarnazione, e quindi quel suo intendere quella che aveva combattuto una guerra non tanto e non solo contro le truppe russe, mongole e cinesi, ma contro gli spiriti del male.

    Un personaggio del genere non poteva che essere fucilato, e così fu. L’udienza venne aperta a mezzogiorno del 15 settembre 1921. Appena cinque ore dopo, alle 17 e 15 fu letta la sentenza, che verrà eseguita la sera o la mattina successiva a Novo-Nikolaevsk, oggi Novosibirsk. Erano trascorsi quasi i centrotrenta giorni di vita che gli erano stati predetti…

    Ungern viene condotto davanti al plotone d’esecuzione in un bosco ai confini della città: cinque guardie rosse in piedi e cinque in ginocchio: Avrei preferito essere fucilato da soldati piuttosto che da miliziani, fa pensare al Barone Jean Mabire nel suo romanzo. Ungern si domandò se dovesse gridare qualcosa. Ma non aveva più nulla da dire. Né a quelli. Né a nessun altro. In un attimo i templi di Urga si sovrapposero ai contrafforti di Reval. Immagine fuggitiva di un monastero-fortezza. Ecco: l’Ordine guerriero… Le canne nere dei dieci fucili puntati sul petto. La morte a quattro passi. In faccia. – Fuoco!.

    Racconta Leonid Juzefovič che, secondo voci da lui raccolte sin dal 1972, colpito, Ungern sarebbe caduto, ma all’esame del corpo sarebbe stata trovata una sola ferita, una pallottola sparata da una Mauser, il solo colpo che si sarebbe rivelato fatale, mentre tutte le altre ferite non lo sarebbero state. Ma ciò si sarebbe potuto verificare soltanto se gli uomini del plotone fossero stati colti da una profonda eccitazione che avrebbe impedito loro di colpire il bersaglio, o da una paura superstiziosa nei riguardi di Ungern per la quale avrebbero volutamente tirato a lato.

    Così morì a soli trentacinque anni il Barone Roman Fëdorovič von Ungern-Šternberg, comandante della Divisione Asiatica di Cavalleria, che aveva avuto il sogno di creare uno Stato nel cuore dell’Asia talmente forte da contrapporsi alla Rivoluzione, che entrò nella leggenda, nei romanzi e nel fumetto di Hugo Pratt: Avanti… alla ricerca delle nostre follie e delle nostre glorie!.

    I ferri dei cavalli segnano sempre la stessa iniziale nelle steppe infinite: la U di Ungern, Junker del Baltico e Khan della Mongolia, per lungo tempo da Mongoli e Tibetani considerato ancora vivo e la cui immagine era venerata nei templi buddhisti, come accade per i personaggi-simbolo nel bene e nel male, tuttora presente nell’immaginario collettivo e popolare prevalendo così sull’odio, l’oblio, la rimozione pubblica e storiografica che in genere colpiscono i cosiddetti vinti della Storia. Ma non sempre è così, per nostra fortuna.

    Gianfranco de Turris

    Introduzione dell’Autore all’edizione italiana

    La pubblicazione del libro in una lingua straniera è un evento importante per l’autore, ma questo evento può essere segnato da un dubbio, e cioè se il suo libro, scritto nel contesto di una cultura nazionale, possa essere adeguatamente capito all’estero. Nel caso del mio Il Barone Ungern queste preoccupazioni erano più acute, poiché il libro è dedicato a eventi accaduti in Siberia e in Mongolia; molte delle realtà di questi luoghi non sono infatti sempre chiare neanche per il lettore russo di Mosca o di San Pietroburgo, per non parlare del lettore italiano. Tuttavia, i miei timori sono stati vani: Paolo Imperio ha agito non solo come traduttore, ma anche come interprete. Sapevo che l’Italia è un paese di alta cultura umanistica, ma sono rimasto impressionato dalla completezza delle osservazioni fatte da lui. Esse testimoniano una profonda immersione nel tema, che devo confessare non mi aspettavo da una persona di diverse tradizioni culturali.

    Sono stupito dagli ampi commenti riportati in nota. Infatti poiché per il lettore medio russo è più facile districarsi tra figure storiche, date e toponimi del mio libro di quanto non lo possa essere per un lettore colto dell’Europa occidentale, certi fatti che in Russia non hanno bisogno di precisazioni nel contesto di altre culture devono essere articolati e spiegati. Ecco perché dal momento che viviamo una stessa storia – e i confini politici, geografici, linguistici che ci separano sono parte di una sola eredità storica, le cui unicità come le molteplicità di questa comune ricchezza sono indubitabili quanto la sua unità – per una vera traduzione non ci si può limitare a trasporre un testo da una lingua all’altra, ma ci si deve rendere interpreti: è molto importante, nel mondo d’oggi, far sì che l’esperienza storica di un popolo entri a far parte della memoria culturale di un altro.

    Leonid Juzefovič

    Introduzione dell’Autore all’edizione russa del 2010

    Questa è una versione nuova, riveduta e ampliata, del libro pubblicato nel 1993 ma portato a termine tre anni prima. Ho corretto gli errori riscontrati nella prima edizione, ma certamente ne avrò fatti degli altri, perché non commettono errori solo quelli che ripetono cose ben note. Ci sono molti fatti nuovi, la maggior parte dei quali sono tratti dai materiali pubblicati da S.L. Kuz’min nelle due monografie: Il Barone Ungern nei documenti e nelle memorie e Il Barone leggendario: pagine sconosciute della guerra civile, ma con molte più osservazioni, interpretazioni e analogie. Più ampia rispetto alla prima edizione, in questa ho inserito testimonianze, leggende, storie e lettere di persone i cui antenati o parenti furono coinvolti nell’epopea della Mongolia e del Barone, e anche se la loro affidabilità è spesso discutibile esprimono comunque lo spirito del tempo non meno brillantemente di altri documenti. In questo ho seguito Erodoto, che riteneva suo dovere riferire tutto, ma non credere a tutto. Ho cercato di dare uno sguardo più da vicino a Ungern, e con molta più attenzione mi sono rivolto al mondo in cui viveva e alle persone in qualche modo a esso collegate. Questa è probabilmente la differenza principale tra la nuova edizione e la precedente.

    Nei diciassette anni seguiti all’uscita del mio libro, e forse in parte a causa sua, il Barone Sanguinario è diventato una figura popolare. Come ogni personaggio della cultura popolare, ha acquisito lustro, ma ha perso molto del suo spessore. Ora è più facile parlare di lui. Ora è l’idolo dei radicali di sinistra e di destra, l’eroe di romanzi pulp, di fumetti, giochi per computer e sette selvaggiamente politicizzate che lo dichiarano loro precursore. Una volta lo si poteva considerare come un perdente in una battaglia impari, mentre ora ci guarda dall’alto della sua vittoria postuma e gloriosa. Come in precedenza, ho cercato di essere obiettivo, ma l’obiettività è sempre limitata dal singolo osservatore. Non voglio dire di essere rimasto lo stesso nel corso degli ultimi due decenni, sarebbe ridicolo, poiché con il tempo si diventa altro. Non voglio dire di esser cambiato rispetto al passato, anche se non sarebbe un’affermazione così futile, ma voglio dire che quanto più il passato si allontana da noi, tanto più ci può raccontare del presente. Ma non perché il presente è simile al passato, quanto perché in esso traspare più distintamente l’eternità.

    Leonid Juzefovič

    I Reggimenti stavano fermi come fossero sculture,

    silenziosi e talmente pesanti che sotto i loro piedi lentamente cedeva la terra.

    Ma ai Reggimenti mancavano i vessilli…

    Sulla pianura un secondo sole stava sorgendo.

    Era debole. I Reggimenti accecati chiusero gli occhi sapendo

    che quel sole erano bandiere.

    Vsevolod Višnevskij (1930)

    Ma un Napoleone non l’abbiamo previsto.

    Dov’è la nostra Corsica?

    E la Georgia, l’Armenia? La Mongolia?

    Maksimilian Vološin (1918)

    In ogni generazione ci sono anime felici o accidenti,

    che nascono senza sosta,

    solo a metà riguardano la famiglia, il luogo, la nazione, la razza.

    Salman Rushdie (1999)

    Porte di ferro di grandi dimensioni

    Vanno aperte con chiavi di valore.

    Guntan-Banbi-Donmo XVII v.

    Premessa dell’Autore

    Nell’estate del 1971, esattamente cinquant’anni dopo che Roman Fëdorovič von Ungern-Šternberg – Barone baltico, generale russo, principe mongolo e marito di una principessa cinese – venisse catturato e fucilato, sentii dire che era ancora vivo. Mi fu detto dal pastore Bol’ži, del villaggio buriato di Èrhirik non lontano da Ulan-Udè. In quei giorni, la nostra Compagnia di fanteria motorizzata partecipava a delle esercitazioni tattiche per sperimentare delle tecniche di assalto con dei carri armati T-54. Due anni prima, durante i combattimenti a Damanskij, i Cinesi, armati di lanciagranate portatili, si muovevano abilmente riuscendo a incendiare i nostri carri che avanzavano verso di loro, venne così deciso di sperimentare una tattica non presente nei manuali militari: durante l’assalto non avremmo dovuto seguire i carri approfittando della loro protezione, come di prassi, ma precederli distruggendo a colpi di mitragliatrice i lanciagranate cinesi. All’epoca ero soltanto luogotenente e non stava a me giudicare l’intelligenza di quella idea. Fortunatamente, né a noi né a nessun altro toccò testarne realmente l’efficacia. Il teatro di guerra cinese non era destino che si aprisse, ma a quell’epoca non lo sapevamo.

    In quel villaggio vi era un piccolo allevamento di cui Bol’ži era il mandriano, e ogni mattina portava i vitelli al fiume nei pressi del quale la nostra Compagnia era impegnata. Piccolo come il suo cavallo mongolo, da una certa distanza sembrava un bambino su un pony, ma era lui. Credo non avesse meno di cinquant’anni. Il suo cappello nero dai bordi stretti non poteva nascondere il biancore dei suoi capelli a spazzola. I suoi capelli sembravano di un bianco abbagliante in confronto al marrone del suo collo rugoso. Bol’ži non toglieva mai il suo cappello né il suo soprabito in tela, neanche nelle ore più calde della giornata. A volte, mentre i vitelli erano al pascolo nei pressi del fiume, li lasciava per venire a guardare le nostre manovre. Una volta gli portai un piatto di minestra, che accettò prontamente: un osso di agnello con qualche traccia di carne rossastra tra il grasso, sotto orzo e fette di patata. Prima Bol’ži mangiò la carne, e solo dopo prese il cucchiaio per mangiare il resto della minestra. Mi spiegò perché un militare dovrebbe mangiare la minestra in quell’ordine: Scoppia improvvisamente una battaglia? Bang-Bang! Bisogna mollare tutto, andare avanti! […] e la cosa più importante non è stata mangiata. Dal tono mi sembrò che quella regola derivasse dalla sua esperienza personale, e non dal tesoro della saggezza popolare, da dove poi generosamente richiamò altri suggerimenti.

    Nei giorni successivi, se Bol’ži non si mostrava durante la pausa pranzo ero io ad andare da lui. Di solito era seduto sulla riva del fiume, ma non rivolto al fiume come avrebbe fatto qualsiasi Europeo, bensì voltato di schiena. L’espressione dei suoi occhi era quella che si ha quando si vede colare dell’acqua o si vedono danzare le lingue di fuoco di un incendio. Stava guardando gli aliti di aria calda che fanno vibrare la steppa dandogli quel movimento perpetuo e misterioso, emozionante e rilassante allo stesso tempo. Vicino, a portata di mano, ha sempre avuto due cose: un thermos di tè e un romanzo, il pluripremiato Gengis Khan di Vassilij Grigorevič Jančeveckij detto Jan, che una casa editrice locale aveva pubblicato tradotto in lingua buriata.

    Non mi ricordo di cosa stavamo parlando quando Bol’ži improvvisamente disse che voleva offrirmi un amuleto gao¹, e che se lo avessi messo nel taschino della camicia, o appeso al collo, mi avrebbe protetto in battaglia. Non ricevetti mai quell’amuleto, tuttavia non era il caso di prender sul serio quella promessa. In sé non era niente di più che un modo per esprimere i suoi sentimenti di amicizia e non imponeva alcun obbligo per lui. Per questo non si può avere il coraggio di considerare quella promessa come una menzogna deliberata: per Bol’ži era importante l’intenzione in sé. Il concepire una buona azione senza dargli seguito non poteva dunque trasformarsi nel suo opposto, né costituire una macchia per la sua anima. Proprio in quel momento voleva dirmi qualcosa di bello, ma non gli era venuto in mente nulla di meglio che promettere quell’amuleto.

    Non tanto per sottolineare il valore del dono, quanto quello del momento, mi disse poi che anche il Barone Ungern portava un gao ed è per questo che non poteva essere stato ucciso. Meravigliato dissi: Tutti sanno che è stato fucilato!. Mi rispose, come se fosse una cosa evidente a tutti e nota da tempo, che era ancora vivo e abitava in America. Poi, con un minor grado di certezza Bol’ži aggiunse che Ungern era il fratello di Mao Zedong, concludendo: Questo è il motivo per cui l’America ha deciso di essere amica della Cina.

    Se la concezione di Washington considerava ancora Taiwan come unico Stato cinese, riconoscere la Cina e stabilire relazioni diplomatiche con essa poteva essere interpretato come una resa della Casa Bianca di fronte alla realtà dell’epoca, ma da parte sovietica non c’era stata esultanza. I giornali con parsimonia e senza alcun commento, cosa successa di rado quando si trattava di analizzare simili argomenti, scrissero di presunte spedizioni di attrezzature militari americane in Cina. Aneddoti popolari su come lo Stato Maggiore cinese discutesse un piano di attacco contro il suo vicino settentrionale – Prima lanceranno un milione di soldati, poi un altro milione e poi i carri armati, Come? Così…, No, al contrario… – sembravano aver perso la loro rilevanza. Tuttavia, temevamo il fanatismo dei soldati cinesi. Si diceva che a Damanskij e a Semipalatinsk non si erano arresi. Lo si raccontava con un misto di rispetto, considerando quella superiorità come un qualcosa che anche noi avremmo potuto avere, che avevamo avuto una volta ma che avevamo abbandonato in nome di nuovi valori forse più elevati. Bol’ži mi parlò, con lo stesso spirito, di uno sciamano che viveva non lontano da lì, del quale erano riconosciute certe capacità non possedute dal lama del Dacan² di Ivolginskij, ma allo stesso tempo, del fatto stesso che la sua straordinarietà non contribuisse a elevare la figura di quell’uomo, ma al contrario lo spingesse in fondo alla scala sociale.

    Si diceva che i Cinesi usassero l’AKM³ con la stessa precisione di un fucile, che fossero estremamente resistenti, malgrado una dieta quotidiana che consisteva in un solo pugno di riso, e che i fanti arrivassero a superare quasi un centinaio di chilometri al giorno. Secondo alcune voci, l’area a nord di Pechino sarebbe stata protetta da innumerevoli linee di trincee e bunker sotterranei così estesi da contenere Battaglioni interi, e così accuratamente mascherate da correre il rischio di lasciarsele alle spalle per poi ritrovarsi costantemente bersagliati da fuoco incrociato. Ci calmavano soltanto le storie sulla nostra arma segreta appositamente escogitata per combattere quelle folle di milioni di fanatici, e sapere che le nostre postazioni sulle colline erano state trasformate in fortezze inespugnabili, dove dietro lo strato di torba e i cespugli di rosmarino selvatico era stata nascosta, protetta da strati di cemento, una pianta mortale con un nome gentile e la potenza di un tifone: il Fiordaliso. Tuttavia, nessuno sapeva niente di preciso. Nelle ultime pagine dei giornali Mao Zedong appariva come un personaggio reso ridicolo da un’infinità di scherzi, mentre nel frattempo, nella regione della Transbajkalia, venivano spostate la fanteria e le Divisioni corazzate dell’ex Distretto Militare di Odessa.

    Dei numerosi Cinesi: mercanti, albergatori, raccoglitori di ginseng e agricoltori, che avevano invaso la Siberia all’inizio del XX secolo, e delle centinaia di migliaia di scavatori affamati, dopo l’inizio della guerra, non ne era rimasta traccia. In qualche modo erano spariti improvvisamente, tutti in una volta. Partiti abbandonando le loro mogli russe, obbedendo a un lontano richiamo imperioso e impercettibile alle nostre orecchie quanto lo è un ultrasuono. Sembrava dunque che non ci fosse più nessuno a spiarci, ma per qualche motivo eravamo convinti che Pechino sapesse tutto di noi. Alcuni prendevano Buriati e Mongoli per dei Cinesi travestiti o per delle spie. Quando arrivai all’Unità alla quale ero stato assegnato, l’ufficiale di servizio mi disse fiero: Bene fratello, sei fortunato. Abbiamo un tale Reggimento! Che Reggimento! Mao Zedong in persona conosce i nomi di tutti i nostri ufficiali. La cosa più divertente è che io ci credei.

    Tuttavia, malgrado tutta la mia ingenuità di allora, non potei credere che Ungern e Mao Zedong fossero fratelli. Ero però preoccupato del fatto che li avessero collegati fra loro in maniera durevole e nella stessa area geografica. Solo più tardi mi resi conto che non fu per caso che Bol’ži avesse ricordato Ungern. Era un’epoca in cui le vecchie leggende su di lui rinascevano come per necessità, e in cui se ne creavano di nuove. Le steppe della Mongolia e della Transbajkalia non avevano mai dimenticato il suo nome e malgrado quanto si fosse detto sulle ragioni del nostro conflitto di allora con la Cina, in un clima di scontro irrazionale, la figura del Barone folle, buddhista e propagatore del pan-mongolismo, non poteva non riemergere. Inoltre, non era la prima volta per lui. In Mongolia era diventato l’eroe di un mito non creato dallo Stato ma dalla realtà, un essere quasi soprannaturale, capace di fare l’impossibile, morire e poi rinascere. A nord dell’effimero confine di Stato tra Mongolia e URSS, incredibili storie sul suo salvataggio miracoloso circolavano già prima del mio incontro con Bol’ži. Venuto il momento giusto, si era alzato dalla sua tomba senza nome dispersa intorno a Novosibirsk e a lungo rimasta sotto le fondamenta degli edifici urbani della città.

    Ungern, a giudicare dalla scena e dai risultati delle sue operazioni militari, può essere considerato una figura locale, il prodotto di un determinato momento e luogo. Tuttavia, se valutiamo le sue idee, che avevano poco a che fare con l’ideologia dei Bianchi – dato che i suoi piani riguardavano la ricostruzione dell’ordine mondiale esistente – e la coerenza tra gli obiettivi e i mezzi di cui disponeva, il fenomeno assume una dimensione del tutto diversa.

    Ma Ungern fu anche uno di quei personaggi del XX secolo che fecero il ben noto percorso durante il quale il cavaliere errante si trasforma in bandito da strada, il sognatore in boia e il mistico in dottrinario. Spesso coloro che cercano di tornare all’Età dell’Oro, fanno ricadere la Terra non all’Età del Bronzo ma della Pietra. Tuttavia, né questo, né il precedente, né qualsiasi altro schema si adatta del tutto alla figura di Ungern. In lui è possibile vedere, per chi vuole: il combattente fanatico contro il Bolscevismo, un Eurasiatista in sella, un moderno ribelle, il messaggero del prossimo scontro globale tra Oriente e Occidente, il precursore del Fascismo, il creatore di una delle più sanguinose utopie del XX secolo, il filosofo condottiero e autodidatta, il grezzo estratto tossico di grandi idee, il cavaliere della Tradizione, o uno di quei piccoli tiranni che crescono sulle rovine dei grandi imperi. Ma da qualsiasi angolazione lo si voglia guardare, qualcosa resta sfuggente allo sguardo. Potremmo dire che la figura di Ungern, ancora circondata dal mito, ci sembra misteriosa, ma il mistero è nascosto non tanto in essa quanto in noi stessi, ed è lì che ci pone nella contraddizione tra il desiderio di ammirarne il carattere e il senso di colpa di fronte alle sue vittime; tra la speranza che il bene trionfi sulla malvagità, e la nostra esperienza che ci parla dell’inutilità di quella speranza; tra la fede persa nell’uomo e il rispetto per la grandezza delle sue opere. Infine, ci pone tra il rifiuto del nuovo ordine mondiale e la percezione di prossimità alle arcaiche forze della natura, in qualsiasi momento pronte a irrompere attraverso il sottile strato della nostra civiltà: la nota tentazione di trovarsi in bilico sull’orlo tra estasi, paura e disgusto. Quindi, forse, è questo il nostro interesse acuto e doloroso verso quest’uomo.

    Leonid Juzefovič


    1 Il gao – conosciuto anche come Ga’u – è un amuleto protettivo indossato dalle popolazioni di Tibet, Nepal, Buthan e Mongolia. Si tratta di un contenitore in argento di varia forma e incastonato di pietre dure o preziose. Viene considerato come una potente difesa dalla malasorte, dalle malattie e da tutto ciò che possa in un modo o nell’altro arrecare danno alla persona. Spesso indossato come gioiello, racchiude al suo interno un mantra e delle piccole reliquie, come ad esempio oggetti benedetti da un lama, frammenti di vesti monastiche o anche immagini raffiguranti divinità o protettori del Dharma (NdT).

    2 Dacan è il termine usato per indicare i monasteri universitari buddhisti del lignaggio tibetano dei Gelug-pa situati in Mongolia e in alcune zone della Cina e della Federazione Russa. In un Dacan normalmente ci sono due Dipartimenti: il filosofico e il medico. In alcuni vi è anche il Dipartimento tantrico, cui i monaci possono accedere dopo aver superato gli esami di Filosofia. Nella Russia pre-rivoluzionaria, i Dacan erano quasi esclusivamente situati in Buriazia, Transbajkalia e Siberia, ma con una concezione amministrativa diversa da quella tibetana. In Tibet, diversi Dacan erano concepiti come centro d’irradiazione verso istituti minori sparsi su più ampi territori, in Russia piuttosto come centri educativi e religiosi indipendenti e dunque come sinonimo di monastero (NdT).

    3 AKM (Avtomat Kalašnikova Modernizirovanniy) è una variante più moderna del fucile d’assalto AK-47 che fu introdotto in servizio all’esercito sovietico nel 1959, la versione più diffusa della serie Kalašnikov. Ufficialmente sostituito in servizio di prima linea dall’AK-74 negli anni Settanta, è tuttora ampiamente usato in tutto il mondo (NdT).

    1. Frecce nella faretra di Dio

    Nel 1893, il buriato e buddhista praticante di medicina tibetana convertito al Cristianesimo ortodosso, Pëtr Aleksandrovič Badmaev, consegna al suo padrino Alessandro III un memorandum dal titolo significativo: Sull’annessione alla Russia di Mongolia, Tibet e Cina, in cui prediceva che la dinastia Manciù⁴ sarebbe stata presto rovesciata, i suoi giorni sarebbero stati, a suo avviso, contati. Consigliava di cominciare subito un lavoro sistematico per affermare l’allora contenuta influenza russa sul Regno di Mezzo, in quanto sarebbe stato inevitabile, dopo la caduta della dinastia Qing, un intervento delle potenze occidentali. Badmaev si offrì di armare segretamente i Mongoli, corrompere i lama per portarli dalla propria parte, e di occupare una serie di punti strategici come la città di Lánzhōu, infine, di organizzare una delegazione che da Pechino venisse a chiedere al sovrano russo di accettare allo stesso tempo Cina, Tibet e Mongolia come parte dell’Impero: Gli Europei non sono ancora consapevoli del fatto come i Cinesi siano del tutto indifferenti a chi li governa, non importa quale sia la nazionalità o l’appartenenza dinastica, obbediranno senza molta resistenza, assicurava Badmaev.

    Idee simili erano già state esposte in passato. Nikolaj Michajlovič Prževal’skij, ufficiale dell’esercito russo, aveva già scritto circa la scarsa propensione dei Cinesi per gli affari militari, e della possibilità di conquistare rapidamente tutta la Cina. A suo parere, l’operazione avrebbe richiesto un esercito non molto più numeroso di quello di cui avevano disposto Cortés e Pizarro nella conquista degli Imperi azteco e inca. Ma a quanto pare il Rapporto Prževal’skij, destinato al Ministero della Guerra e ad Alessandro III, non aveva avuto seguito. Serge Witte presentò comunque il progetto Badmaev, accompagnandolo con una nota di commento: Tutto sembra così nuovo, insolito e fantastico, da rendere difficile il poter credere in una sua possibilità di successo. Malgrado la critica di Serge Witte, Badmaev ricevette tuttavia 2000000 di rubli d’oro e andò a stabilirsi nella città di Čita⁵ dove la prima cosa che fece fu quella di costruirsi una villetta nel centro della città. Da Čita intraprese poi diversi viaggi in Mongolia e a Pechino, tornando a San Pietroburgo solo tre anni più tardi, quando, venuto al trono, Nicola II gli rifiutò nuovi sussidi. Non c’erano stati risultati tangibili nelle attività di Badmaev, ma l’indirizzo per una futura politica imperiale era stato anticipato correttamente. La Russia si stabilirà in Manciuria, e verrà intrapresa la costruzione della Ferrovia Cinese Orientale, cioè il troncone cinese della cosiddetta Transiberiana, lì si sarebbero sviluppate la città di Harbin e la Mongolia Esterna. La Mongolia diventerà zona di espansione economica russa, e in Tibet, che Badmaev aveva chiamato la chiave dell’Asia, verrà inviata una missione segreta di ufficiali cosacchi di etnia buriata, mentre gli Inglesi, nel 1904, entreranno a Lhasa alla ricerca di inesistenti magazzini con depositi di armi russe.

    Quattro anni prima che il memoriale di Badmaev giacesse sul tavolo di Alessandro III, dunque nel 1889, Vladimir Sergeevič Solov’ëv era a Parigi, dove si era recato per partecipare a una riunione della Società Geografica. Tra il monotono pubblico vestito in grigio, la sua attenzione veniva attratta da un uomo in vestaglia di seta brillante: era un agente militare cinese, o come si diceva allora, l’Addetto militare della Rappresentanza Cinese: il generale Chen Tszitun (che Solov’ëv trascrisse Čen Kitong). Insieme a tutti gli altri Solov’ëv rise degli scherzi del generale giallo e si stupì della correttezza ed eleganza del suo parlare francese. Si rese poi conto che si trattava del rappresentante non solo di un mondo estraneo, ma anche ostile. Nelle sue parole: Vi esaurite in esperimenti continui e noi usiamo i frutti di quegli esperimenti a nostro favore. Siamo contenti del vostro progresso, ma non abbiamo necessità né voglia di prendervi parte: voi stessi state preparando gli strumenti che utilizzeremo per conquistarvi, Solov’ëv percepisce un senso di avvertimento per gli Europei. Non sapeva che quelle dichiarazioni erano la retorica consueta della diplomazia cinese dell’epoca, utilizzata al solo fine di ottenere prestiti finanziari dai paesi occidentali, che per quello scopo riteneva utile spaventare un po’. Le sedi europee sapevano che il Celeste Impero era irrimediabilmente decrepito, che il suo esercito era armato di fucili e alabarde, che l’unica difesa per proteggere le loro fortezze dai colpi di artiglieria moderna erano dei segni magici tracciati sulle mura; pertanto si capiva che il discorso di Chen Tszitun non era rivolto tanto all’esercito quanto piuttosto al pubblico impressionabile, utile cioè a influenzare l’opinione pubblica. L’aspettativa era che alla fine il Governo francese concedesse alla Cina il credito ambito per potersi a sua volta assicurare un potente alleato per il futuro.

    Sposato con una francese, autore di libri e articoli sulla stampa in Francia, Chen Tszitun era impregnato dello spirito dell’epoca e ponderava i suoi calcoli. Il giovane Solov’ëv era ossessionato dal pensiero della minaccia orientale, ma non era il solo; era una fobia dell’Europa tutta, comune agli intellettuali dell’epoca, e anche una metafora rivolta alla sempre più flebile spiritualità occidentale⁶.

    Ma ben presto le preoccupazioni di Solov’ëv saranno nutrite da altri fatti: il Kaiser Guglielmo II, impensierito dalla crescente forza militare del Giappone, prese a esagerare la questione del pericolo giallo nei confronti dello Zar Nicola II scrivendogli: Venti o trenta milioni di Cinesi formati con il sostegno di una mezza dozzina di divisioni giapponesi e una squadra di appassionati e irreprensibili ufficiali giapponesi astiosi verso i Cristiani, è il futuro che dobbiamo anticipare non senza agitazione. Nel 1895 inviò alle personalità europee di spicco, tra le quali lo stesso Nicola II, la riproduzione litografica di un dipinto per illustrare le sue preoccupazioni. Quella tela, che Guglielmo II spacciava per propria anche se ne aveva abbozzato solamente lo schizzo – era infatti stata realizzata dall’artista Knackfuß – rappresentava una figura femminile con un copricapo a simboleggiare la Germania, accompagnata da altre allegorie rappresentanti gli altri paesi europei, con di fronte, sospeso tra terra e cielo, il Buddha assiso su un dragone circondato da nuvole arancioni. Nel testo della didascalia si leggeva: Nazioni europee difendete i vostri sacri beni!. Tutta questa retorica camuffava gli interessi coloniali tedeschi in Cina, ma aveva anche un altro scopo: esortando lo Zar alla missione russa di difensore della croce e dell’antica cultura europea contro gli invasori mongoli e il Buddhismo, il Kaiser voleva distogliere l’alleato da avventure orientali concordate con Parigi. Solov’ëv non aveva idea che parallelamente Guglielmo II esortava il Giappone alla guerra contro la Russia, promettendogli una benevola neutralità.

    Gli ultimi anni di vita di Solov’ëv furono dominati dall’attesa della catastrofe epocale incombente dall’Estremo Oriente. Credeva sinceramente che il pericolo si sarebbe potuto superare conciliando il volto comune di tutte le nazioni europee attraverso la conciliazione delle confessioni cristiane, ecco perché scrisse: Pan-mongolismo! Benché selvaggio / Mi accarezza l’orecchio questo nome, / Nome pieno del presagio / D’un grande destino di Dio. Solov’ëv attinge le sue certezze da un libro dei missionari lazzaristi Joseph Gabet ed Évariste Huc, che soggiornarono in Tibet negli anni Quaranta del XIX secolo, in cui sono riportate alcune informazioni riguardanti il segreto della Confraternita o Ordine dei Kelani (dal tibetano kalon, come venivano chiamati i principali consiglieri del Dalai Lama) che avrebbe concepito progetti politici e religiosi grandiosi. Avrebbero infatti, secondo quanto appreso, cercato di prendere il potere supremo in Tibet, poi in Cina, per conquistare in seguito, con l’aiuto delle armate cinesi e mongole, il grande Impero degli Oros [la Russia] e il mondo intero prima della venuta del Buddha Maitreya che avrebbe stabilito la vera fede. Il riferimento era alla Profezia Kālacakra e alla guerra escatologica per Sham­bhala contro i non credenti. Solov’ëv, sostituendo nella sua Breve storia dell’Anticristo⁷ i Giapponesi ai Kelani – a quattro anni dalla futura guerra russo-giapponese – dà una descrizione impressionante, dai dettagli terrificanti, della futura invasione delle orde asiatiche in Europa. Solov’ëv scrive: Avendo saputo attraverso i giornali e i manuali di storia dell’esistenza in Occidente del pan-ellenismo, pan-germanesimo, pan-slavismo, pan-islamismo, essi (i Giapponesi) proclamarono la grande idea del pan-mongolismo, vale a dire dell’unione in un sol blocco sotto la loro egemonia di tutti i popoli dell’Asia orientale, con lo scopo di intraprendere una lotta decisiva contro gli stranieri, cioè gli Europei⁸. Questa ideologia puramente libresca, che il Giappone prenderebbe in prestito dall’Europa, secondo Solov’ëv, diventerà alla fine fatale per l’Europa. La profezia di Chen Tszitun, l’Addetto militare cinese a Parigi, si sarebbe avverata, anche se in un senso diverso: l’arma forgiata dall’Occidente per la propria sconfitta non sarebbe stata materiale, bensì ideologica. Da questo momento in poi gli avvenimenti si sarebbero sviluppati rapidamente, sarebbero state sufficienti una o due generazioni. Dopo l’occupazione della Corea e poi di Pechino, dove uno degli eredi dei Mikado, di padre giapponese e di madre cinese, si sarebbe affermato sul trono dei Qing decaduti, la nuova superpotenza avrebbe iniziato la conquista dell’Asia, e in seguito di tutto il mondo. Distrutta la struttura arcaica del Celeste Impero, il suo esercito sarebbe stato riformato da istruttori giapponesi. Accresciuta da Tibetani e Mongoli, l’armata avrebbe diretto i suoi attacchi verso sud-est, cacciando gli Inglesi dalla Birmania e i Francesi dal Tonchino e dal Siam. Più tardi, avendo fatto credere al Governo russo che l’esercito di quattro milioni di uomini riuniti nel Turkestan cinese fosse stato destinato a marciare sull’India, il Bogdyhan⁹ avrebbe invaso l’Asia centrale, occupato la Siberia e poi attraversato gli Urali. Sarebbero state mobilitate in tutta fretta divisioni dalla Polonia, da San Pietroburgo e dalla Finlandia, ma l’assenza di un piano militare preliminare e l’enorme superiorità numerica del nemico avrebbero fatto sì che le virtù marziali delle truppe russe non avrebbero permesso altro che di morire con onore. I corpi d’armata sarebbero stati massacrati l’uno dopo l’altro in combattimenti crudeli quanto disperati. Dopo la vittoria, il Bogdyhan avrebbe lasciato una parte delle sue truppe in Russia per dare la caccia ai gruppi di partigiani in costante aumento e attraversato con tre armate la frontiera della Germania. Una delle armate sarebbe stata sconfitta, ma nello stesso tempo in Francia avrebbe preso il sopravvento il partito della vendetta tardiva e presto la Germania si sarebbe ritrovata con un milione di baionette nemiche alle spalle. Trovandosi tra l’incudine e il martello Berlino si sarebbe arresa, i Francesi trionfanti avrebbero fraternizzato con i visi gialli, perdendo il senso della disciplina. Sarebbe poi arrivato l’ordine di sgozzare quei frivoli alleati divenuti ormai inutili, e che in una sola notte sarebbe stato eseguito con precisione cinese. A Parigi gli operai si sarebbero sollevati e la capitale della cultura occidentale avrebbe aperto allegramente le sue porte al Sovrano d’Oriente". Di conseguenza, l’intera Europa, seguita dal Regno Unito – che avrebbe invece saputo evitare questi orrori pagando la sua tranquillità con un miliardo di sterline – dall’America e dall’Australia – verso le quali sarebbero state inviate spedizioni navali –, avrebbe riconosciuto il suo vassallaggio al Bogdyhan.

    Per quanto riguarda il mondo musulmano, è semplicemente assente da questi disa­stri. Il destino dell’Islam non interessa Solov’ëv: per lui questa religione e i popoli che la professano appartengono interamente al passato.

    Le profezie della Breve storia dell’Anticristo erano ampiamente conosciute alla vigilia e durante il corso della guerra russo-giapponese. Poi, si cominciò a dimenticarle. Ma all’epoca della guerra civile in Siberia, epoca in cui la realtà aveva finito con il superare la fantasia – le divisioni giapponesi erano arrivate fino al Bajkal –, vi furono persone che tornarono a guardare alle profezie di Solov’ëv e a temere che la Storia stesse realmente seguendo il corso da lui predetto.

    Tra il 1918 e il 1919, sui giornali della Transbajkalia apparve regolarmente una corrispondenza sulla Mongolia di un certo Michail Volosovyč¹⁰. Nel correggere Solov’ëv con i fatti storici degli ultimi anni, ricordando che in Siberia ora l’orientamento nippofilo domina dal lago Bajkal fino all’oceano ed è capeggiato da un Buriato (un’allusione all’origine dell’atamano Semënov, Volosovyč delinea un suo pronostico per il prossimo futuro: Appropriatosi dell’idea germanica della sovranità mondiale e del superuomo, il Giappone organizzerà: Cina, Mongolia, Buriazia, Estremo Oriente russo, Manciuria, Corea e il resto sotto l’occhio bonario della razza bianca, e le condurrà contro la Siberia e l’Europa. L’Oriente nippofilo cadrà ai piedi di Tokyo come un frutto maturo. Quei popoli saranno spinti in Occidente con il solo ruolo di lasciarci le loro teste pour l’Empereur du Japon [in francese nel testo] e di pavimentare con i loro corpi la marcia trionfante dei Giapponesi. In prima linea ci saranno i Buriati, poi i Mongoli, seguiti a loro volta dalla principale carne da cannone: i Cinesi. I Russi dell’Estremo Oriente uccideranno i Russi di Siberia, i Russi d’Europa saranno spinti sugli Slavi dell’Europa centrale. In seguito sarà il turno dei popoli latini e anglosassoni di sperimentare gli orrori dell’invasione gialla. I problemi cominceranno con i ‘lavoratori consapevoli’, gli Europei saranno spazzati fuori dall’Europa o trasformati in schiavi dai visi gialli. Dopo l’esperienza di una guerra mondiale e gli orrori di una guerra civile, si sarebbe difficilmente potuto credere che la conquista dell’Europa da parte degli Asiatici avesse potuto portare prosperità e sincretismo religioso, e ciò che Solov’ëv pensava ai suoi tempi al confronto sarebbe potuto sembrare quasi idilliaco. Se la guerra tra due popoli di una stessa razza sarebbe stata terribile, ora, all’interno della stessa nazione, sullo scontro tra due razze ostili Volosovyč non si fa illusioni. Ma essendo un tipo d’uomo che cerca una causa unica alle catastrofi mondiali e crede in un mezzo miracoloso di salvezza, Volosovyč è persuaso che l’Occidente non possa che essere salvato dalla Mongolia forte della sua religione e spiritualmente pronta a unirsi sotto un unico capo, il sommo sacerdote di Urga¹¹, poiché i Mongoli sono antagonisti dei Giapponesi e dei Cinesi, abitanti di un paese dai grandi spazi, gente dallo spirito guerriero e indipendente. Ma bisogna fare attenzione a fargli comprendere che il loro interesse è di allearsi non con i Giapponesi, ma con la razza bianca. In questo caso, al tentativo del Giappone di dominare il mondo, quando le innumerevoli masse di obbedienti truppe cinesi si sposteranno a nord, la cavalleria volante mongola dovrà fare irruzione in Cina dove provocherà una tale confusione che i Cinesi avranno altro da pensare che partire alla conquista. Poi approfittando della confusione, gli Inglesi si lanceranno all’attacco dall’India e dal Tibet, e i Russi dal Turkestan; Pechino dovrà fermare la guerra, il Giappone sarà lasciato solo e sarà costretto a rinunciare alle proprie pretese.

    I cavalieri apocalittici di Solov’ëv vengono trasformati da Volosovyč in soldati di cartone, che, pieno d’ispirazione, sposta sulla carta del suo manuale di storia scolastico. La conclusione finale è formulata con la massima semplicità e brevità: Chi avrà l’influenza predominante in Mongolia, l’avrà anche in Asia centrale e orientale, poi nel mondo intero. In sostanza, si tratta della tesi che verrà rimaneggiata nel famoso Memorandum Tanaka¹². La stessa tesi potrebbe appartenere anche a Ungern, ma per lui, il male del mondo non è incarnato dai Giapponesi, come per Volosovyč, e vede il senso finale di un diluvio giallo diversamente da come lo vedrà Tanaka. Tutti e tre sono tuttavia d’accordo sul fatto che la strada verso l’egemonia mondiale passa attraverso la Mongolia. Ma se per Volosovyč e per Tanaka la Mongolia non è che una piuma che può far pendere da una parte o dall’altra il piatto di una bilancia dall’equilibrio instabile, per Ungern la questione è diversa. Per lui era cambiato poco dai tempi di Gengis Khan e la Mongolia gli appariva come l’ultima speranza dell’umanità, come un’isola in un mare di cultura borghese europea, l’influenza corruttrice della quale aveva già raggiunto il Giappone e l’immobile Cina.

    Le idee di Ungern si fondano sui temi del mito del pericolo giallo divulgato dal giornalismo russo, ma con segno opposto: Non vi è alcun pericolo giallo o bianco¹³. L’Oriente da aggressore diviene benefattore. Ungern ritiene che solo un’invasione asiatica dell’Europa possa portare una rigenerazione di quella forza interiore oramai esauritasi. Non c’è da stupirsi se nel suo programma di ristrutturazione radicale del mondo un posto importante viene dato al Buddhismo, la religione che Solov’ëv aveva considerato estremamente pericolosa per la civiltà cristiana, perché secondo Solov’ëv, a differenza dell’Islam l’idea di Buddhismo non è stata ancora vissuta dall’umanità. Molte persone, prima e dopo Ungern, hanno cercato sostegno spirituale in Oriente, ma nessuno ha cercato di connettere questo sostegno a un territorio, al fine di creare una base strategica per la lotta contro il Socialismo e il Liberalismo. L’insegnamento del Buddha interessava molti intellettuali russi e occidentali, ma Ungern stava per portarlo in Europa sulla punta delle sciabole mongole. Il Celeste Impero, benché crollato, rimaneva un modello da far rivivere per la salvezza dell’umanità.

    Come buddhista e predicatore del pan-asiatismo Ungern spaventava gli immigrati bianchi, ma era diventato anche un esempio ispiratore del successo che avrebbe potuto ottenere in Asia e in Europa, un Europeo che condivideva gli ideali dei nativi. Forse è in questa veste che Ungern, nei primi anni Sessanta del XX secolo, ha interessato la CIA: in lui hanno visto il tipo di Kurtz, l’eroe di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, per il quale il ruolo di leader di una tribù africana era anche il mezzo per raccogliere avorio per conto della Compagnia che lo aveva inviato nella giungla. Per esplorare l’esperienza del Barone baltico che divenne Khan mongolo e forse divinità vivente, la CIA raccolse una biografia dedicata alla sua memoria con articoli e documenti dispo­nibili in varie lingue¹⁴. Tuttavia, è improbabile che quello studio potesse avere una qualche utilità pratica. Si può simulare una parvenza attraverso la manipolazione, ma non la si può possedere; ricoprire un ruolo ma non farne la propria vita e il proprio destino. Per il resto, l’ideologia ungerniana è semplice, se non elementare. Catturato dai Rossi durante la prigionia egli, figlio di un dottore di ricerca dell’Università di Lipsia e nemico della società occidentale, intervenendo con la perentorietà di soldato con le parole deve ed è destinato ha esposto con parole sue il proprio credo: L’Orien­te deve scontrarsi con l’Occidente. La cultura della razza bianca, che ha portato alla rivoluzione delle nazioni europee, è stata accompagnata da secoli di generale livellamento, dal declino dell’aristocrazia, dal degrado e deve essere sostituita dal giallo della cultura orientale, che formatasi tremila anni fa è ancora intatta.

    Nel 1920, quando Ungern era sulle colline della Transbajkalia, nella bavarese Bayreuth, la città di Richard Wagner, l’allora ancora totalmente sconosciuto Adolf Hitler incontrava i membri della Società Thule. Uno di loro era Rudolf Hess, aggregato alla cattedra di Geopolitica presso l’Università di Monaco, diretta da Karl Haushofer, un ex addetto militare tedesco a Tokyo e futuro presidente dell’Accademia tedesca delle Scienze, le cui idee avranno una forte influenza sul giovane Hitler.

    Haushofer in particolare, avanzò l’ipotesi che la casa originaria degli Ariani fosse l’Asia centrale, l’attuale regione del Gobi. Circa tre o quattromila anni fa il clima sarebbe cambiato, le valli fiorite si sarebbero trasformate in deserto, le tribù ariane sarebbero allora partite per stabilirsi parte in India e parte nel Nord Europa. Di conseguenza, la loro casa ancestrale (Urheimat), la leggendaria terra di Thule, tradizionalmente identificata con l’Islanda o la Groenlandia si sarebbe invece trovata in Oriente. A supporto di questa tesi vi sarebbe stato anche il mito buddhista di Shambhala, il misterioso paese sotterraneo abitato dai saggi e dai giusti. Gli abitanti dell’attuale Mongolia, Tibet e Amdo sarebbero dunque da considerarsi come portatori della cultura esoterica e della tradizione di Shambhala. Si riteneva che la leggenda di Shambhala riflettesse in una forma fantastica la genesi degli Ariani, che stavano su un gradino della civiltà più elevato di quelle tribù che poi gli subentrarono e ne crearono il mito. Negli anni Trenta del XX secolo, l’ipotesi di Haushofer diverrà dottrina scientifica ufficiale del Terzo Reich. L’Asia centrale con la Mongolia e il Tibet diventeranno la patria originale dei Tedeschi, il cuore mistico nascosto del mondo. Dall’affermazione di Volosovyč che il maestro della Mongolia è il maestro potenziale del pianeta al Memorandum di Tanaka il passo è breve, perciò non stupisce l’indistruttibile convinzione di Ungern che l’edificazione del nuovo mondo non possa che partire dalla Mongolia.

    Le idee di Haushofer echeggiano una tradizione che risale a Helena Petrovna Blavatsky e alla sua Dottrina Segreta. Riferendosi ad alcuni manoscritti provenienti dai monasteri himalayani, la Blavatsky sosteneva che in Tibet vi fossero dei centri di conoscenza sacra per la salvezza dell’umanità, abitati da semidivinità: gli anziani Mahatma.

    Qualche tempo dopo, il francese Joseph Alexandre Saint-Yves d’Alveydre¹⁵ localizzava la loro sede, attraverso dei messaggi telepatici che sosteneva di aver ricevuto dal Dalai Lama. Saint-Yves descrisse in dettaglio la città santa di Agarttha sotto l’Himalaya, i cui abitanti segretamente controllerebbero il corso della storia del mondo attraverso il loro Re del Mondo. Infine nel 1922, a New York verrà pubblicato il libro di Antoni Ferdinand Ossendowski, Bestie, uomini e dei¹⁶ che avrà un enorme successo su entrambi i lati dell’Atlantico. Il libro fu letto da Sven Hedin e in Germania tra i suoi lettori vi furono Hess, Haushofer e forse lo stesso Hitler, mentre nella Russia sovietica fu quasi certamente letto dall’esoterista Aleksandr Barčenko che inutilmente cercherà di convincere i dirigenti della Čeka¹⁷ sulla possibilità di mettere Shambhala al servizio della rivoluzione mondiale. Ossendowski sembra riportare solo impressioni personali, presumibilmente riflessioni nate dai racconti di principi e lama della Mongolia, ma le sue storie pittoresche sul sotterraneo Regno di Agarttha forniscono nuovi spunti alla fantasia mistica francese. A Uliastaj, ecco quello che il Principe Chultun Beyle, poi assassinato su ordine di Ungern per aver cooperato con i Cinesi, aveva riferito a Ossendowski: Più di sessantamila anni fa un santo scomparve nel sottosuolo con un’intera tribù e non riapparvero mai più sulla faccia della terra. Tuttavia da allora, molte persone hanno visitato quel regno: Śakiamuni, Undur Gheghen, Paspa, Khan Baber e altri ancora. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Il suo sovrano, il Re del Mondo, conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino. Egli governa non visto ottocento milioni di uomini sulla superficie della Terra ed essi seguono ogni suo ordine.

    Il libro di Ossendowski venne pubblicato un anno dopo la morte di Ungern, ma ciò non significa che non fosse a conoscenza del suo contenuto, in quanto Ungern e Ossendowski si conoscevano personalmente e avevano parlato insieme per ore nel maggio del 1921, alla vigilia della Campagna mongola del Bajkal. Si diceva che Ossendowski avesse acceso il misticismo del Barone.

    Tornando a Ungern, il Barone Pëtr Nikolaevič von Vrangel’¹⁸, che comandava il Reggimento in cui serviva Ungern durante la prima guerra mondiale, diceva di lui che un’intelligenza viva e penetrante coesisteva con uno spirito sorprendentemente roz­zo, ma questa caratteristica di una certa arroganza viene combinata con il limite di una rozzezza che è solo apparente. Ungern conosceva diverse lingue e leggeva molto. Nell’attestato rilasciatogli nel 1913 dal comandante della sua sotnja, lo squadrone a cavallo di cui faceva parte¹⁹, si può leggere come fosse abbonato a diverse riviste e come si interessava alla letteratura tanto generale che specializzata. Ma quali fossero queste letture è impossibile sapere con certezza; né dalla sua corrispondenza, né dagli atti dei suoi interrogatori in prigionia, risulta alcun riferimento ad autori o libri, tranne che alla Bibbia. In tutti i casi le sue letture dovettero essere ben diverse da quelle dell’intellettuale liberale Vrangel’.

    Stando ai racconti, fin da giovane Ungern aveva una predisposizione per la filosofia e probabilmente considerava la Bibbia una sorta di libro filosofico, che lui per comodità aveva scomposto in singoli fogli e in questa forma lo portava con sé, ma filosofia per i suoi compagni d’armi poteva essere tutto tranne le belle lettere, incluse le opere che riguardavano l’occultismo e la neo-mitologia.

    Gli uomini politici che hanno un certo senso del proprio sé – che Cromwell espresse nella nota formula la freccia nella faretra di Dio – non sono rari nella storia, ed è pur vero che nel XX secolo la tradizionale nozione di Dio si era banalizzata e che gli uomini di quella specie hanno cercato altri centri di potere.

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